Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “Il gusto del nulla” di Beatrice Peli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Notte. La linea dell’orizzonte si confonde con l’oscurità del mare tanto che non so dove inizi l’una e dove finisca l’altra, solo qualche stella tenta di illuminare questa triste serata, ma invano: la luce è flebile. Sento le onde infrangersi sul bagnasciuga. Seduta, accarezzata dal vento gelido un brivido mi percorre tutta la schiena. Mi volto e osservo. Potrebbe essere perfezione tutto quello che mi circonda: la notte, il mare, il cielo, le stelle. Tutto appare perfetto, quasi irreale, a tal punto da iniziare  a spaventarmi. Perché mi spaventa l’idea di una qualsiasi cosa: fisica, astratta, concettuale che sia, ma perfetta? Provo a rispondermi da sola: forse la perfezione non esiste, ed è come al solito un’idea di cui si nutre la sciocca mente umana. Spesso abbiamo bisogno di porci un obbiettivo da raggiungere e puntiamo, per l’appunto alla perfezione, anche se poi non siamo mai in grado di raggiungerla dal momento che pare non esista. L’uomo è perennemente teso tra il disgusto per la banalità della vita e l’aspirazione alla bellezza e alla perfezione, inseguita e mai raggiunta e questo lo esprime nella sua poetica un uomo che sapeva farci con le parole, Baudelaire infatti tratta di un senso di turbamento profondo che poi definisce lui stesso spleen, tedium vitae, ma forse i miei pensieri si stanno spingendo troppo oltre.
Mentre la mia testolina continua ancora un po’ a rimuginare su tutto ciò facendo ragionamenti parzialmente inintelligibili e che a malapena riesco a decifrare io stessa, o comunque il mio alter ego dato che sono i miei pensieri l’argomento in questione, fisso sempre più incantata, con uno sguardo perso quel cielo stellato che mi affascina e spaventa allo stesso tempo. Mi rendo conto di essere io stessa una sorta di figura poetica in questo momento. Se ci dovesse essere, per così dire, un ipotetico osservatore esterno in grado di immortalare la scena nella sua memoria visiva potrebbe rimanere estasiato nel momento in cui il ricordo di questo istante gli riaffiorasse nella mente. Riuscirebbe a mettere a fuoco l’immagine di una personcina raggomitolata in maniera tale da sembrare ancora più piccola e indifesa di quello che è e, se l’obiettivo presente all’interno di un’ipotetica camera dei ricordi riuscisse a focalizzare anche i più infimi dettagli, allora il nostro osservatore riuscirebbe a concentrarsi sul suo sguardo e, lo definirebbe vuoto, esanime. Se potesse però andare oltre, se solo potesse entrare nella sua testa e decifrare i suoi pensieri non la reputerebbe più una debole, ma una piccola combattente, un cuor di leone. Ma non è in grado e quindi si limiterebbe a giudicarla in maniera oggettiva, proprio come qualsiasi altro essere umano, ma come fargliene una colpa? Sono io che mi aspetto troppo..
Ancora una volta sono i miei pensieri ad avermi condotta sulla cattiva strada del non riposo, è tardi. Notte fonda direi. E io sono qui, ancora una volta a pormi domande su tutto, senza trovare risposte. Non sarebbe il caso di smetterla? Dovrei tornare nella modesta abitazione in cui alloggio e che condivido con Elisa e Pietro, i miei coinquilini, ma sono troppo stanca. La schiena inizia a darmi fastidio, come accade spesso dopo essere stati ricurvi per molto tempo di seguito. Decido quindi di cambiare posizione. Faccio affondare la mano destra nella distesa vellutata di sabbia che mi soggiace, provo un lieve piacere mentre la mano è immersa nell’arena, un po’ come Amelie ne “Il meraviglioso mondo di Amelie” e mi stendo supina. Esattamente nel punto che a occhio e croce dovrebbe essere il mio zenit scorgo una flebile lucina, che trema, sembra spegnersi, trema ancora e si spegne. E mi addormento.

“..And you can’t fight the tears that ain’t coming
Or the moment of truth in your lies..”

