Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Il Lessico” di Raffaele Giannetti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Apro il Lessico a una delle pagine più lontane, verso la fine, come se volessi scavare di più, ma poi penso che nei libri questo non vale. Non è come negli album di fotografie. Anche se, in questi, per tornare indietro, bisogna scavare il meno possibile e non affondare troppo (forse è per questo che mi piace sfogliarli dall’ultima pagina alla prima, per avere l’impressione di procedere a ritroso nel tempo, sempre più lontano). Peccato che negli album le fotografie siano messe così, dico nel senso della vita che passa; anche se in fondo è giusto. Ma nei dizionari le parole non sono certo in ordine cronologico e non si corre questo rischio.

In camera da letto, quella dei miei nonni, c’era l’armario, come dicevano loro, e sopra il letto un bassorilievo di coccio, con la Madonna, che mi ha guardato fino a quando non sono diventato grande, perché io stavo spesso da loro. Nell’armario, però, non c’erano le armi: ci tenevano i vestiti, come tutti. Solo i dizionari etimologici ci vorrebbero tutti cattivi e impauriti: l’armadio, così si dice, deriverebbe, per dissimilazione di r in d, da armario, a sua volta derivante dal tardo latino armarium e significherebbe ‘deposito di armi’. Nel Lessico, invece, c’è scritto chiaro chiaro che negli armadi di tutti i nonni e di tutti gli avi, e non solo i miei, ci sono sempre state le «armi», o «arme», ma quelle degli stemmi, cioè le divise o, per dirla in inglese, «arms», cioè maniche o simili, con arabeschi e ricami. Forse se Emilio ci avesse tenuto le armi, nell’armario, la storia sarebbe andata diversamente, almeno quando lo piantonavano con la febbre alta, prima di portarlo via. Forse, però, sarebbe andata peggio. Speriamo in un’umanità più pacifica.

C’è madeleine e madeleine. Io ho il Lessico, e vi trovo, lemma dopo lemma, tutta la mia infanzia, attaccata a queste parole che nessuno usa più, e che oggi tutti sprezzano. Il fatto è che non si possono raccontare le cose con le parole sbagliate, e ora, leggendo, mi vengono in mente scene della mia vita che credevo dimenticate. Capirete anche che faccio fatica a staccarmi dal modo consueto e professorale di esprimermi, quello in cui ormai mi riconosco e in cui, soprattutto, mi riconoscono gli altri. E dovrete aver pazienza, e chiedere alle parole ora più e ora meno.

Capisco, scrivendo questi ricordi, che l’uso di una lingua moderna, attuale, renderebbe forse più austero il ricordo e, almeno per voi, più veritiero. Ma dovete credermi se dico che è più viva l’immaginazione che nasce da queste vecchie parole.

«Babbo». Siamo a pagina 24.

Il mi’ babbo era una persona straordinariamente buona. Faceva ’l falegname. E la mi’ mamma faceva la sarta ed era la musa della casa. Lei ce l’aveva tutto ’l giorno coll’orìci, i cugni e i puntimolli (lo scrivo così, tutto intero, perché è un po’ più arcano, com’era per me). Quanto all’orìce, che è un orlo, cioè un lembo di stoffa ripiegato, io credo che sia connessa con l’orecchio, con la forma del timpano, appunto ripiegato su se stesso, per così dire orlato. Allora, naturalmente, non potevo saperlo. Doveva essere fatta per bene, l’orìce, sennò sgricciava. Si conosceva in pochi, e io solo per via che la mi’ mamma faceva la sarta. Ma anche cugno era una parola magica, e serviva a far l’avvitatura dei vestiti. Ecco, cugno… cioè cuneo, nel linguaggio sartoriale ‘taglio nella stoffa a forma di triangolo o losanga, per ottenere un tronco di cono’. Ma anche questo non lo sapevo.

Ora sono a pagina 37 del Lessico. Comunque sia, intorno al tavolo e alla macchina da cucire, si ragionava in continuazione. Le sarte e le donne sono tutte un po’ muse. La mi’ nonna, poi, fin quando c’è stata, mi raccontava sempre di Caino, nelle notti in cui la luna era offuscata da un alone, e mi diceva: – Caino ci ha messo le fascine! È turbo – E quando ho letto, più tardi, il secondo canto del Paradiso, mi sono venute le lacrime agli occhi, e ho ripensato alla mi’ nonna Margherita e alle sue storie.

