Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “Maggio” di Eleonora Massa

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Se l’avesse avuta tra le mani.

Se l’avesse avuta, e basta. Se l’avesse potuta tenere – tenere su, dritta – stringere, talmente tanto da non farla più muovere, né respirare. Se l’avesse potuta possedere, una sola volta ancora – almeno una.

Erano due giorni che non dava segni di vita. Non un post, quattro righe dall’ultimo libro che leggeva, qualche verso di Brecht, un paragrafo di Moravia: niente da due giorni.

L’ultima notizia risaliva al venerdì precedente: quel maledetto post corredato di fotografia che gli faceva venire più lo stomaco acido che altro. L’incipit diceva che si trovava con Delia Bassani. Doveva essere a Ponte Tazio, riconosceva il parchetto sullo sfondo. Dio, com’era bella. Era la creatura più bella che avesse mai visto muoversi attorno a sé. Lei si muoveva e tanto sarebbe bastato per farlo morire. Ma Delia Bassani era con lei sulla foto. Allora questo voleva dire che era stato qualcun altro a fotografarle? Che c’era qualcun altro lì con loro – lì con lei? Qualcuno che le girasse intorno, che respirasse la sua stessa aria? Solo l’idea lo rendeva pazzo.

Eppure di recente non aveva stretto amicizia con nessuno.

Aveva partecipato a un aperitivo sociale e poi a una riunione di vecchi frequentatori del corso di scrittura creativa. Gliene aveva parlato la prima volta, di quel corso? O forse la seconda, o la quarta?

Il suo diario poi era quello di sempre.

Le piaceva la locandina del prossimo workshop di italiano per stranieri a Viterbo; aveva condiviso il prossimo bando di selezione per esperto di lingua inglese a Ca’ Foscari. Le piaceva anche la foto di Andrea: un equilibrista filiforme su una striscia di materia appesa nel nulla.

Lui le avrebbe fatto delle foto bellissime. L’avrebbe ritratta di domenica mattina, coperta da un lenzuolo bianco fin sulla metà delle natiche; l’avrebbe assaporata mentre scattava, tanto da averne la bocca intrisa.

Ma a parte ciò era inutile voler trovare in quelle pagine di diario qualcosa che anche solo nel modo più lontano raccontasse di lui. Non c’era nulla di vago in quelle parole, nulla di ambiguo che potesse lasciare spazio a dubbi: quei caratteri erano un mero codice della certezza e lei non lo pensava più davvero.

Se non fosse stato per quei tre versi che raccontavano di un bacio: un bacio, un bacio solo vorrai tu donarmi, in tutto il viver mio?

Li aveva pubblicati alle due di notte del martedì precedente. Non dormiva ancora – non dormivi ancora, amore mio? – e perché? Perché alle due di notte era sveglia a pubblicare versi? Erano per lui forse? Allora lo pensava ancora? Sì, lo pensava ancora.

Forse immaginava di essere tenuta di fianco. Glielo aveva detto che le piaceva. E lui non era più riuscito a fermarsi e quando non c’era neanche più un millimetro di lui che non fosse dentro di lei, le aveva detto «sono pieno d’amore per te ». Glielo aveva detto.

Dopo lei aveva raccontato di un articolo, di una brutta storia con una rivista, poi morta sul punto di nascere; gli aveva fatto vedere le bozze di un’altra idea, spiegato come intendeva modificare l’ordine dei paragrafi; gli aveva detto che le parole che scriveva le sembravano sempre troppo poche. E lui invece si sentiva nutrito, allevato, sfamato, da quelle parole. Quelle parole erano per lui linfa vitale, acqua per il deserto, luce per le piante. A lui sembrava di mangiarle, quelle parole, mentre con l’indice le scorreva una ad una le vertebre incavate lungo la schiena bianca.

E lei, prima di farsi prendere di nuovo, gli aveva detto che le piaceva assaporarlo.

E quella mattina sapeva di lei, sapeva di maggio.

 

L’aveva sorpresa due volte, a guardarlo, all’ultima mostra.

Lei era stata abbastanza brava nel dissimulare, ma lui ne era certo: lei lo aveva cercato, scrutato, osservato. La prima volta dal fondo della sala, mentre fingeva interesse per la stampa in bianco e nero sulla sinistra, la seconda dal lounge esterno, mentre fumava e chiacchierava con un tipo. L’aveva trovata incredibilmente bella così fuggiasca. E tanto quello non le piaceva.

