Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “Come l’ortica” di Susanna Gianotti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

L’ortica è una pianta infestante che cresce dappertutto, non è né bella né interessante e per giunta è anche molto urticante; da bambino t’insegnano che non la devi toccare sennò poi brucia. Un’ortica ben cresciuta e sviluppata provoca una reazione che ricorda l’escoriazione da ustione, abbastanza dolorosa, con un bruciore che pur scemando può durare diverse ore, e lascia un segno visibile anche per due giorni.

Non c’è niente di attraente nell’ortica: ha un fusto verde, foglie larghe seghettate e fiori che a malapena si distinguono dal fogliame. Se la lasci andare in fioritura senza fermarla, capace che nel giro d’un anno ti colonizza il prato. Si accompagna volentieri al rovo, creando un cocktail micidiale per le gambe dei passeggiatori.

L’ortica è una delle erbe commestibili più buone delle nostra fascia climatica. Lo spinacio non raggiunge neanche lontanamente la stessa ampiezza di bouquet aromatico, la borragine ha una foglia più legnosa ed è più amara. Oltre a essere una delizia per il palato, l’ortica è ricca di ferro, potassio, calcio e oligoelementi, che la rendono consigliabile nella dieta di chi soffre di anemia, disturbi intestinali, dolori reumatici, cistiti, chi ha i denti e i capelli deboli e chi soffre di disturbi legati al ciclo mestruale.

Uno si aspetterebbe che a questo punto l’ortica godesse di una fama di livello. Dopotutto cresce da sola, non devi far nulla, nemmeno togliere le erbacce – è già un’erbaccia lei, e di quelle che non lasciano concorrenti – e per raccoglierla, alla fine, bastano un paio di guanti di quelli che si usano in cucina a lavare i piatti. Se la metti nel ripieno dei ravioli insieme alla ricotta, ti vien fuori una roba che te la sogni la notte. Invece niente, l’ortica rimane un po’ schifata, una pianta povera, insignificante, e poi oh, punge.

Io non è che mi lamenti di questa cosa. Se l’ortica diventasse una rinomata prelibatezza, finirebbe come col luppolo selvatico, che bisogna far le levatacce e partire verso terre inesplorate per riuscire a raccoglierlo prima che ci arrivi qualcun altro. O l’orla, lo spinacio selvatico, che qui addirittura non si può raccogliere per legge, a meno che uno non se lo coltivi che però, vuoi o non vuoi, non è più la stessa cosa. Invece io le ortiche ce l’ho sotto casa, una distesa, che non se le fila mai nessuno; e per sicurezza da un paio d’anni ne abbiamo pure messo un’aiuola a lato dell’orto, scrupolosamente controllata perché non si espanda oltre i suoi spazi.

Come se non bastasse, l’ortica ha anche un sacco di altri usi. Io, per esempio, ci faccio un macerato che funziona benissimo per tenere lontani dai vasi del mio balcone gli afidi. È anche un ottimo concimante. Insomma, l’ortica, se non ci fosse, io la inventerei.

A me succede spesso di incontrare delle persone-ortica. Le riconosco abbastanza facilmente perché forse anche io sono un po’ come loro. Sono quelle che sulle prime sembrano non possedere particolari qualità se non quella di avere un carattere a effetto repellente, quelle che respingono a pelle e se ne stanno sulle loro, e a te non viene neanche voglia di avvicinarti perché tanto sembrano un po’ insignificanti. Poi, per un motivo o per l’altro, ti trovi nell’obbligo di averci a che fare e allora ti accorgi che invece hanno una loro bellezza. Sono persone – stavo per dire: piante, e non c’è poi quella gran differenza – che amano stare in pace e lasciano in pace anche gli altri. Si fanno i fatti loro, cercando di procurare meno disturbo possibile, e fanno del loro meglio per non apparire. Però sono buone. Sono versatili, resistenti e piene di idee.

La mia amica Françoise era una persona-ortica. Non lo faceva apposta, credo fosse nata così. La prima volta che le parlavi te ne tornavi a casa con la certezza che quella persona non ti sopportasse e il dubbio giustificato che il sentimento fosse reciproco. Era una ragazza dall’aspetto banale, senza segni particolari, non bella né brutta, non alta e non bassa, non grassa e non magra; aveva una voce senza un timbro che si ricordasse, parlava senza accento riconoscibile, vestiva in modo anonimo, era schiva e riluttante alla conversazione. Dopo due giorni t’eri già dimenticato che fosse mai esistita. Io forse ho impiegato anche di meno.

Poi l’ho rivista una volta alla mostra di un collettivo in un centro sociale a Montreuil. C’erano dei disegni bellissimi, raffinati, che sparavano fuori un immaginario surreale fatto di animali antropomorfi, alberi onirici e stanze senza forma, tracciati in uno stile singolare. Li guardavo, senza riuscire a stancarmi, da una decina di minuti, quando una voce anonima mi è risuonata nell’orecchio.

“Sei Susanna, vero?”