Come potete immaginare, non è facile procedere nella lettura del Lessico.

Ecco l’afrore, quello del vino (sono a pagina 9).

Rivedo le scale e i mattoni che vanno in cantina e ne sento l’afrore. Quando incontro questa parola – sempre più di rado – mi viene in mente quel rosso violaceo, misto di vinaccia e d’aceto. D’inverno, anche le mani diventavano paonazze, quando veniva la neve e si faceva a pallate. E l’afrore mi ricorda anche il naso del mi’ nonno, che il vino gli piaceva, e mi portava da Pisquillo, dove ho bevuto il mio primo gotto. Da Pisquillo qualcuno diceva che a volte il mi’ nonno ci ritornava un po’ troppo arzillo. Ma era una mala lingua. E se anche tanto mala non fosse, vi dico che lui, il mi’ nonno, aveva fatto una vita tale e n’aveva passate tante – non sto a rammentarle – che qualche gotto di vino in più non gli faceva male. Era un gotto, dico io, bevuto in barba alla cattiveria del mondo.

In un attimo sono allo zenzero. Mi spiego: ormai lo trovo prima nella mia mente e poi sulle pagine del Lessico. La vicenda si è rovesciata. Eccolo, quasi alla fine, a pagina 175, in compagnia d’altri termini familiari ed evocativi: zinale, zízzola e zozza. Mi raccomando, quest’ultima – questa bevanda torbida e imbevibile, turba come il cielo di Dante e della mi’ nonna – va letta con la «o» aperta, proprio come quella di nonna, e la zeta dolce (nel Lessico ci ha una zampettina in giù) come quella di zenzero; che per noi è il peperoncino, e che, nella minestra serale, era sempre poco.

Vedo, però, che il libro ha ancora la sua funzione. C’è dentro un alfabeto che non è quello della vita, che non è mai ordinata dalla A alla Z, anche se noi facciamo tutti gli sforzi per farla sembrare così. Non c’è lo stesso ordine, ma le parole ci sono, quasi tutte. E così, a leggere tutto il Lessico in fila, si farebbe uno zig zag nei nostri ricordi, mentre a rimettere in ordine la nostra vita, passo passo, si scriverebbe un alfabeto davvero strano. Ognuno di noi ci deve avere il suo. Il mio non parte dalla A.

Lo zinale del mi’ nonno, di Emilio, era sempre pulito, nonostante qualche macchia di pece, indelebile. Lui faceva il calzolaio in una botteghina vicino al negozio di alimentari. Sempre a capo chino. Sullo zinale teso teneva la lesina e le setole. Quanto alla zízzola, si trova in tutte le mie mattine invernali, quando andavo a scuola. Ma l’aria rigida e pungente dell’inverno fa bene.

Io credo di essere stato molto triste, perché era molto triste la mi’ mamma: in tempo di guerra gli portarono via il su’ babbo, lo portarono in Austria, a Mauthausen. Dico queste cose perché gli avvenimenti della vita durano e non si scordano facilmente: sono come dei segni tracciati su una pagina del Lessico, tanto per dire. E dico gli portarono via, a la mi’ mamma, perché fa più male, è più sgarbato: se avessi detto le portarono via, avrei dato una qualche idea di gentilezza, magari da parte di quegli aguzzini. No, il tutto fu solo brutale. E se il mi’ nonno è diventato il su’ babbo è perché è più sopportabile, almeno per me.

Ancora una volta dovete constatare la mia difficoltà a lasciarmi andare, a staccarmi da queste mie abitudini e a tornare indietro nel tempo, semplicemente. Mi giustifico, però, dicendo che una sorta di vergogna mi richiama all’oggi.

Mi metto a sfogliare all’indietro, e arrivo a un bàule (e baùle e baulle).

