Premio Racconti nella Rete 2010 “Nonna Bruna” di Filippo Amidei
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Erano circa le diciannove di un sabato sera intorno agli anni ottanta, di certo un qualche sabato del ’79, io e Chicco, in realtà Federico ma per noi amici è sempre stato Chicco, ci stavamo avviando verso casa di Andrea per il nostro sacro rituale.
Sì, perché quella storia andava avanti ormai da alcuni mesi, ogni sabato, senza saltare una puntata, era divenuto una specie di atto propiziatorio per la degna apertura dei nostri fine settimana.
Girammo l’angolo, con le sigarette in bocca, tanto per darci un tono e sembrare più grandi di quanto non fossimo, anche a rischio di incontrare qualche conoscente, se non addirittura i nostri genitori, ma era un rischio che in fondo ci piaceva correre.
Attraversammo il giardino pubblico, l’ultimo ostacolo prima della meta, facendo attenzione a schivare i ricordi che qualche animaletto a quattro zampe aveva disseminato qua e là sul ghiaino.
In questo rettangolo con un po’ di verde ed un paio di panchine scrostate, in quegli anni ci spendevamo gran parte dei nostri pomeriggi, parlando, fumando ed inventando i giochi più incredibili che si possano immaginare, ma di tutto questo vi racconterò un’altra volta.
Ora ci interessa attraversare la strada, lo facemmo, lasciando prima passare una centoventisette rossa con una bella mora alla guida, io e Chicco ci guardammo, lanciando nell’aria un’occhiata d’intesa, talmente densa e carica di voglia che la signorina avrà di certo sentito un fremito correrle lungo la schiena, poi ci trovammo d’incanto davanti al civico 34.
Prima di suonare il campanello vidi Andrea immortalato da un sorriso beffardo dietro al vetro leggermente appannato del soggiorno, teneva la sigaretta storta in un angolo della bocca; lui fumava già in casa, beato lui, pensai.
Noi comunque suonammo lo stesso, eravamo ragazzini educati, il tempo di accostare il cancello ed Andrea era già sulla porta, ci invitò ad entrare, con lo stesso sguardo furbo, la stessa cicca storta, solo un briciolo più consumata.
Attraverso il corridoio lanciammo un saluto, sicuri che di là, in qualche angolo della cucina, avrebbe scovato la mamma del nostro amico, il suo “ciao” ci ritornò proprio prima di varcare la soglia del soggiorno.
A quei tempi la mamma di Andrea era forse un po’ impicciona, ma mi piaceva, era quell’essere impicciona che non mi disturbava, magari semplicemente perché lei non era mia madre, o forse perché in quel suo modo di ficcare il naso nelle nostre cose ci sentivo un bisogno materno, una voglia istintiva di proteggere, di tenerci al riparo, anche se non so bene da cosa.
Comunque noi eravamo lì per un’altra donna, eravamo lì per nonna Bruna.
Entrammo in questo soggiorno classico con un bel divano comodo e fiorito piazzato accanto alla porta di ingresso, un bel tavolo da pranzo, generoso e rotondo, proprio al centro della stanza, un mobile maestoso in legno massello, forse noce, carico di serviti buoni.
In un angolo, verso la finestra che guardava la via, quella alla quale poco prima era affacciato il nostro amico, c’èra un mobiletto stereo e proprio accanto a questo ecco che apparve nonna Bruna.
Se ne stava seduta tranquilla su quella sedia impagliata, forse un po’ troppo stretta per le sue forme abbondanti, le pantofole imbottite donavano un po’ di sollievo a quei piedi stanchi che avevano già percorso in lungo ed in largo un bel pezzo di vita.
Indossava delle calze color pelle, talmente spesse e pesanti, che formavano mille grinze intorno alle sue caviglie gonfie, sulla gonna un plaid a quadri colorati, poco sopra una camicetta bianca, protetta da un maglione di lana fine, con l’immancabile spilla appuntata al centro del cuore, infine uno scialle di lana grossa cucito a mano, forse da lei stessa, qualche anno prima, quando la vista non l’aveva abbandonata e le faceva ancora compagnia.
La guardavo con quegli enormi occhiali neri, un po’ modaioli, alla “blues brothers”, che le coprivano un terzo della faccia, stonando con l’immagine classica della cara nonnina, ma vi assicuro che non era niente in confronto alle due enormi cuffie stereo che le tappavano completamente l’orecchie, trasformandola in una specie di strano ibrido, a metà strada tra un Tonino Carino al femminile ed un alieno sovrappeso ed attempato.
