Premio Racconti per Corti 2016 “Uno sporco lavoro” di Chiara Micheli
Categoria: Premio Racconti per Corti 2016C’è un ultimo viaggiatore che scende dal treno delle 17 e 10. Ha un impermeabile nero e svolazzante lungo fino ai piedi, cappello a larghe falde su una faccia sporca di un’altra giovinezza, stivali neri. Se ha la pistola alla cintura non si vede. Si guarda intorno, prima di avviarsi verso l’uscita trascinando alla meglio con una fune un baule che ha visto molti inverni.
C’è un sole accecante oggi a Lucca, e ha sete il nostro uomo, e mentre ordina una birra, nera anche lei, al Red Dirt Pub davanti alla stazione, dice le sue prime parole:
“Cerco Maicol del Palazzone”.
Chissà chi mai è Maicol ma il Palazzone sta a nord, oltre la superstrada e i capannoni, un postaccio. Ci arriva solo il 27b, capolinea, e non si sa mai se ritorna.
Lui non nota gli sguardi degli altri passeggeri mentre scende: lui guarda davanti a sé l’enorme piazzale sterrato dove non cresce erba ma crescono diversi rottami di auto abbandonati qua e là, cartacce e altri oggetti senza memoria che non sbocceranno mai a rallegrare il suo contorno, un casamento popolare che svetta come il sogno anni ’80 di un architetto del Lego.
Dei ragazzini giocano al pallone alzando polvere, si spintonano a testa bassa. Solo uno si ferma, osserva da lontano l’uomo. Si guardano. Il ragazzino si avvicina, incerto, incredulo, e poi gli si butta tra le braccia.
“Sapevo che saresti venuto, Garcia, hai ricevuto il messaggio!”
Lui è Maicol, lo ha trovato. Maicol ha dodici anni, calzonucci e camicia chiari, impolverati come tutti i dodicenni del mondo, capelli più lunghi e i lineamenti più marcati del sud del mondo.
“Vieni” gli dice, “vieni,” e lo trascina, quasi, verso il caseggiato. Passano la sporcizia e i rifiuti ammassati per infilarsi in un vicoletto senza uscita.
“Ecco” indica Maicol a bassa voce, “ecco, la vedi, è lei.”
Oltre una finestra bassa sbirciano un luogo pieno di movimento e musica che arriva a tutto volume. C’è diversa gente dentro, che parla un bel fritto misto di lingue, che gioca al rumore delle slot e altri aggeggi, beve, e su una poltroncina una ragazza, al massimo 20 anni, bella ma con una faccia triste, agghindata come una troia e di certo lo è, visto la mano possessiva che un tizio tarchiato e lucido le tiene sulla coscia mentre parla. Il lucido ha due tipi torvi in doppiopetto grigio e turbante arancione che gli fanno da angeli custodi, neanche fosse il paradiso. Ma forse per il lucido lo è.
“Ma questi non sono indiani” dice Garcia.
Maicol arrossisce, imbarazzato. “Sì, che lo sono… insomma, circa. Ma sono cattivi, molto cattivi, non fa lo stesso? E lui è Amal. Tiene Sofia prigioniera con la forza e le hanno fare quelle cose… di sesso, brutte, con tutti… sono cattivi e nessuno mi vuole ascoltare, nessuno mi vuole aiutare, ma tu mi aiuterai, vero? Mi aiuterai a liberarla e vendicare il male fatto?
“Ma perché non scappa?”
“Lo fa per me, per proteggermi, ma è in pericolo, la minacciano, la uccideranno, sono sicuro, ci uccideranno!”. Ora Maicol implora. “Mi aiuterai? Solo tu puoi aiutarmi, nessun altro!”
Garcia si guarda intorno, strano posto questo dove capitare. In fondo al muro e tutto quel cemento pieno di macchie c’è un paesaggio luminoso di campagna verde e fiori immensi, ma è solo il manifesto mezzo strappato di una pubblicità cui sono appoggiati due tizi che sniffano. Non è un luogo per crescere bambini.
“Va bene” dice Garcia, “va bene. È una cosa semplice, ma c’è troppa gente adesso, agirò stanotte.”
Maicol respira di sollievo.
Allora lo porta alla sua casa, Maicol, nel Palazzone, scale su scale per arrivare a un buco di due stanze con ninnoli da tre soldi, le immagini di Padre Pio e i giornaletti, l’incerato sulla tavola.
Garcia lascia finalmente il suo baule e si toglie l’impermeabile mentre Maicol mette sul fuoco la minestra per la cena. Garcia appoggia il suo cinturone e le sfila: ci sono due pistole. “Ho bisogno di pisciare e di lavarmi.”