Se l’era sentita tutta addosso.

 

Aveva avuto paura fino all’ultimo momento che non venisse – la solita paura. Non aveva accettato l’invito, non aveva detto “forse”, non aveva rifiutato. Che significava, ora, quel mero codice della vaghezza? Era capace di mandarlo ai matti!

Non ci sperava quasi più, ormai, quando la vide scendere le scale, con quei suoi passi incerti nel mondo.

La prima cosa a cui pensò furono le mutandine: quali portava quella sera? Non riuscì ad evitare il pensiero che non le portasse affatto. Immaginò di cingerla sui fianchi, di avvolgerla nell’incavo dell’avambraccio, di premersela addosso – di sentirla così, a lungo.

L’aveva guardata mentre mangiava due carciofini: sembrava ci facesse l’amore: un lungo e intenso incontro d’amore.

Poi l’aveva sentita raccontare dell’Argentina. Lo sapeva che ci era stata, era riuscito ad accedere ad alcune foto commentate da contatti comuni, fonti di seconda mano, roba sporca. L’aveva vista con un velo di sole sul profilo, rivolta a guardare l’orizzonte, con gli zigomi sporgenti e gli occhi grandi di nocciola e la nuca affusolata. A che pensavi, amore mio?

A fine serata ci aveva sperato. «Ti prego, dimmi che vuoi io venga con te, dimmi stiamo insieme, dimmi voglio fare l’amore». Glielo aveva sussurrato mentre si erano sfiorati: «Ciao, ci vediamo» «ciao». E lui avrebbe voluto fermare il tempo e fermare loro due lì, insieme, in mezzo alla notte chiara di primavera, sulla strada ormai deserta di gente.

Ma lei non lo aveva voluto sentire.

Fu un lungo sogno, quello di averla tra le mani, quella notte.

 

La busta da lettera rossa sulla destra della pagina lo attraeva – tremendamente.

Le avrebbe voluto scrivere, maledizione.

Le avrebbe scritto «Ti ricordi quella domenica al mare?»

Era all’aria calda della sera e il solo rumoreggiare delle onde ricordava loro in quale tempo e luogo si trovavano. Era tutto il giorno che la desiderava, tutto il giorno che immaginava come sarebbe stato sfiorarla lungo la curva dei fianchi, accarezzarne la sporgenza del bacino, tenerla per le natiche che sembravano fatte apposta per stare nelle sue mani.

Quando c’erano solamente ombre, ormai, intorno a loro, si erano amati come due animali.

«Ci sentiamo domani», si erano detti al ritorno, e lui avrebbe voluto davvero che fosse per sempre.

Poi però era arrivato l’inverno.

Si erano solamente sfiorati, più volte: «ciao», «ciao», «ciao, ci vediamo», «ciao, ci vediamo».

Ma lei non gli aveva lasciato aria, lei non lo aveva fatto respirare.

 

Una mattina di marzo erano finiti a fare l’amore dopo dieci minuti che si erano visti.

«Che vuoi?», gli aveva detto lei sforzandosi di non urlare, sotto casa, tra i ragazzini che andavano a scuola.

«Dobbiamo parlare».

«Ah sì? E sentiamo, di che vuoi parlare?».

«Di noi».

«Non c’è niente da dire».

«Scusa».

«Sei uno stronzo».

«Ti voglio».

S’erano rifugiati dentro il portone, cercando di non inciampare nel proprio fremito, mentre s’affannavano lungo le scale che portavano al secondo piano. Lui non riusciva a smettere di tirarla a sé, di stringerla, di sentirla addosso – alle otto di mattina.

Quel suo recondito volergli resistere ancora, quando lui era già dentro di lei e la teneva a sé, l’aveva fatto impazzire. Ad offuscare i loro gemiti, i clacson della Tangenziale in lontananza. Si erano amati per un’ora e lui non avrebbe mai voluto smettere. Non avrebbe mai voluto smettere di baciarla, ovunque.

Dopo, al bar all’angolo, il cibo placò ogni loro residuo scalpitio: si sciolsero lentamente, in silenzio, assopiti, storditi, sfiniti.

