Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “Turning Point” di Filippo Cartosio

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Gli appuntamenti di lavoro schedulati in giornata dal Fiz erano tre, alle 10 un centro media, alle 12 un cliente toiletries da 300k e alle 15 lo staff meeting settimanale per ribaltare i suoi sales pericolosamente in ritardo sugli obiettivi del terzo quarter. Poi alle 18 una sessione di 70 minuti alla BodyVip col nuovo personal Herculano da Silva e infine alle 20 un momento business/leisure allo Spazio Hangar Design, dove lo aspettava l’evento di WoboGodoDigiMedia, l’editrice all digital del Bigetti, suo vecchio amico a cui fra l’altro aveva in animo di proporre una partnership veramente dirompente. Per quell’incontro serale si era preparato un’irresistibile selling proposition, ma ora, al volante del Road Killer nero di 5 metri e 60 con cui stava scannando in Melchiorre Gioia diretto al primo appuntamento, non c’era verso di metterla a fuoco: lo distraevano le continue notifiche di matching che gli piovevano sullo smartphone, con gentili suoni orientali, da Pantegana.com, la app di dating per fare ons con donne brutte, di cui per motivi commerciali era stato early adopter, hard user e top ambassador, causa ed alibi di una vergognosa schiavitù.

“Questo” pensò Orto quasi sciogliendosi. E guardando con fastidio oltre la finestra dell’ufficio il grigiore nefasto dei tetti di Semolinia, mandò in stampa la pagina Linkedin. Lo sfolgorante job title della vacancy era ‘head of digital happyness’ e a lanciare una call così disruptive, così challenging, infrangendo ogni vetusta convenzione di senso, era WebRocket, una go-to-web agency la cui elettrizzante mission era, se aveva ben tradotto il company profile, cambiare i paradigmi, contaminare le culture professionali, smaterializzare i processi, trasformare aziende in ‘lovebrands’. Fra i requirements – 27 voci una più demanding dell’altra, una specie di SuperIo persecutorio in forma di elenco puntato che lo minacciava dall’alto di un trono con occhi divampanti e mento virile, ma vellicava il suo amore per le sfide impossibili – lo avevano colpito la disponibilità a lavorare ‘around the clock’, la capacità di seguire un progetto ‘womb to tomb’ e l’attitudine ad essere naturalmente ‘eye-to-eye’ con la brand equity del cliente. Ma più del job title parossistico ai limiti del dadaismo, più del fervore evangelizzatore del company profile, più dell’estremismo sfidante dei requirements, a mandarlo in visibilio, spingendolo a precipitarsi a fare l’application, era stata la fantasmagorica location della dot.com: WebRocket infatti era in 47SkySpace, 900 metri di co-working disseminato di startup digitali al 47° piano dell’Isozaki Building in CityLife, lassù, nel cloud, dove lo spirito rovente della creatività si slancia nel cielo cristallino dell’innovazione, e si muovono freneticamente su decine di progetti eserciti di jeans skinny, frangette, occhiali grossi, ciuffi spettinati e camice optical abbottonate fino al mento. L’eden. 

Erano le 20.45, il planning della giornata era stato quasi rispettato e il Fiz, che aveva scaricato tensione facendosi massacrare per oltre un’ora sulla panca da Herculano, diede un’occhiata distratta all’invito su cartoncino glossy, sul quale era pinzato un braccialetto di gomma bianca con chip, imprescindibile vip-area pass.

WoboGodoDigiMedia Experience

Upfront e Party

25 maggio 2016

Spazio Hangar Design 71

Fulvio Testi 71, Milano 

8 p.m. Registrazione ospiti

8.30 p.m. Fusion finger food by Germando Chef

9.30 p.m. Upfront

10.30 p.m. till late Djset by Romiro De La Vigne 

*Vip area: Open bar by Milano Lounge (white bangles only) 

