Premio Racconti nella Rete 2016 “Il Battito” di Massimiliano Andreoni
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016“Tic tac, tic tac, tic tac”. Quel ticchettio era inesauribile, inspiegabile, agghiacciante ma attraente al tempo stesso. Fred saliva le vecchie scale della torre medievale sempre più in fretta, sempre più con il cuore in gola, con un solo obiettivo in testa: scoprire che cosa fosse.
Le scale erano vecchissime, piene di ragnatele, scarafaggi, e altre strane…creature, probabilmente insetti, ma mai visti primi, e ogni due o tre passi emettevano uno scricchiolio che non lasciava presagire niente di buono.
L’aria era scura, le poche finestre tutte appannate, o sporche, la luce entrava a stento, e si avvicinava l’ora del crepuscolo. Fred accese la piccola torcia che aveva nello zaino, e continuò ad avanzare. Non era esattamente paura l’emozione che percepiva: c’era un misto di curiosità, timore, speranza, fiducia. Quest’ultima probabilmente infondata, come gli avrebbe ribadito il suo amico Michele se fosse stato lì: “Scusa, ma come fai a dare credito ad una tipa, mezza zingara e mezza fattucchiera che ti ha estorto dieci euro per leggerti le carte e poi ti ha detto che avresti dovuto salire sulla vecchia torre, ma dai…?!”
Ma Fred aveva seguito il suo istinto, quello stesso per anni lasciato marcire in cantina, quello stesso che negli ultimi tre mesi lo aveva “costretto” a mettere sotto sopra tutta la sua vita, a rovistare tra i ricordi, spesso dolorosi, ad affrontare le relazioni attuali, spesso bloccate, e tentare di spiccare il volo. Forse la torre aveva un nesso con quel volo? Forse dalla sua sommità, dove da sempre nidificano le rondini, avrebbe potuto idealmente lanciarsi verso una nuova vita?
Mentre questi pensieri affollavano la sua mente si accorse che i gradini erano terminati. Davanti a lui si apriva un piccolissimo pianerottolo, capace di contenere al massimo tre o quattro persone, e alla sua destra una porticina, malmessa, tutta sgangherata e polverosa. Fred girò la manopola, ma la porta non si apriva, evidentemente era chiusa a chiave. Osservando l’ambiente vide un chiodo arrugginito da cui pendeva uno spago quasi trasparente, tanto era vecchio, con una chiave penzolante alla sua estremità. Strappò la chiave, la infilò nella serratura e si trovò in una grande stanza, piena di oggetti, piena di storia, ma la storia di chi? Tavoli, sedie, quadri, tende, lampadari, tappeti: gli sembrava di essere finito in un buco spazio temporale che lo avesse proiettato in un’altra epoca. La luce penetrava, timidamente, da un paio di finestre, con gli scuri non del tutto serrati, mentre lentamente il fascio della torcia di Fred provava ad illuminare gli oggetti.
Ad un certo punto la sua attenzione fu catturata da un riflesso: davanti a lui spiccava, poggiato alla parete più grande della sala, uno specchio. Era molto grande, sarà stato alto almeno tre metri e largo almeno la metà. Prima di avvicinarcisi aprì un po’ di più gli scuri di uno dei due finestroni, per vedere meglio, e poi ci si pose davanti.
Attese alcuni attimi, sentiva solo il rumore del proprio respiro, inaspettatamente era cessato ogni cigolio, nessun rumore, un silenzio quasi irreale. Ed era scomparso anche il battito, quel battito che lo aveva condotto fin lì. Guardò meglio e nello specchio vedeva molto bene se stesso: i capelli grigi, la barba curata, le sopracciglia che non erano stranamente mai invecchiate. E poi le scarpe da tennis, i jeans, e il giubbotto leggero su cui cadeva un’estremità del foulard. Poi, all’improvviso, qualcosa sembrò muoversi. Si stropicciò gli occhi, un po’ incredulo, ma c’era una leggera nebbiolina nello specchio, una nebbia particolare, quasi di color azzurro. Fred roteò gli occhi per guardarsi intorno, ma non c’era traccia di nebbia, quella foschia era solo nello specchio.
Si diede un pizzicotto, per capire se stesse dormendo, ma era ben sveglio. Iniziò ad osservare meglio lo specchio, perché al di là della nebbia sembrava animarsi qualcosa. Vide allora un neonato, prima piangere, poi ridere, tra le braccia di una donna, poi dentro una culla, infine in un grande letto coperto con un panno di quelli che non si usano più. Quel volto era familiare, quelle scene erano familiari, e non ci mise molto a comprendere che erano scene della sua vita. Nell’istante esatto in cui realizzò questa certezza, in cui cuore e mente si unirono in un’emozione indicibile, il ticchettio ricominciò, molto più intenso di prima, sempre con la stessa tempistica: “Tic, tac, tic, tac, tic, tac”.
