Premio Racconti nella Rete 2016 “Il distacco” di Roberto Galatro Sibaldi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Le mie dita bambine accarezzano la fresca aria del mattino, sfrecciante, al di là del finestrino della nostra auto. Le palpebre socchiuse aumentano la dolce sensazione di quella carezza sulla mia mano mentre il mio corpo sprofonda sempre più nel sedile vibrante e mi sento come in una culla. Intanto, in sottofondo, irrompe una melodia familiare e i miei occhi si aprono involontariamente verso mio papà, che di fianco a me, con occhi spaesati, guida svelto e nervosamente.
La sua mano destra si alza di scatto dal cambio verso l’autoradio, si dirige senza esitazione alcuna sul pulsante del cambio stazione ma una volta lì si blocca di colpo, come fosse afferrata da qualcosa. Inizia a tremare poggiata sopra il tasto. La voce femminile dalla radio canta di montagne verdi e di corse di una bambina. Sorrido, perché mia mamma me la cantava spesso e a casa ho persino un disco da lei inciso sulle note di questa canzone, ma non ricordo più né il titolo né dove sia quel disco. Mi domando se mio papà si ricorda di questo ma guardandolo ha la testa altrove, gli occhi scuri e grandi sotto la luce del sole mattutino mi paiono anche più lucidi oggi, anzi, brillano vistosamente nella luce di taglio del finestrino. La barba fitta è sempre più bianca e non nasconde più tutte le nuove rughe, è come se il tempo gli avesse dilaniato via parte della sua vita e l’ha fatto con una fretta disarmante, gli ha divorato vent’anni in uno nascondendosi nel primo di questi.
È una mattina come le altre e sono in ritardo, i miei compagni di scuola sono già tutti entrati da diversi minuti. Quando stiamo per attraversare la strada, davanti l’entrata di scuola, mi fermo sulle strisce e gli porgo la mano a mezz’aria, lui nemmeno la nota, mi sorpassa frettolosamente facendo cenno di seguirlo con la sua. La mamma ha sempre tenuto la mia mano stretta nella propria, non avrebbe mai permesso che attraversassi da sola, ma mio papà questo non lo sa. Oltrepassiamo la soglia del grande cancello di ferro battuto, proseguendo lungo il cortile adornato di alberi rossastri e entriamo nell’edificio in silenzio. Le foglie scricchiolanti sotto ai nostri piedi svelti.
Una vecchia donna burbera e un po’ grassoccia ci fa cenno di seguirla, i suoi passi lenti e ciondolanti ricordano un po’ un pinguino mentre ci conduce fino alla soglia di una porta scura e vecchia. Cigola mentre la apre per farci accomodare.
Dall’altra parte del grande tavolo in legno pieno di scartoffie, è seduta la dirigente scolastica che scruta seria mio papà con gli occhiali abbassati e in bilico sulla punta del grosso naso. La sua mano sgarbata ondula a mezz’aria facendo cenno di aspettare fuori. La porta cigolante si chiude e i due iniziano a dialogare, sono solo sussurri, non afferro una parola mentre guardo la vecchia donna pinguino ritornare ciondolante nella sua tana silenziosa.
Il silenzio accomodante della scuola, interrotto solo da quei sussurri oltre la soglia di quella vecchia porta, mi rende stranamente calma mentre rimango in piedi, appoggiata con la schiena al muro e gli occhi socchiusi, sola. Davanti a me ora è rimasto solo il panorama quieto del cortile alberato, oltre la finestra del corridoio completamente vuoto. Proprio come un quadro, se non fosse per le foglie danzanti lì fuori. Vorrei sentire ancora quella dolce sensazione di una carezza del vento di poco fa e quella canzone, che cercavo tanto di afferrare nei miei ricordi.