Dress code: young urban creative

La ghiaietta del park dell’Hangar scricchiolava con suono allegro sotto gli pneumatici oversize del suo 6 metri, mentre lui si guardava attorno alla ricerca di un posto. Ma l’enorme piazzale dell’ex fabbrica di aerei era overbooked: non ci entrava più uno spillo. “Dov’è che la appendo?” ripeteva fra sé sempre più spazientito. Alla fine trovò un cumulo di terra alto un metro in fondo all’immensa spianata polverosa e diede potenza alle 4 ruote motrici. Solo un Road Killer poteva garantirgli certe prestazioni, pensò sorridendo mentre scendeva calandosi dal finestrino. Rassettandosi il vestito, guardò con attenzione le ordinate file di auto parcheggiate sulla ghiaia dell’Hangar. “Ueilà.. niente niente male…”. Erano migliaia. E continuavano ad arrivarne. Quella sera, dentro, doveva esserci l’intera business community mar/com e adv, tutto il digital, i centri media, la case di produzione, i top spender, e una miriade di millenials e di giovani graziose fanciulle alla ricerca della propria chance: fashion blogger, creative free lance, video maker a partita Iva, web designer, video reporter, conduttrici wannabe. E vippame di vario calibro, as usual.

Immaginando se stesso seduto a gambe incrociate su un tatami al 47° piano dell’Isozaki intento a sprigionare mentorship e good vibes su un staff di giovani creativi alle prese con la campagna di digital pr worldwide di un lovebrand, Orto si diresse trasognato verso la stampante piazzata all’estremità opposta del lungo e angusto corridoio degli Uffici Centrali Unificati. Mentre avanzava, non vedeva le piastrelline color crema sul pavimento, la sequenza di neon giallini, la teoria di grosse e pesanti porte di legno verniciate di bianco nel 1953, né, incastonate su ogni porta, le solenni targhe di metallo con lunghe iscrizioni in corsivo voluttuoso: ‘Direzione Erariale, Servizio Annona ed Economato, Ufficio Protocollo Contratti”. Vedeva solo l’immensa lieve luminosità degli open space dell’Isozaki. A riscuoterlo bruscamente dalle sue fantasie di evasione fu il clangore di ferriera della stampante, dal cui ventre rovente eruttava convulsamente un torrente in piena di fogli A4, che straripavano sul pavimento accatastandosi in immensi cumuli. Impossibile per Orto ritrovare la sua pagina Linkedin stampata. Ed era tutta colpa di Ignazio Sella, il suo attempato collega di scrivania all’ufficio ‘Relazioni con le Amministrazioni Rurali e con gli Uffici Distaccati Sotto-circondariali di Terza Classe’, una mansione di latta che solo la smodata ambizione di Orto, unita a una creatività di sopravvivenza, gli consentiva di tramutare alchenicamente, senza esitazioni morali, nell’oro sfavillante del job title Linkedin ‘Head of Global Communication & Government Relations’. Audacia che non sfiorava invece Sella, uomo senza curiosità e senza ambizione, refrattario a qualsiasi possibile innovazione. Ancora una volta, aveva lanciato in stampa IL file. Trattavasi del file di word su cui lavorava ininterrottamente dal 1997, non avendo mai neanche sospettato l’esistenza del comando ‘Salva con nome’. IL file di Sella, 12.740 pagine, conteneva la qualunque: testi di comunicati ufficiali esecutivi da diramare agli Uffici Distaccati, lettere diplomatiche per i Direttori di Sotto Divisione, discorsi ufficiali dei Secondi Capi di Servizi e di qualche Primo Capo di Servizio, bozze di delibere di Giunta Esecutiva, determinazioni dirigenziali di primo, secondo e terzo grado, appunti sparsi, liste di proscrizione compilate con zelante acribia per il Partito, messaggi romantici per colleghe ormai defunte da anni. Una vertiginosa stratificazione archeologica della vita dell’Ente, per il cui possesso archivisti e filologi avrebbero potuto uccidere.