Non l’ho subito riconosciuta – non sono mai stata fisionomista, a mia difesa – e mi ha dovuto ricordare il suo nome e le circostanze del nostro precedente incontro, risalente a un paio di mesi prima. Lei, invece, si è ricordata subito di me. Per rompere il ghiaccio, ho fatto un commento qualunque sulla bellezza dei disegni. Françoise mi ha ringraziata, perché erano suoi.

Ho un ricordo molto raffazzonato di quella prima conversazione, protrattasi a lungo, per buona parte della nottata e annaffiata con abbondanti dosi di birra alla spina. Ricordo i dettagli di un’animata discussione sul senso profondo di Apocalypse Now, oggetto di un mio esame monografico di alcuni anni prima, in parallelo col romanzo di Conrad.

Dopo quella volta, io e Françoise ci siamo viste spesso, per tutto il tempo che ho vissuto ancora in quella città. Ci incontravamo per aperitivi musicali, per andare al cinema. Quando veniva a trovarmi, chiamava sempre prima, per sapere se disturbava. Certi giorni era molto silenziosa, ma una volta che ti ci abituavi cominciavi ad apprezzarlo; quando per carattere rispondeva in modo brusco, tu sapevi che non era niente, che era solo fatta così.

Françoise studiava da assistente sociale, e nel tempo libero, oltre a disegnare, imparava il giapponese; leggeva moltissimo ed era appassionata di film. Queste cose le scoprivi poco alla volta, senza clamore, e lei raramente si dilungava a parlarne. Era curiosa, generosa, accomodante. Cucinava molto bene e s’intendeva di vini. Non aveva molti amici, ma quelli che c’erano campeggiavano a casa sua come familiari. Anch’io, qualche volta, ne ho approfittato; e quando mi lasciò il ragazzo dell’epoca, ho passato una nottata intera a guardare i programmi più abbruttiti che davano in televisione, sul divano di Françoise, che zitta zitta preparava i popcorn.

Dopo che mi sono trasferita, siamo rimaste in contatto. Ci scrivevamo sporadicamente: potevano passare mesi interi, anche anni, senza che mi arrivassero sue notizie, o che ne dessi a lei. Poi un giorno nella mia casella mail compariva un suo messaggio, lungo e dettagliato, in cui mi aggiornava sull’andamento della sua vita: lavorava, disegnava, viaggiava. Oppure le scrivevo io, e la sua risposta mi arrivava sempre nell’arco delle successive ventiquattr’ore.

Quando tornavo in visita a Parigi, per vedere gli amici, ritagliavo sempre qualche ora per Françoise. Sembrava ogni volta che l’avessi vista un paio di giorni prima, che ci fossimo salutate da poco. Quando la vedevo arrivare, da lontano, la notavo come se fosse stata fosforescente, come vedo le ortiche. La abbracciavo, mi abbracciava, e una delle due cominciava a parlare di un argomento qualunque.

Qualche tempo fa ho sentito via Facebook l’amico comune che ci ha presentate. Dopo gli aggiornamenti di rito, quasi distrattamente, gli ho chiesto se di recente avesse sentito Françoise – i social network non le sono mai andati a genio, e non ha mai aperto nessun account. Lui ha impiegato un po’ di tempo a rispondermi.

“Mi dispiace,” ha scritto. “Non ho pensato di dirtelo, sono mortificato. Susanna, purtroppo Françoise è morta due mesi fa.”

Françoise ha avuto un incidente d’auto. È morta sul colpo, dice che non s’è accorta di niente. Io sono rimasta seduta davanti al computer e volevo piangere, ma non ci riuscivo. Pensavo a quando l’avevo salutata, l’ultima volta che ci siamo viste, e lei aveva un vestito corto, verde, e mi ha abbracciata con slancio, quello che metteva solo nei saluti. Ho pensato a quando le ho scritto, a novembre, la notte degli attentati, per sapere se stava bene. É stato poche settimane prima che morisse.

Nei giorni successivi, Françoise mi veniva in mente in momenti casuali della giornata, a volte senza un relazione particolare con quello che stava succedendo, oppure perché una frase, uno scorcio di palazzo, un’espressione di volto me la ricordavano. Mi si incastrava il fiato nella gola e mi si seccava la bocca.

A primavera sono andata per ortiche. Mentre le raccoglievo mi è venuta in mente quella volta che gliel’ho detto, a Françoise, che mi faceva pensare a un’ortica, una volta che m’aveva risposto male. “Putain, t’es vraiment une ortie, toi”, ho esclamato, con un sorriso, e lei si è messa a ridere piano, aveva una risata sommessa. Ho guardato le ortiche e mi è venuto spontaneo tirarmi via il guanto da una mano e infilarla in mezzo alle foglie, con foga. Il bruciore mi ha fatto ritrarre subito il braccio e mi ha fatto salire le lacrime agli occhi. Poi, finalmente, sono scoppiata a piangere.

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2 commenti »

  1. I parallelismi che tu fai sono ammirevoli, mi pace come parli di una pianta e di una persona, il loro collegamento. Il finale poi è vero, liberatorio. Complimenti.

  2. Grazie mille! Mi fa molto piacere per la buona impressione e sono lusingata. Grazie. Comunque davvero, tra pianta e persona non cambia così tanto.

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