“Com’è possibile?”, pensò tra sé, anzi, non lo pensò, lo disse, muovendo le labbra. Ma mentre lo diceva il suo sguardo era irresistibilmente attratto, come una calamita, da quello specchio e dalle scene che “stava proiettando”. E vide sorridendo se stesso che gattonava per le stanze della casa, e due braccia che lo sorreggevano. E ancora contemplò estasiato il volto di sua madre, il suo sorriso, quelle gambe altissime, che da piccolo gli sembravano infinite, e quelle scarpe che indossava, sempre con il tacco, anche in casa.
Di che cosa si trattasse esattamente Fred non riusciva davvero a capirlo, ma la cosa gli piaceva, tanto che decise di sedersi per terra. Intanto la vita, la sua vita, scorreva velocemente davanti ai suoi occhi, e la cosa buffa è che riusciva a vedere soltanto i momenti di felicità e di gioia, quasi che quelli più duri, quelli dolorosi, li avesse già affrontati altrove. Ed ecco momenti della sua adolescenza, le prime cotte, la discoteca, i viaggi, le speranze. E poi lo specchio si popolò di nuove figure, altri bambini, di nuovo piccoli e poi sempre più grandi: sì erano proprio i suoi figli, e nello specchio ora viveva la sua esperienza di padre. Fred era commosso, ed aveva quasi smesso di fare caso al ticchettio che, imperterrito, riempiva ormai tutta la stanza. Ma ad un certo punto le immagini si fermarono. Fu come se la pellicola avesse incappato in un fermo immagine, dove c’era lui con i suoi ragazzi. Fu a quel punto che il rumore destò nuovamente la sua attenzione, quasi un ritorno alla realtà, dopo l’immersione in quel turbinio di emozioni e di scene già vissute.
Si alzò e cercò di capire da dove provenisse quel suono. Ad un certo punto scorse all’altra estremità della stanza un orologio a pendolo. Era molto alto, più di lui, e con sua grande sorpresa, era in funzione e segnava anche l’ora esatta. Gli si avvicinò, e con una mano provò a togliere un po’ di polvere al quadrante. Nella parte sottostante l’orologio notò un’altra serratura. Memore della porta osservò il muro lì vicino, a destra e a sinistra e intravide un’altra cordicella di spago ed un’altra chiave. Staccò anch’essa e la inserì nella serratura. Lentamente aprì lo sportello. Appena girata la chiave nella fessura il battito cessò e nella penombra udì una voce che gli diceva: “Buonasera Fred”. L’uomo fece un balzo all’indietro, istintivamente. Poi con un bel respirò provò ad avvicinarsi nuovamente, allungando il viso davanti al corpo. “Non avere paura”, ripeté la voce, “Non voglio farti del male”.
“Chi sei tu? E dove sono capitato? Anzi che cosa mi sta accadendo?” chiese Fred a colui che ancora non aveva potuto vedere. “Quante domande, calma, c’è un tempo per ogni cosa, intanto fammi uscire da qui”. Ed ecco che un omettino, poco più alto di un metro e trenta, prima con un piede e poi con l’altro, uscì dal pendolo. Cominciò a scuotere le gambe, i piedi, a togliersi dalle braccia e dal corpo chili di polvere, a dimenare la testa e a pulirsi i capelli, che, se erano sembrati bianchi ad una prima impressione, apparvero dopo pochi istanti, neri come la pece.
“Davvero non hai ancora capito?. “No, non ho capito niente”. “Niente accade per caso, c’è un destino per ognuno di noi, io almeno lo chiamo così, altri lo chiamano diversamente. E’ il destino di felicità che le stelle hanno scritto per noi, sarebbe sufficiente seguirlo, ed abbiamo una bussola fantastica, il nostro cuore. Ma spesso, troppo spesso, lo dimentichiamo, e quindi perdiamo la strada. Tutto qua. Tu hai capito già da un po’ di tempo di averla ritrovata e hai capito come si fa ad ascoltare il cuore, finalmente. Oggi hai incontrato la zingara, non era lì per caso, sei salito fin quassù, ed anche questo era scritto da qualche parte. E quindi qualcosa deve ancora succedere. Quella che hai visto scorrere nello specchio era la tua vita, anzi, i momenti di felicità della tua vita. Belli vero? E quanti, non dimenticarli, mai!”