In cinque anni di lavoro disumano, in cui non aveva fatto distinzione fra il giorno e la notte, fra i lunedì e le domeniche, il Bigetti, un ex YouTuber di 34 anni che sembrava averne vissuti 48 ma ne dimostrava 23, aveva messo su un colosso da 180 videotestate online verticali che coprivano tutti i target immaginabili, con alcuni digital leader come EstinzioneUmana.it (pet lovers), Carestia.com (vegan friends), Sbiottate.net (teens esplorative) e Dentiera.tv (video divertenti nelle Rsa). Si era arricchito a dismisura anche grazie a un imbattibile business model: il contratto ‘JobForFame’ remunerava le prestazioni di redattori e contributors non in banale denaro, ma in ben più ambita ‘viewability’, ovvero in minuti di apparizioni in video di Wobo: per esempio un mese di segreteria di redazione o di editing digitale valeva 1 minuto di presenza su un video di Bullismo.com, testata con una reach del 91% sul target ‘tweens disadattati’, dove era normale raggiungere views a 6 zeri.

Ma al Bigetti il denaro non bastava più: voleva il successo. E quella sera avrebbe celebrato il suo trionfo. Non solo nella business community mar/com, digital e adv, dove ormai era blandito e temuto, ma oltre, sulla ribalta scintillante dell’economia e dello showbiz nazionale. L’obiettivo dell’upfront night di Wobo non era quindi soltanto impressionare definitivamente i clienti pubblicitari e seppellire le residue velleità dei competitor, ormai boccheggianti dopo essere stati implacabilmente vampirizzati di inserzioni, non era solo sancire il più brutale takeover dell’azienda sul mercato, promuovendone l’immagine da semplice leader ad over the top. No, il Bigetti voleva uscire dal suo mondo di nerd e marchettari digitali, che sentiva ormai angusto, e scalare il ranking dei grandi imprenditori nazionali e globali, voleva le prime pagine dei quotidiani, sì quelli di carta tanto vituperati, voleva entrare nei titoli dei tg della sera, sì quelli generalisti che negli anni della sua scalata aveva paragonato al Medioevo, al Male e alla Morte.

Il progetto di cui il Fiz voleva parlare al Bigetti era una partnership fra WoboGodoDigiMedia, che ormai si stava mangiando tutto il mercato, e la WebbaWabbaAdvertising, di cui lui era Head of Sales e Vp Marketing: poiché Webba aveva un’expertise unica nella vendita di formati speciali a clienti premium, che Wobo non aveva mai saputo o voluto costruire nonostante la propria raggiunta egemonia, era naturale collaborare in una logica win win. Gli scocciava un po’ fare la prima mossa, che in affari è spesso segno di debolezza, ma dopo mesi di annusamenti reciproci col Bigetti, suo vecchio amico dai tempi dello Iumc, era arrivata l’ora dello showdown, come quando a scuola a un certo punto le occhiate languide con la compagna carina non bastano più e tutti e due si lasciano andare al primo selvaggio limone, desiderato e sognato sin dal primo giorno.

Col suo braccialetto bianco, quindi, entrò in Area Vip alla ricerca del padrone di casa, che trovò subito, appoggiato al bancone del bar: fra una corona di sgamati executive, trepidi assistenti e incantevoli junior pr, il Bigetti stringeva mani a tutti con larghi sorrisi e mimica partecipe, enfatizzata dal volume altissimo della musica. Vide l’amico e con una strizzata d’occhio complice gli fece intendere che l’avrebbe raggiunto non appena fosse riuscito a liberarsi da giornalisti, adulatori e wannabe. Il Fiz ordinò un drink all’open bar e si accomodò in attesa nell’ultimo angolo di divanetto rimasto libero, innaffiando l’invidia col black russian. “Carissimo!” escalmò il Bigetti materializzandosi dopo neanche dieci minuti. “E così hai fatto il botto, eh? Bravo”. “Così dicono, Fiz, ma lasciali parlare gli invidiosi, qui si lavora giorno e notte. I risultati arrivano col sacrificio, lavorando 24/7”, il che gli diede modo di picchiettare il quadrante di un Patek Philippe da 6k. Il successo lo aveva reso tracotante, ma business as usual, il Fiz illustrò la sua proposta, col dovuto entusiasmo. L’altro lo guardò sardonico e strafottente: “Arrivi un po’ tardi amico, ho il pacchetto di controllo di Webba, guarda qui, deal fatto proprio oggi”. Era un contratto di vendita. Firmato dal Grassani, founder e socio di maggioranza della società col 75%, a cui il Bigetti aveva riconosciuto un prezzo fuori misura. “Sai – spiegò il nuovo padrone toccandogli il braccio – il Grassani è vecchio, si era stancato. Ha figli, nipoti, i soldi li ha fatti, e da questa sera ne ha più di quanti ne abbia mai avuti prima. Ora tocca a noi. Abbiamo idee, forza. E ho già uno strepitoso direttore vendite. Ma parliamo del nostro futuro! Forse sai che qualche settimana fa ho lanciato un nuova start up, un’iniziativa ancora molto piccola, ma promettente, dove voglio sperimentare nuove figure professionali, uno spazio per chi cerca avventure sfidanti che proiettino la remunerazione nel futuro”. Il Fiz taceva, pallido, disorientato, cercando una way out. Ma non ne aveva. Game over. Ecco arrivato il primo grande turning point della sua vita. Nessuno gli aveva mai spiegato come ci si sente. E come se ne esce.