 

Fu qualche settimana dopo, una mattina in cui l’aria tirava da un’altra parte.

Non seppe bene neanche lui il perché e il come: invece di sfrecciare verso Nord, sfrecciò verso Sud.

Corse via, affinché non potessero più prenderlo, trattenerlo, braccarlo.

Ma lei non gli diede tregua, neanche quella volta.

 

La mattina, quando prendeva il caffè dalle parti di Via Labicana, si chiedeva quanti caffè avesse già bevuto lei.

Si chiedeva se avrebbe mangiato a pranzo; se le sarebbe piaciuto dello zenzero in più o del curry in meno, la sera, mentre cucinava.

Lo eccitava il pensiero di darle da mangiare, e di mangiarla poi.

Per caso un pomeriggio si trovò a passare davanti a un negozio di intimo femminile, e quasi si sciolse di piacere a immaginarla vestita di seta.

La cercava ovunque, nelle strade di sempre, negli angoli di un tempo. A volte all’ombra degli Acquedotti Antichi. Dovevano andarci a fare delle fotografie e non lo avevano mai fatto. E lui non avrebbe voluto altro che andare con lei, all’ombra degli Acquedotti Antichi, a fare delle fotografie e ad amarsi.

La pensava di mattina, quando si svegliava e le avrebbe voluto dire «buongiorno, amore mio».

Non c’era donna che gli passasse accanto in cui non sperasse di ritrovarla, per andare via con lei, per sempre.

La pensava quando si faceva la barba.

Si chiedeva come sarebbe stato tornare di là, in cucina, e trovarla in attesa della prima goccia di caffè – come sarebbe stato, poterla guardare, di mattina.

La pensava quando fumava uno spinello la sera.

Gli sembrava di respirare la sua stessa aria.

L’aveva adorata ogni giorno, sulla foto che la ritraeva con i capelli più scuri, fini come spaghi, che si aprivano sulla fronte, la pelle candida e le labbra rosse di porpora.

Lui l’aveva scrutata, scandagliata, spiata.

Sfiorata, toccata, amata con lo sguardo: ogni volta che voleva, che ne aveva bisogno, che doveva respirarla per respirare.

Finché non era riuscito a rivederla alla mostra.

Finché non l’aveva rivista a Ponte Tazio, bella come nient’altro.

Finché non aveva mai smesso di vivere del suo pensiero.

 

Il prossimo vernissage sarebbe stato l’occasione giusta: lui le avrebbe parlato.

E poco importava che lei non avesse ancora accettato l’invito: quella sera, lei sarebbe venuta, magari in ritardo, ma sarebbe venuta e gli avrebbe fatto tremare le gambe. Sarebbe arrivata e lui le avrebbe detto  «Andiamo via, andiamo a fare l’amore. Non c’è cosa al mondo che io voglia di più se non fare l’amore con te». Glielo avrebbe detto.

«Sei sparito», gli avrebbe risposto lei. «Un’altra volta. Che vuoi?».

«Voglio stare con te».

Lei avrebbe opposto resistenza.

«Ti prego … fatti amare … lascia che io ti ami, ti prego».

«Tu non sai amare», avrebbe aggiunto lei, «e nemmeno più io».

«Lo sai che non è vero … Insegnami ad amarti allora. Ti prego, insegnamelo. Ho bisogno di amarti per vivere».

Alla fine sarebbero andati a fare l’amore.

Si sarebbero amati tutta la notte, da lei, e lui le avrebbe detto «quanto sei bella, Carla, quanto sei bella, amore mio».

La mattina dopo si sarebbero amati ancora e lui non se ne sarebbe mai voluto andare.

E sarebbe stato di nuovo maggio.

 

Sarebbe stata la cosa più bella al mondo – che di più belle non se ne potevano immaginare – davvero.

Ma: non sarebbe mai accaduta.

Perché lui non le avrebbe mai parlato.

Lui non le avrebbe mai scritto.

Né oggi, né mai.

 

Chiuse la pagina.

Fuori c’era una bella aria.

Accese il motore e sfrecciò via, da qualche parte, di nuovo.

Perché in fondo, chi glielo diceva a lui, che lei fosse diversa dalle altre?

 

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