In casa nostra c’era un bàule, e per tutti era così, con l’accento sulla «a». Ora, quella non è più la mia casa. Io sto di sotto, ma il bàule è rimasto ne la casa dei miei genitori, sempre lì nell’angolo de la camera. Come vedete, la mia gioventù, è fatta in gran parte di preposizioni non articolate, come quelle di Dante, del resto. Ciò mi aiuta a recuperare il passato, a evocarlo.

Qualche volta, credo, ho rinnegato il piacere de la memoria e, forse anche in presenza dei miei, ho commesso un peccato di superbia, come se la vita trascorsa avesse meno valore per me: l’ho chiamato baùle. Magari loro erano contenti e dicevano «Raffaele ha studiato».

Quando aprivo il bàule mi sembrava di entrare nell’albero cavo delle favole e di scendere giù fino al tesoro, come nell’Acciarino magico. Insomma, i bàuli assomigliano agli alberi, perché sono di legno e portano sempre a un aldilà. Ma allora non lo sapevo, anche se forse lo avvertivo: quando lo aprivo, mi pareva di sentirlo, il bau del cane, anche se non distintamente. I cani stanno nei bàuli – dico io – perché fanno bau. Ora so che i bàuli assomigliano agli alberi cavi. Io sono contento che il mio fosse un bàule, altrimenti tutto questo non sarebbe successo.

Non vorrei tornare a quand’ero piccino, io no. Il mondo, tutto sommato, mi sembrava più brutto. Non solo in senso morale, dico. Non vorrei tornare indietro, soprattutto per paura di perdere quella coscienza che ora è il mio sostegno. Non vorrei essere diverso da come sono, perché mi sembra di essere uscito da una trappola, che è quella dell’infanzia, con le sue incertezze e la sua ignoranza. Può sembrare strano, ma sentirsi altrove, come oggi, è la scoperta dell’io e, direi, dell’uno.

Quando mi rivedo nell’orto de la mi’ nonna, mi chiedo sempre dove fossi prima d’allora. E se per la prima volta mi vedo lì vicino alla pianta di cedrina e al ramelino, significa che anche allora me lo chiedevo. Forse è per questo che sono stato sempre triste. Poi mi sono abituato.

È bastato poco, davvero poco, perché le immagini della mia infanzia prendessero un sapore di vecchio. Penso che sia questa la nostra salvezza, questo voltafaccia della memoria, questo stingersi delle vecchie foto. Nel bàule dei miei ricordi non c’è più il candore d’una volta. Il tempo non passa invano, per fortuna.

Passo rapidamente in rassegna – per disfarmene, questa volta, e rinchiuderli per sempre, come faccio col Lessico – quei giorni e quei giochi intristiti. Quelle mattine erano fatte di letti scompannati o di panni ammontinati; di carbolina insopportabilmente acre, di fette di pane crogiato e di corteccioli un po’ rinseccoliti; erano fatte di una bigernia quasi volgare, di tempo passato senza compicciare nulla, vicino al fontino, nell’orto; tempo fatto di frignastei, di denti dringolanti, di febbre panaia; tempo imprevidente – e un po’ balucano – passato a nazzicare senza scopo o a pittolare, tempo nefoso, infingardo come i citti dai ginocchi gnudi, e sempre dietro a’ gazzillori o alle racanelle sul muro estivo, e sempre pronti ad attriccarsi; tempo fatto di pullére nelle mani e di ranzagnoli domenicali, di quelli per tirare la pasta. Quel tempo, gravato com’è di dolore famigliare, si è fatto vecchio, come il ragazzo dai bracci secchi.

Una distanza incolmabile ci divide per sempre. Siamo alla fine del nostro tempo e del nostro alfabeto: ed era tempo sciattato, sempre gironzoloni a ruzzare a ringuattarello con la vita, a ruzzarci con la zeta di zenzero, con la zampettina in giù.

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1 commento »

  1. Straordinario questo racconto. Complimenti davvero! l’uso del linguaggio come veicolo di recupero del proprio passato è molto suggestivo e di grande interesse. Lo definerei una ” Recherche” del tempo perduto, del proprio io, che si realizza da un lato attraverso la parola ritrovata, e dall’altro grazie alle numerose allitterazioni, assonanze e onomatopee, che conferiscono al testo un ritmo poetico.

    Alessandra Ponticelli Conti

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