Mentre il tecnico riparava la stampante, che non aveva superato il forte stress del grande File, Orto, tornato alla sua scrivania, getto un’occhiata all’anziano Sella, che serio e compunto imbeveva il timbro nell’inchiostro per protocollare una minuta, e poi aprì il documento Excel con l’elenco delle application fatte nell’anno solare ormai terminato. Erano state 132, e la colonna ‘follow up’ era desolatamente bianca: zero chiamate, zero e-mail, nessun feedback, neanche una gelida risposta automatica. Fu preso da scoramento. Decise di sospendere la ricerca di un nuovo lavoro, del suo turning point che sbloccasse una vita incagliata. Anche l’entusiasmo più acceso non resiste all’accanirsi degli insuccessi. Fu in quel momento che ricevette una chiamata. Il Fiz! Incredibile! Erano 3 anni che non lo sentiva, da quando aveva lasciato Milano per Semolinia ed era sprofondato nello spleen della società semolinica, un popolo di età media spropositata composto esclusivamente da dipendenti pubblici di estrema sinistra sociopatici gravi, le cui attività preferite, sostitutive del lavoro, erano lamentarsi di tutto, sminuire chiunque, criticare le persone positive col fine di demotivarle, guardare tutto e tutti con sospetto e fastidio, odiare il successo degli altri, temere in modo fobico la socialità esplorativa non allontanandosi mai dalla cerchia di amicizie stabilita nei primi 11 anni di vita, evitare ogni forma di nightlife spegnendo le luci della città alle sette di sera, boicottare l’impresa privata con ogni arma di vessazione burocratica disponibile, vestirsi con agghiacciante trasandatezza come forma di protesta passiva-aggressiva, tenere il muso e usare espressioni il più possibile plebee per marcare con compiacimento la propria veracità popolare. Rispose quindi con gioia, certo di essere investito da una ventata di vitalità e di managerial-dinamismo padano un po’ spaccone, ma l’aspettativa andò imprevedibilmente delusa. Il vecchio amico era tutt’altro che spumeggiante, anche se non sembrava aver voglia di dilungarsi in confidenze personali. “Quando torni a Milano?”, gli chiese senza troppi preamboli nonostante il lungo intervallo trascorso dal loro ultimo contatto. “Ci provo da un anno, ma è impossibile”. “Non buttarti giù. C’è una nuova startup a Milano, si chiama WebRocket, è un piccolo spin off di WoboGodo, si dedicheranno a progetti speciali di digital adv. Cercano figure nuove, ad esempio un head of digital happyness e se non sai che mestiere è non farti troppe domande perché domani ti chiameranno per un colloquio. Questa è la tua giornata fortunata amico, il tuo grande turning point”.

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14 commenti »

  1. Ma te l’hanno detto che bisogna scrivere in italiano? Scherzi a parte, mi è piaciuto molto. Ogni giorno sento persone parlare e leggo testi scritti con tracotanza di termini inglesi e neologismi digital che mi fanno scuotere la testa. Tu hai saputo farne una vivace satira. Molto divertente.