Improvvisamente però, avverto come una fitta percorrermi tutto il corpo e le mie gambe iniziano a tremare, sento una morsa che mi sale fin sopra lo stomaco. Al di là dell’intermittente vociare alle mie spalle inizio a udire dei passi lontani e lievi, un rumore familiare che non ho dimenticato. Piccoli tonfi veloci che echeggiano come un rullante in crescendo avvicinandosi. Il tallone di uno stivale che batte forte sul marciapiede di fronte. I miei occhi seguono le mie orecchie e la vedo là, passare davanti al grande cancello. I capelli d’ebano mossi e lunghi sospesi nel vento, la schiena dritta coperta da un lungo cappotto nero, la borsa di pelle marrone appesa sulla spalla destra mentre la mano fluttua nell’aria seguendo il ritmo dei passi svelti.
Non la vedo bene in volto, è quasi di spalle, ma non ho dubbi, è lei.
Non posso fare come l’ultima volta e lasciarla andare, così agisco d’istinto. Il corridoio silenzioso e vuoto è un’occasione. Apro la finestra quel poco che basta per una bimba di nemmeno dieci anni, la cartella gettata a terra, appena sotto la piccola fessura, mi funge da trampolino, è un attimo e sono già fuori. Corro cauta verso il cancello lungo il cortile alberato della scuola, nonostante lo schiocco delle foglie sotto ai miei piedi nessuno mi nota. La fortuna è dalla mia parte penso, lei è ancora a pochi passi da me ferma a un incrocio. Il semaforo rosso mi aiuta, ma non appena mi avvicino a nemmeno un metro, si tramuta in verde. Volgo lo sguardo verso il cancello ma la decisione ormai è presa. La seguo.
Attraverso la strada da sola subito dietro di lei, come un’ombra, il suo passo svelto e lungo aumenta la nostra distanza ma non la perdo di vista. Vorrei vederla in volto, mi manca il suo viso, potrei chiamarla ma le parole non mi escano dalla bocca. Continuiamo a lungo così su quella strada, poi giriamo l’angolo, una lunga via trafficata, quello successivo mentre il flusso delle persone indifferenti corrono senza sosta contro i nostri passi. La sua chioma scura fluttuante nell’aria lascia la sua scia da seguire al mio sguardo così da non poterla perdere di vista, e infine un altro ancora. Il tempo passa ma il distacco non si colma, anzi, lei è sempre più distante e le mie caviglie iniziano a farmi male dallo sforzo per l’andatura veloce che provo a tenere.
Di fronte alla strada trafficata di auto si ferma e il suo volto si gira leggermente di lato mostrando appena il profilo. Gli occhiali penso, non riesco a vederli, ma è distante e i capelli fluttuanti sospinti dal vento non aiutano. Cerco di avvicinarmi nuovamente il più vicino possibile e senza accorgermene inizio infine a correre. Arrivata quasi accanto sono come senza fiato nonostante non sia effettivamente stanca, eppure, sento il mio corpo come appesantito e tutto intorno mi pare estraneo con i suoi rumori assordanti. Le macchine saettano minacciose di fianco a noi, gli alberi sopra le nostre teste mi paiono persino più alti e stretti, mi guardo intorno e non riesco a riconoscere la zona, non so più nemmeno dove sono, mi sono persa. Cerco di concentrarmi solo su di lei che riesce a calmarmi e inizio a guardarle la mano liscia, le piccole dita sottili e la fede nell’anulare sinistro con lo smalto rosso quasi sbiadito sulle piccole unghie. Alzo la mia mano adagio verso la sua e le sfioro il dorso appena, impercettibilmente. Sento il leggero calore della sua pelle che si avvicina alla mia infreddolita e ritrovo anche il respiro. Ecco cosa si sente nel ritrovare qualcosa che ti è mancato così tanto, di nuovo io e lei penso, ma è soltanto un attimo.
«Guardami!» Grido. La voce però è solo nella mia testa.