Una voce un po’ rauca, ma piacevole canta con un tono di voce abbastanza basso accompagnandosi con una chitarra suonata da una mano leggiadra, esperta, capace. Non ho bisogno di aprire gli occhi per capire che si tratta di Pietro. Sapendo di essere in dolce compagnia attendo ancora qualche minuto prima di stiracchiarmi,stropicciarmi gli occhi e correre a salutarlo. Gli do un bacio sfuggente sulla guancia, poi lui mi tira a sé mi ruba un bacio, mi dice: <> (mi chiama così da sempre, ora che ci penso non ne ricordo il motivo). Mi porge una brioches alla panna, la mia preferita, e poi ci incamminiamo insieme lungo la promenade. È mattina piuttosto tarda,d’altronde so di essere un piccolo ghiro, e quindi ci sono già i diversi banchetti dei pescatori che servono pesce fresco di giornata alle donne del paesino marino. Pietro ed io continuiamo a camminare, io continuo a mangiare la brioche, e lo seguo, poi torniamo a casa. Appena entro saluto Elisa, che sta tentando di organizzarsi per andare al concerto degli U2 a Roma, ricambia il saluto in maniera sfuggente, è troppo impegnata. Mi preparo un caffè, lo trangugio in un sorso solo e mi sento subito più carica. Vado in camera mia, prendo il pc, mi siedo sul letto, lo apro e provo a scrivere. La mia redattrice, una donna poco cortese e parecchio insistente, mi ha imposto una sorta di ultimatum per la conclusione dell’articolo che dovrei aver già scritto: ho ancora qualche giorno di tempo. È per questo motivo che ieri notte mi sono recata sulla spiaggia, per cercare ispirazione, ma a quanto pare erano più le domande nuove che si formavano nella mia testa rispetto alle risposte che cercavo e il tutto non è stato prolifero per la nascita di nuove idee. Ancora una volta sento Pietro suonare attraverso i muri di cartongesso che separano la mia stanza dalla sua. Mi piace la sua musica, ascoltarla è una delle cose che più preferisco, ma al momento mi impedisce di concentrarmi. Provo a leggere in cerca di un po’ d’ispirazione, ma ancora niente. Un altro buco nell’acqua. Che fare? Prendo velocemente la reflex, la mia borsa, un paio di occhiali da sole, mi infilo le Converse e in un batter di ciglia sono sgattaiolata fuori dall’appartamento e giù per le scale ripide e pericolanti come di consueto nei condomini della città vecchia. Prendo la mia bicicletta da uomo rossa e ancora una volta scappo nel mio posto felice. Raggiungo la spiaggia. Ora è giorno e quello che ieri mi faceva paura oggi mi rende allegra e spensierata, il mare sembra calmo. Decido che è giornata da scogli e così riesco a vedermi: un grosso mucchio di capelli rossi sbarazzini raccolti in una crocchia disordinata, un vestito leggero, trasparente. Una ragazza seduta in contemplazione di un mare che scopre imponente e spaventoso anche a cielo sereno, osserva il rifrangersi delle onde sulla scogliera, pensa a com’è bello tutto quello che la circonda. Vede la schiuma balzare in alto, schizzandola tutta. Sente la brezza marina entrarle nei polmoni. Inspira, espira. Chiude gli occhi. Si lascia trascinare dal suono della rifrazione delle onde, dall’eco dei gabbiani, dall’immagine che è rimasta impressa del mare nei suoi occhi chiusi e poi.. Poi mi sento sussurrare all’orecchio :<>. É Luca che mi chiama, mi riporta per così dire alla realtà, gli dico che sì mi ero incantata, ma non gli racconto che cosa ho visto nel quadro simbolista di Kupka . Mi capirebbe? Sì, senz’altro. Lui è l’unico che ci riesce, ma è lungo da spiegare. Non ne ho voglia adesso. Lo prendo per mano e lo trascino lontano da quella mostra, pensando di parlare nel mio articolo di come l’arte se vera e capita può essere la trasposizione del nostro tipo di vita ideale da parte di altri. Mi rendo conto però che forse non sono io a dover scrivere l’articolo, sono davvero una giornalista? Se nel quadro ho visto me stessa e la vita che vorrei, un po’ come in un sogno.. può darsi che tutta questa storia giri attorno a una me idealizzata, alla me del quadro. E allora chi sono io? Sono la giornalista di cui parlavo? Mi gira la testa, ci penserò più tardi nel frattempo abbraccio Luca e lo guardo. Lui mi rende felice, lo sa? Nel dubbio glielo dico. Mi dice di stare ferma. Lo faccio. Mi scatta una foto. Vuole ricordarsi di questo momento, magari tra vent’anni e ha paura che la sua memoria non lo aiuterà. Così nel dubbio me ne scatta un’altra, e io gli sorrido.

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