  2. Grazie Costantino. In effetti ho volutamente reso la lingua protagonista di questo racconto, che anche attraverso l’uso della lingua (ma non solo) intende essere umoristico in senso caricaturale e grottesco. E’ una lingua, che potrei definire milanenglish, aziendalese manageriale, italmarketing, lingua ‘imbruttita’, in uso in generale fra i C-Level delle multinazionali basate a Milano e in particolare nel mondo della pubblicità, specialmente digitale, della comunicazione e del marketing che ho a lungo bordeggiato e che trovo sensazionale per la sua capacità di essere in connessione con la contemporaneità. Inoltre ho usato termini di slang metropolitano, come ‘wannabe’ e ‘ons’ (one night stand, incontro amoroso di una sola notte). Molti sono infastiditi da questa lingua ibrida, nata da una violenta contaminazione dell’italiano con termini inglesi spesso italianizzati (‘schedulare’ ‘spinoffare’), invece io ne sono sempre stato affascinato, perché la lingua è sempre l’espressione più autentica di una cultura, di un’ideologia, dei valori di una comunità, di un mondo, e questa lingua dice tantissimo della contemporaneità.

  3. L’esperimento che fai con la nostra cara vecchia lingua italiana è molto interessante e se non vuoi anche intrigante. Sembra quasi di vederti mentre la sbatti come un vecchio tappeto, per cercare di mandare via tutta la polvere accumulata negli anni… Non riesco però a valutare bene la riuscita del tuo tentativo di modernizzare la lingua, perché in questo racconto ciò che viene più penalizzato è il racconto stesso che risulta un po’ difficile da capire ( io per prima non ci ho capito quasi niente…)
    Per fortuna l’Italia non è fatta solo di milanesi che parlano il milanenglish, ma penso che la nostra ricchezza sia di avere, ad esempio, ancora toscani che parlano di ‘oha ola con la ‘annuccia ‘orta… Tu senz’altro hai molto più entusiasmo di me nell’adottare questi nuovi linguaggi, molto nuovi e un po’ alieni…. Sei moderno, innovativo o soltanto giovane? Chissà…

  4. confusione totale alla decima riga, mal di testa e disorientamento per arrivare al finale.
    Direi che sei riuscito nel tuo intento; non ho capito quasi niente ma presumo fosse questo il punto: portare tutto quanto all’eccesso dimenticando che abbiamo una meravigliosa lingua che non sfruttiamo a dovere.
    Bravissimo 😉

  5. Grazie per la lettura e per il commento! Non è un tentativo di ‘modernizzare’ la lingua! E’ un tentativo di rappresentare mimeticamente un mondo e i suoi valori attraverso la lingua. Anzi più mondi attraverso le loro lingue. E’ vero che il racconto viene penalizzato, perché un po’ sopraffatto dalla lingua stessa, ma, sotto il racconto c’è. Devo sicuramente lavorare ancora molto per raggiungere un equilibrio fra racconto e lingua, evitando che questa prevarichi quello. Giovane non lo sono 🙂 ma sono attento alla contemporaneità.

  6. Carla Vinazza grazie per il bravissimo, ma è immeritato, devo lavorare ancora molto per raggiungere i livelli di qualità che desidero… In ogni caso sono davvero contento che tu abbia letto il mio racconto fino in fondo nonostante l’oggettiva difficoltà della lingua che ho scelto: considerando che niente è più facile che abbandonare la lettura di un racconto dopo poche righe, per manifesta inconsistenza letteraria (almeno a me capita così), evidentemente nella lettura qualcosa ti ha avvinto: o la storia e i personaggi, o più probabilmente la fascinazione della stessa lingua che per altri versi ti ha infastidito. Ammetto che centri passaggi narrativi possano essere poco chiari per l’eccessiva concentrazione di termini gergali (per la verità una buona parte, non tutti, sono ormai diffusi anche nella lingua corrente), e questo è un difetto che nuoce al racconto e che dovrò risolvere con un fine tuning del mio stile, un diradamento della densità gergale. Ma ritengo che sia un po’ esagerato sostenere che non si capisce niente del tutto, ho voluto scrivere una storia molto semplice dal punto di vista narrativo, e l’unico ostacolo, che non vorrebbe essere un ostacolo ma al contrario una qualità, una cifra stilistica, un arricchimento, è la lingua.