Maicol guarda le pistole, affascinato: sembrano antiche, una grande, l’altra più piccola ma hanno l’impugnatura nuova.
“Cerchi le tacche?” sorride per la prima volta Garcia, uscendo dal bagno a torso nudo. “Sono qui” e Maicol gli guarda gli avambracci coperti di tanti segni, tutti uguali, cicatrizzati.
Hanno finito di cenare, con un sigaraccio in bocca Garcia racconta.
“Avevo la mia terra, morbida e rigogliosa, una fattoria, avevo una moglie, aspettavo il mio primo figlio. Era il tempo, ma quando arrivai a casa col dottore trovai la porta aperta e mia moglie distesa con una rosa rossa nel petto, tutti gli animali spariti. Amavo le rose ma non quelle di sangue. Poi non ricordo niente, solo buio, freddo. E dopo caldo, la casa che bruciava alle mie spalle. Da allora non ho più niente, solo le pistole non mi hanno abbandonato. C’è voluto un anno per chiudere i conti.”
“Hai ucciso parecchie persone?” mormora Maicol, affascinato.
“Da allora non mi sono più fermato. La vendetta non muore mai, ha sempre nuovi clienti. È uno sporco lavoro, ma è l’unico che so fare bene. Non fallisco un colpo.
“Sei meglio della legge, allora!”
“Lo ero, ora sono solo stanco.”
“Io sono arrivato dal mare” dice Maicol, “ero piccolo e non parlavo, i miei genitori sono rimasti nell’acqua tra l’Africa e l’Italia, così mi racconta Sofia. Lei mi ha preso con sé, è una sorella e anche una mamma, farei tutto per lei.”
“Devi promettermi che dopo stanotte tu e Sofia ve ne andrete da qui. In un posto bello, col sole, con gli alberi e la terra, un posto differente.”
“Io ce l’ho!” dice Maicol, eccitato. “È bellissimo, è anche abbastanza vicino, domani te faccio vedere, ti ci porto.”
“Domani. Ma ora è tempo di andare.” Spenge il sigaro.
“Lo sai che fumare fa male alla salute?” dice Maicol.
“Anche sparare” ribatte Garcia.
“Puoi lasciare qui il tuo bagaglio, se vuoi.
“Non preoccuparti, lui viene con me.”
È buio pesto adesso, tutto è silenzio, poche luci nelle case, lontano il chiarore di una città che non arriva fin qui.
Entrano dal retro, una camera, e sul letto c’è Sofia, legata e seminuda. Maicol corre da lei per liberarla, in silenzio Garcia si dirige di sotto. Amal è solo con i suoi due scagnozzi, sta contando i soldi. Due spari, e gli scagnozzi sono a terra, freddati.
“Chi sei?!” urla Amal “Che vuoi?!”
“Sono la tua buonanotte” dice Garcia calmo, lo butta a terra e gli incrocia le pistole alle tempie.
“No!”
Da cima le scale arriva la voce di Sofia. “Non lo uccidere, non lo uccidere!” Sofia corre, si butta tra Amal e Garcia.
“Perché?” grida Maicol. “Ti ha fatto male, ti fa del male!”
Sofia guarda Maicol, poi Garcia. “Perché è meglio un bastardo vivo che un padre morto.” E si tocca la pancia. “Tu lo sai” Se si guarda bene, e Maicol lo fa, si vede che è incinta.
Garcia è confuso. Guarda Amal in ginocchio che suda freddo aspettando la sua ora. Allora anche Maicol si mette in mezzo, quattro anime in fila, un italian standoff. Afferra il braccio di Garcia. “Ha ragione, non sparare!”
Fuori si sente un vociare che si avvicina, gli spari hanno attirato gente.
“Non sparare” ripete Sofia, “scappate, non fatevi trovare.” Poi “Dammi le pistole” dice a Garcia.
“No, mai!” esclama Garcia.
“Devi lasciarmele” lo incalza Sofia. “Ci penserò io, dirò che si sono sparati a vicenda, un regolamento di conti…, ma ho bisogno delle pistole!”
“Dagliele Garcia, avanti” lo incalza Maicol.
“Non preoccuparti di lui” Sofia indica Amal “non mi farà più del male, sa che è finita.”
Garcia è frastornato. Sofia afferra le pistole. “Ora scappate, via, non fatevi trovare!”
Scappano, Maicol e Garcia, s’infilano appena in tempo dietro il cassonetto dove avevano lasciato il baule, mentre il locale laggiù si riempie di gente.
Garcia sta sudando, ha corso si e no 100 metri ma sembrano chilometri. Si toglie il cappello, si lascia cadere a sedere.