Io e Chicco ci avvicinammo all’impianto, notai la manopola del volume girata a mille, mi chiedevo come potesse resistere la povera Bruna, mi concentrai sul vinile che girava sul piatto a ruota libera, puntai lo sguardo strizzando gli occhi, e finalmente decifrai: “light my fire” by “The doors”.
“cazzo Andre, tu se di fori “ dovetti dirlo.
“No, no, …. a le’ gni piace” rispese ridendo e dentro di me sapevo che era vero, anche se mi restava difficile crederlo.
Fu una di quelle scene che ti rimangono incollate addosso, da qualche parte, per il resto della vita, un fermo immagine grottesco e surreale, che tante volte ritornerà a far capolino per scaldarmi di nuovo il cuore.
Anche io e Chicco ridemmo di fronte a questo miracolo di donna che improvvisamente mi fece sperare in un’esistenza folle e stupefacente e mi spalancò davanti le porte di un futuro tanto meraviglioso, quanto imprevedibile, dentro al quale sentii una gran voglia di tuffarmi.
Andrea tolse le cuffie a Bruna “ora nonna s’ascolta un po’ di roba tutt’insieme”.
Lei non si scompose “va bene nini” disse, stirando un sorriso stretto, che marcò ancor di più le mille rughe cresciute dentro al suo volto.
I brani passarono uno dopo l’altro, ci sparammo Bruce e poi roba notevolmente più tosta, ogni tanto Andrea spronava la vecchietta “nonna ti garba questo?”.
“Si mi garba, ma io un mene ‘ntendo” diceva, come se quella fosse la scena più naturale della sua vita, battendo il tempo della musica sopra le ginocchia strette con le dita grinzose, ma ancora gentili.
“Nonna ora si gioca la schedina”.
Ecco, Andrea aveva aperto le danze, ora si sarebbe riso davvero, lo sapevamo già tutti e tre, così uno strano formicolio stuzzicò ogni centimetro della mia pelle, mentre mi mettevo seduto intorno al grande tavolo.
Chicco si sistemò alla mia sinistra, Andrea alla destra, più vicino a nonna Bruna, che invece rimase seduta al solito posto, sul trono misero della sua vecchiaia.
Andrea seminò quattro o cinque schedine sul tavolo, si alzò per prendere una penna dal cassetto del mobile, si rimise a posto, poi attaccò:
“Nonna, pronta? Bologna – Atalanta 1, X o 2?”
“Come? Un capisco” era sempre così, mai una volta che capisse alla prima.
“Nonna! Bologna – Atalanta chi vince?” poi di nuovo “1, X o 2?”
Allora nonna Bruna forse capì, così emise la sentenza “1 a 0”
Mi ritrovai piegato in due, ridevo come uno scemo, non mi potevo fermare e con me neanche Chicco, che batteva i pugni sul tavolo ed Andrea, che non ce la faceva neppure ad andare avanti, ma poi trovò la forza.
“Nooooo, nonna, 1, X o 2?”
“1 a 0” di nuovo
Allora lui disarmato:
“Pippo dai, segna uno” poi “nonna! Catanzaro – Ascoli? 1, X o 2?”
E lei “ 2 a 2 ”
E giù di nuovo a ridere “Nooooo,……nonna… devi dire 1, X, o 2….no i risultao finale”
“Oh nini e unno so, so vecchia, o icche vu mi fae fare”
Ma noi non ci arrendemmo e nemmeno Bruna, che grande nonna Bruna.
“Allora Lazio – Inter, nonna 1, X o 2?”
Eravamo alle solite “0 a 0 un vince nessuno”
Andò avanti così per quasi un’ora, con le budella che si attorcigliavano per le risate tanto stupide, quanto innocenti, ci sparammo l’intera schedina, con tutta la seria A, parte della B ed un paio di frammenti della terza serie.
Si chiuse con Lucchese – Pisa.
“Nonna dai l’è l’ultima…. Lucchese – Pisa 1, X o 2?”
“Icche? unne conosco”
“dai nonna tira a caso”
“Si Bruna un si preoccupi” intervenimmo in coro io e Chicco.
“Due a zero pe i Pisa” non poteva esserci chiusura migliore di un classico due a zero, il risultato più rotondo, quello più bello, almeno per chi vince.