Una macchina intanto si ferma e la lascia attraversare, lei ringrazia mentre passa all’altro lato di corsa, anche la sua mano svanisce così, di fronte a me, lasciandomi al di là della strada. Perché non grido mi domando rimanendo come imbambolata, se ne va di nuovo penso, se ne va. Cerco di andarle dietro, ma l’assordante traffico mi blocca nel bel mezzo della strada. Lo stridio di una frenata mi fa portare i palmi delle mani all’orecchie e un colpo violento di clacson mi fa chiudere gli occhi di scatto. L’ultima immagine che vedo è lei, di spalle, che si allontana, poi il buio.
«Mamma!» Grido. Stavolta però non rimane nella mia testa come prima ma esplode letteralmente in un gemito acuto.
Avverto una forza prendermi le spalle e sollevarmi prima di sentirmi avvolgere in una morsa stretta. Quando riapro gli occhi è lei che mi sta fissando, in lontananza, ma non porta alcun occhiale e i suoi occhi sono diversi, chiari, persino la sua bocca ha una curva diversa e la sua pelle non è più così liscia come ricordavo. Quella era la donna che ho seguito, soltanto una donna.
«Lei dov’è?» Urlo ancora, prima che i miei occhi gonfi iniziano a offuscare l’immagine e a sbiadirla. Le lacrime, come una pioggia incessante, scendono lungo le mie guance piene di lamenti. Ora che il mio pianto è divenuto un grido assordante e senza freno, è il traffico, invece, rimasto quasi silenzioso e congelato tutt’attorno a me.
«È qui – dice una voce calda e profonda picchiettandomi prima la fronte – e qui.» Battendo poi sul mio petto.
Mi asciugo gli occhi afferrando il cappotto dell’uomo che mi stringe a sé, abbracciandomi stretto. Delle piccole gocce s’infrangono sopra la mia testa ma non sta piovendo, alzo lo sguardo e vedo il volto di mio papà, i suoi occhi ancora lucidi adesso lasciano scivolare su di me le sue lacrime. Nel suo sguardo il riflesso della donna che si allontana definitivamente da noi.
«Perdonami, manca anche a me» mi sussurra, come se le parole fossero uno sforzo immenso per lui in questo momento.
Non riesco a trattenere nuovamente il pianto incessante e il mio corpo comincia a dimenarsi selvaggiamente, ma la sua mano possente mi avvolge ancor più al suo petto mentre l’altra delicatamente mi sposta i lunghi capelli scuri dai miei occhi nascosti.
«Papà, ti ricordi quella canzone?» Gli chiedo infine singhiozzando.
«Sì, mi ricordo la canzone. Ti faccio ascoltare il disco della mamma se vuoi, appena torniamo a casa.»
Con le mie braccia strette attorno al collo e la testa sprofondata sotto al suo mento, sento così vicino adesso il battere forte del suo petto su di me, così lascio che il mio lamento si perda silenzioso nell’abbraccio forte e stretto, così rassicurante, che solo un genitore credo, riesce a poter fare.
Riesci molto bene a trasmettere tutta la tristezza di questo racconto con immagini suggestive e struggenti, mi hai fatto essere partecipe del loro dramma e coinvolta in questa storia. Complimenti per l’intensità di questo racconto.
Grazie di cuore Patrizia, apprezzo davvero molto quello che hai scritto, poiché era proprio quello che cercavo di trasmettere attraverso questa storia.
Nel tuo racconto si prova un’ immediata empatia con il ragazzino. E’ un , breve, racconto struggente e molto dolce. Scritto molto bene Roberto, complimenti
Fa commuovere, quindi è scritto davvero bene secondo me, bravo.
Grazie davvero Gloria e Elena, apprezzo moltissimo i vostri complimenti. Sia con “immagini” sia coi “gesti” ho cercato fin da subito di trasmettere una forte empatia con i protagonisti in una situazione, che purtroppo, colpisce davvero tutti prima o poi. Ho cercato, in questo seppur breve racconto, di trasmettere un certo stato d’animo e se hai provato empatia e ti ho commosso poi, ne sono molto contento e lo apprezzo infinitamente.