  7. Ho dimenticato di dire la cosa più importante; il mio livello di inglese e’ fermo alla seconda magistrale , indirizzo di studi che scelsi all’epoca perchè l’unico a non portarsi dietro fino alla maturità una lingua straniera. E’ un mio limite e anche un poco pigrizia.
    Pero’ lo ribadisco, a me il racconto e’ piaciuto tantissimo proprio per l’originalita’ e il senso di “caos” che ha trasmesso; il non aver capito nulla non era riferito alla trama ma, per l’appunto, all’utilizzo di frasi e termini per me cosi’ distanti per il lavoro che ho fatto ( dipendente pubblica stile fantozzi) che per il mio modo di vivere ancorato non tanto al giurassico ma a un mondo che è tutto mio e dal quale ogni tanto mi allontano.
    Secondo me rimettere le mani in un racconto non e’ mai la scelta giusta; io apprezzo molto l’immediatezza del momento , il modo “compulsivo” di scrivere senza badare troppo a quello che si sta mettendo nero su bianco. Mi e’ capitato di farlo e, credimi, sono sempre tornata alla versione originale. Mi piacerebbe sapere se si puo’ trovare in rete altri tuoi scritto perchè mi ha incuriosita.

  8. grandissimo!! complimenti , vittoria meritatissima. Da concittadina ne sono ancora piu’ fiera ! 🙂

  9. La tua vittoria per me, è stata una vera sorpresa… si vede che sono troppo antica… Complimenti.

  10. Grazie!!

  11. Ovviamente non ho capito molto dopo la prima lettura, ma questo penso fosse nelle tue intenzioni. Alla seconda ho capito la trama, ma mi è venuto un leggero mal di testa. E pensare che ci sono persone che parlano e pensano proprio così!!
    Comunque bravo per aver tenuto il filo del discorso, scherzi a parte è ben scritto e mi è piaciuto.

  12. Alla fine del racconto mi è venuta una grande voglia di parlare il mio dialetto! Ci vediamo a Lucca per il nostro grande “turning point” 😀 😀

  13. […] Da una parte Walter Fizzoni (‘il Fiz’), il rampante digital ad sales di WebbaWabbaAdvertsing, rappresentato linguisticamente da un’esplosione di ‘milanenglish’ tipico dell’aziendalese manageriale, l’argot internazionale da consiglio di amministrazione o da presentazione ai clienti, in uso in generale fra i C-Level delle multinazionali basate a Milano e in particolare nel mondo della pubblicità, specialmente digitale. Dall’altro lato, l’autore utilizza la minacciosa e magniloquente impersonalità e distanza del più spietato burocratese, la sua polverosa immutabilità, per rappresentare il plumbeo, atrofizzato e decadente mondo degli Uffici Centrali Unificati, all’interno dei quali si dibattono i generosi ma fallimentari tentativi dell’oscuro travet Orto Anelanti di liberarsi della plumbea cappa di ripetitività e stagnazione in cui sprofonda nella lugubre e gerontocentrica città di Semolinia, che sogna di abbandonare per intraprendere una brillante carriera di copy in una web agency della grande e sfavillante metropoli. Per leggere il racconto clicca qui. […]

  14. […] Da una parte Walter Fizzoni (‘il Fiz’), il rampante digital ad sales di WebbaWabbaAdvertsing, rappresentato linguisticamente da un’esplosione di ‘milanenglish’ tipico dell’aziendalese manageriale, l’argot internazionale da consiglio di amministrazione o da presentazione ai clienti, in uso in generale fra i C-Level delle multinazionali basate a Milano e in particolare nel mondo della pubblicità, specialmente digitale. Dall’altro lato, l’autore utilizza la minacciosa e magniloquente impersonalità e distanza del più spietato burocratese, la sua polverosa immutabilità, per rappresentare il plumbeo, atrofizzato e decadente mondo degli Uffici Centrali Unificati, all’interno dei quali si dibattono i generosi ma fallimentari tentativi dell’oscuro travet Orto Anelanti di liberarsi della plumbea cappa di ripetitività e stagnazione in cui sprofonda nella lugubre e gerontocentrica città di Semolinia, che sogna di abbandonare per intraprendere una brillante carriera di copy in una web agency della grande e sfavillante metropoli. Per leggere il racconto clicca qui. […]

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