Quella sera decidemmo di saltare la consueta pizza e fissammo di andare a vederci un bel film, ma non ricordo quale, così ognuno di noi cenò a casa sua, per ritrovarci poi intorno alle 21,00 sotto casa di Chicco, che era proprio a ridosso del centro e a pochi metri dal cinema, al secondo piano di un palazzotto signorile.
Ci trovammo sotto il portone ed attraversammo la strada, quando eravamo di fronte all’ingresso della sala ci venne in mente che non avevamo giocato la schedina, quel foglietto carico di speranze era rimasto a casa di Chicco, non aveva sceso le scale con lui.
Discutemmo un po’, ma non trovammo un eroe, non uno, disposto a farsi un breve viaggio di andata e ritorno per quelle quattro rampe, così lei se ne restò lì, appoggiata sul tavolino dell’ingresso e noi c’inoltrammo nel fine settimana con qualche sogno in meno.
Ricordo che la domenica sera eravamo seduti in quella specie di campo base che era divenuta quella casa vicino al centro, ce ne stavamo in attesa di “domenica sprint” per vedere i commenti alle partite.
Io, non so come, mi ritrovai quella schedina in mano e proposi di vedere come era andata, gli altri, dopo qualche sana e saggia reticenza, accolsero l’idea, così Chicco iniziò a leggere i risultati.
“Bologna – Atalanta 1”
Ed io “si”
“Catanzaro – Ascoli X”
Ed io “si”
“Lazio – Inter X”
Ed io, ancora “si”
E così, fino alla fine “ si, si, si, si, si,si”.
Era successo! avevamo beccato il 13, ma non avevamo giocato.
Tralascerò di raccontarvi cosa successe negli istanti successivi, è facile immaginarlo, vi basti sapere che trascorsi una delle notti più agitate ed insonni della mia vita.
Il lunedì uscirono le quote delle vincite, allora funzionava così, c’era un giorno di attesa tra la fine delle partite e la comunicazione del montepremi, un giorno interminabile di sogni e preghiere per coloro che avevano abbracciato la fortuna, un incubo senza fine per noi che l’avevamo ignorata.
Fortunatamente la vincita fu modesta, diciamo che non avrebbe cambiato le nostre giovani vite, ma un bell’aiutino per le vacanze estive e qualcosa più, certamente ce l’avrebbe concesso.
Quella fu l’ultima schedina che giocammo per un bel po’ d’anni, di certo fu l’ultima che giocammo con nonna Bruna.
Certi giorni, ancora oggi, a distanza di più di trent’anni, il mio pensiero torna leggero a quei fine settimana, allora un calore dolce mi avvolge, provo ad immaginare cosa sarebbe successo se avessimo continuato quello strano rituale, mi chiedo se quella magia sarebbe perdurata, o se invece ci avrebbe abbandonato all’improvviso, lasciandoci in bocca un sapore amaro.
Forse è proprio vero che ogni momento della nostra vita deve avere un inizio ed una fine, una sua durata ben definita, da non travalicare, forse solo così certi avvenimenti possono segnare la nostra esistenza, rimanendo sospesi a mezz’aria, come una cosa irrisolta, che non smette mai di affascinare e di richiamarti a se.
Nel preciso momento in cui l’autore introduce il personaggio di nonna Bruna, descrivendone,con dovizia di particolari, l’abbigliamento, la posizione ed il particolare atteggiamento,tipico delle persone di una certà età,ho avuto come un flash: sembrava per filo e per segno l’immagine fotocopiata di mia nonna Adele…la spilla sul petto…azzeccatissima!!!Un’altra cosa che ho molto apprezzato in questo racconto è il mirabile sforzo di far sembrare il personaggio ingenuo ma mai ridicolo,segno dell’affetto per gli anziani che Amidei mette sempre in evidenza.Bravo!
Simona, ti ringrazio per i complimenti. Mi fa piacere che tu abbia notato una cosa che forse era sfuggita persino a me. In fondo poi, credo che tu abbia ragione, nel mio modo di guardare e rapportarmi alla vecchiaia c’è sicuramente affetto, una sorta di rispetto dolce per quella ritrovata ingenuità e quella capacità di meraviglia che l’accomuna all’infanzia e che poi , a un certo punto della vita, sembra destinata a scomparire.
Io ho scritto questa cosa di getto, assecondando le sensazioni che pulsavano dentro di me, al ricordo di quei momenti. Se ho evocato l’immagine di una “nonna Bruna” semplice, ma piena di amore e dignità, beh, allora vuol dire che sono riuscito a farla rivivere in queste poche righe e questa per me è una gran bella soddisfazione.