Fred era incredulo, con la bocca aperta. Sapeva di essere sveglio ma non riusciva a credere a quello che gli stava accadendo. “Ma tu chi sei, esattamente?”, domandò all’ometto, con un’aria un po’ sbigottita, tra la curiosità e l’inquietudine. “Io sono il ricordo di qualcosa”, rispose lo strano ometto, che, mentre parlava, si posizionò in un punto della stanza dove la luce illuminava più chiaramente, e, fuori dalla penombra, si mostrò in tutte le sue fattezze: una giacca sgualcita, un papillon blu come la notte più profonda, un panciotto stile anni ’30, dei pantaloni pieni di polvere e di muffa, e due scarponi che pareva aver rubato ad un clown del circo. Ed uno strano, ineffabile, profondo sorriso spalancato sulle labbra.
“Ehi, ma mi comprendi? Forse non parli la mia lingua? Ti ho detto che sono il ricordo di qualcosa!”, ribatté l’ometto, con un tono ben più deciso. “Sì, sì, ho capito, o almeno credo”, rispose a quel punto con un balbettio appena percepibile Fred. “Ma scusami, puoi essere più chiaro: di quale ricordo si tratta?” aggiunse, ricordando il suo coraggio che raramente lo aveva abbandonato. “Ah allora ci sei, finalmente, pensavo che tu avessi fatto tutta questa faticaccia per niente. Sì, sono il ricordo di un amore, di un amore sospeso, di un amore antico, di un amore che hai dimenticato, o forse lo hai creduto, e se sei qui significa che sei pronto a ricordarlo, e, forse, anche ad accogliere le conseguenze di tutto ciò!”
Fred rimase ancora più sorpreso da questa rivelazione, ma c’era anche qualcosa di potente, di attraente come una calamita, in quell’essere, in quello che diceva, e soprattutto in quello che lasciava intendere. Decise di avvicinarsi, fece un passo avanti e strinse forte la mano del suo interlocutore. Una scossa fortissima lo attraversò completamente, dalla punta dei piedi all’ultimo capello, gli interruppe il respiro e svenne, cadendo a terra.
Si svegliò di soprassalto. Il letto sembrava il campo di una battaglia, cosa che non succedeva mai, anzi, generalmente i suoi movimenti notturni erano molto limitati. Aprendo gli occhi osservò le cose intorno a sé, le pareti arancioni e piene di foto, le pile di libri e fumetti, il computer a terra, il telefono in un angolo del letto, i fogli di appunti stropicciati. “Tutto regolare”, pensò tra sé e sé. Dunque era stato un sogno? Un po’ troppo reale per essere solo un sogno, un po’ troppo a tre dimensioni, un po’ troppo forte. E ascoltando un po’ più anche il suo corpo, notò che la mano destra, quella che aveva stretto la mano dell’ometto, era ancora indolenzita, quasi ricordasse ancora la scossa elettrica.
Si vestì velocemente e scese al piano di sotto. Decise di non prepararsi il caffè come faceva di solito. Si era ricordato di un appuntamento e, ovviamente, era in ritardo. Uscì, chiuse la porta di casa, indossò il casco e partì in moto. L’altra persona era fortunatamente più in ritardo di lui, e l’incontro di lavoro fu abbastanza semplice e rapido. Ma la testa di Fred era altrove, era rimasta alle parole del tipetto dell’orologio, e soprattutto queste tre…: ”Un Amore Sospeso”.
Terminato l’incontro aveva bisogno di qualcosa di forte. Lì vicino c’era una delle sue pasticcerie preferite. Ci arrivò in un attimo. Entrò soprappensiero, ordinò un caffè senza fare troppo caso alle persone che affollavano il locale. Velocemente si recò alla cassa a pagare il conto e alle sue spalle sentì la voce di una donna che gli diceva: “Ciao Fred Rosetti”. Era una vita che non si sentiva chiamare per cognome ed era una vita che non sentiva quella voce. Si voltò e vide, in mezzo alla gente, sorridente, Ginevra, la sua compagna delle scuole medie, la sua fidanzatina. Ebbe un attimo di smarrimento, che fu molto evidente, tanto che Ginevra continuò: “Scusa, mica farai finta di non riconoscermi, dai non te la tirare!”, e accompagnò questa frase con una fragorosa risata. Fred affrontò l’imbarazzo e lo sconvolgimento, si avvicinò alla donna, e mentre le sussurrava un “Ciao” molto lieve, le baciò una guancia e, quasi inavvertitamente, le sfiorò una mano con la sua. Improvvisamente lui e Ginevra furono attraversati da una sorta di scossa elettrica, come quella che in inverno si percepisce toccando l’auto o sfiorando i piumini indossati, ma Fred la riconobbe subito, era la stessa del sogno, stessa intensità, stessa forza, stessa emozione e, guardando Ginevra, riconobbe anche lei.