“Ti senti bene?” chiede Maicol.
“Ho un dolore atroce alle braccia…”
“Ti hanno ferito?”
“Non hanno fatto in tempo neanche a tirar fuori le armi, ma sono stanco.”
“Forse era meglio se chiamavo Superman…”
“Chi?”
“Lascia stare.” Eppure del sangue cola dal suo polso.
“Aspetta, vedo di trovarti qualcosa…” dice Maicol.
“Non importa…” prova a dire Garcia, ma Maicol si è già infilato nel buio e scomparso.
Garcia si appoggia meglio e chiude gli occhi.
Quando li riapre è il chiarore del giorno, preannuncia una splendida giornata di sole.
C’è Maicol che lo scuote. “Che succede, devo aver dormito” dice Garcia, “dove sei stato?”
“C’era Sofia a casa con degli uomini in divisa, mi hanno messo a letto ma io sono scappato. Ecco una fascia, tieni” e gliela aggiusta al polso alla meglio. “Dobbiamo trovare un posto sicuro” mormora Garcia.
“Ce l’ho, te l’ho detto ieri, sono tornato apposta per portarti là. Andiamo.”
S’incamminano, Garcia trascina il suo baule, e dietro i muri di cemento e l’immondizia ecco, improvvisa, davanti a loro è aperta campagna. Rigogliosa, con il sole che gioca con le foglie e la calma, la bellezza della natura. La strada che percorrono non è più asfalto scheggiato ma un sentiero d’erba e in lontananza c’è una casa di campagna con le finestre bianche.
“Vieni” lo tira Maicol.
Si avvicinano. Garcia si ferma, incredulo.
“Assomiglia alla mia casa di un tempo…”
“Te l’avevo detto che era bello, no? Da grande voglio venirci anch’io.”
“Ma tu conosci chi ci abita?”
“Certo, si chiama Anne, è simpatica.”
Sono alla porta, basta bussare e si apre. Ad accoglierli è una ragazza dal volto dolce e i capelli neri raccolti, il vestito lungo, un po’ datato.
“Finalmente” dice Anne, e sorride, per niente stupita da quegli ospiti. “Ciao, John” dice Anne, guardando Garcia. “È tanto tempo che ti aspettavamo.”
Garcia è impietrito. Dalla stanza arriva improvviso un pianto. Anne accorre, si piega sul tavolo dove è appoggiato un bambino, piccolo, i braccini alzati.
“Ecco tua figlia, John” dice Anne. “Dobbiamo decidere il nome da darle.”
Garcia guarda quella donna e poi guarda la bambina. Sono istanti interminabili sotto occhi sorridenti, comprensivi, che aspettano che lui si decida. John rilascia le spalle, è come se il peso del mondo si fosse spostato finalmente dal suo corpo.
Allora si volta, si piega verso quel suo onnipresente baule e lo apre. Non contiene niente se non una culla per bambini. Non è bella, è una culla antica, un po’ goffa, legno grezzo lavorato a mano, ma sembra fatta apposta per Anne che ci appoggia la bambina.
“È perfetta, John, grazie.”
Poi si gettano uno nelle braccia dell’altra.
Maicol è restato in disparte, si avvia silenzioso alla porta, la chiude dietro di sé. Questa non è la sua casa.
Fuori non c’è più il sole, è notte fonda. Non uccelli che cantano ma confusione in strada e lontano le grida di chi litiga al quarto piano alle 2 di notte. Nessun prato verde, solo il cortile del Palazzone, in fondo il locale di Amal e la gente radunata davanti, ora c’è anche un’auto della Polizia, le luci intermittenti.
Maicol fa una smorfia e tira fuori di tasca un mp3 sgangherato, una musica bella è quello che ci vuole. E mentre si mette l’auricolare all’orecchio, il polso della camicia cade a rivelare una cicatrice, ma fresca, rossa, come appena fatta.
Sorride, Maicol, quando passa davanti al cassonetto di prima. C’è uno sparuto drappello lì intorno.
“Ma che è, un cowboy? Ma che, giravano un film?”
“Sembra morto” dice uno.
“È morto” dice l’altro, “e sono tre stanotte, cazzo. Sai ora quanto romperanno le palle…”
“Verrà dalla festa dei fumetti?”
“Ma se è a novembre, che l’hanno spostata?”
“Omar, vai a dire loro, a polizia…”
“Tu andare, io no!”
Maicol passa oltre, va verso il buio, si confonde nel buio. Maicol tira dritto. La musica cresce e ingoia quelle voci mentre tutto sfuma al nero.
Addio John Garcia.