Premio Racconti nella Rete 2016 “Mosca cieca” di Barbara Langella
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Arrivò in stazione che non erano ancora le sette. Al binario cinque ogni mezz’ora partiva il treno che prendeva per arrivare in ufficio, mentre di fronte, al sei, all’incirca negli stessi orari, quello su cui sarebbe salita quel giorno per andare nella direzione opposta.
Posò lo sguardo sulla striscia di cemento tra i due binari e cercò uno spazio dove sedersi su una delle due panchine di marmo. In mezzo, tra la prima e la seconda, il cartellone con l’orario degli arrivi e delle partenze e i tre cestini della raccolta differenziata.
Quella mattina lui non sarebbe stato a casa. Era il momento giusto per recuperare i vestiti che negli ultimi sei mesi aveva lasciato da lui, in quello spazio nell’armadio che a poco a poco era aumentato fino a diventare metà; e per svuotare la mensola più bassa dell’armadietto sopra il lavandino, dove erano rimasti la crema per il viso, lo spazzolino e gli assorbenti.
Aveva anche il tempo per ripulire l’appartamento dai segni della loro convivenza.
“Resta stasera, non tornare a casa tua.”
“D’accordo, stasera resto.”
Ditate leggere a contorno delle maniglie delle porte, capelli in qualche angolo del pavimento, yogurt nel frigorifero vicino alla sua marmellata. Chissà quanto tempo ci sarebbe voluto per fare tutto se fosse stata lì per mesi, o anni. Di quante cose si sarebbe dovuta occupare, molte di più di quelle che adesso sarebbe state in una borsa o esaurite in un paio d’ore di lavoro. Meglio così, dopotutto.
Infilò gli auricolari nelle orecchie. Si lasciò cadere sulla panchina, e chiuse gli occhi. Inspirò lentamente e poi si fermò qualche secondo prima di mandare via l’aria. L’arrivo del treno la colse di sorpresa, si alzò in fretta e si preparò a salire, fermandosi di fronte alle porte più vicine. Mentre guardava i ragazzi scendere a gruppetti dal treno con lo zaino in spalle, si domandò perché non ci fosse una sola ragazzina con i capelli corti. Li portavano lunghi, mossi o dritti, legati in una coda alta o tutti in avanti a coprire le spalle.
Salì sul treno e poi su per i gradini fino al piano superiore. Una volta in cima, occupò l’unico sedile di tutto il vagone che non ne aveva uno di fronte e allungò le gambe. Prese il cellulare e diede un’occhiata veloce all’app che aveva già impostato sul percorso che avrebbe dovuto fare, trenta minuti e quattro fermate prima di arrivare a destinazione. Il treno viaggiava in orario. Mise una sveglia dopo venticinque minuti per essere sicura di scendere al momento giusto.
Alzò ancora il volume e chiuse gli occhi, spinse gli auricolari ancora più in dentro e appoggiò la testa sul vetro che divideva i sedili dalle scale.
“Allora me ne vado”, gli aveva detto.
“Sei stata tu a decidere”, ed era uscito dalla porta di casa senza mettersi nemmeno una giacca. L’aveva chiamato per tutta la sera, ma lui non aveva mai risposto. Così alla fine, se n’era andata anche lei, aspettando una settimana per tornare a prendere la sua roba.
In quei giorni si era sforzata di ritrovare l’odore della casa. Un appartamento al terzo piano senza ascensore, in cui lui viveva da anni, ancora prima di conoscerla. Insistere però era stato inutile, sapeva che lo avrebbe ritrovato solo facendovi ritorno, da sola, come capitava le sere in cui rientrava prima di lui. Si metteva a letto, e dormiva appena. “Vieni, mettimi una mano sulla pancia”, gli diceva quando sentiva sollevarsi le coperte. “Lascia la luce accesa, non sopporto che sia tutto buio” e si addormentava con l’odore familiare di loro due sulle lenzuola.
Aprì gli occhi alla prima fermata. Non si era accorta fino a quel momento che i due posti a fianco erano occupati da un uomo e una donna, seduti uno di fronte all’altra. Lui riempiva il suo spazio in modo composto e ordinato. Lei aveva un sorriso lento che le scopriva i denti grandi e regolari. In quei posti angusti alla fine del vagone, stretti di lato dai finestrini che si incurvavamo verso di loro e con i sedili uno di fronte all’altro divisi da una manciata di centimetri, si erano spartiti lo spazio alternando le gambe e evitando in modo quasi innaturale che le loro ginocchia si toccassero.
“Dove sei a Natale? ”
“A casa dei miei,” e si era tirata su gli occhiali sul naso senza smettere di guardarlo, con la testa appena piegata verso il mento e le ciglia all’insù.
Una frenata subito dopo la partenza interruppe le loro voci. La mano di lui si aggrappò alla gamba di lei per evitare di spostare tutto il corpo in avanti e invadere lo spazio che li divideva. Una questione di pochi secondi, il tempo di incrociare gli occhi ad una distanza che era diventata ancora più piccola, tutti e due sorridere appena, lui rimettere la mano in grembo, lei aggiustarsi di nuovo gli occhiali sul naso e infine ricominciare a parlare.
Guardò oltre la coppia, fuori dal finestrino. Il treno stava ripartendo. Persone e oggetti sul binario cominciavano a muoversi. I bar della stazione sembravano tutti uguali. Riconobbe però la sagoma familiare di quella casa rosa a due piani che stava subito dopo la prima fermata del suo percorso di tutti i giorni. Aveva sbagliato treno.
Come era potuto succedere? Ricordava che a un certo punto, prima di salire, aveva chiuso gli occhi. Era successo qualcosa, come se qualcuno dall’esterno fosse intervenuto a invertire la posizione degli oggetti, il binario cinque con il sei, la prima panchina con la seconda, gli arrivi con le partenze. E i cestini sempre in mezzo. Da piccola, giocava spesso a mosca cieca e aspettava con ansia il suo turno per essere bendata. L’avrebbero fatta girare su se stessa, e poi fermare in un punto che non avrebbe potuto scegliere, ma solo indovinare, sperando di aver avuto la giusta intuizione. E chissà poi se sarebbe bastato allungare le braccia per evitare di sbattere contro qualcosa. E quanto ci avrebbe messo a ritrovare l’equilibrio. Non era giocare quello. Odiava mosca cieca.
Ritornò alla loro ultima discussione.
“Mi sembra di doverti chiedere sempre il permesso per ogni cosa che lascio o prendo. Questa non è casa mia. Perché mi chiedi di rimanere?”
“Perché sono contento che tu lo faccia. E perché spero che lo sia anche tu.”
“Non abbastanza contento da smettere di chiedermelo tutte le volte.”
Lui non aveva replicato. E non le era restato che portare il ragionamento fino alla fine.
“Allora me ne vado”.
Si sistemò più in su sullo schienale, e si girò dalla parte opposta. Vicino a lei, nel corridoio davanti alla fila di fianco alla sua, un’altra coppia, un uomo e una donna stavano occupando i posti vicino all’altro finestrino. L’uomo si sedette per primo prendendo il posto nella direzione del treno e la sua compagna si sistemò di fronte, con le gambe accavallate e lo sguardo fisso a terra. Lui iniziò a voltarsi da una parte e dall’altra: brevi occhiate veloci, più per controllare se era osservato che per osservare a sua volta. Di fronte, lei si alzò all’improvviso e, con il viso senza espressione, gli appoggiò la borsa sulle ginocchia. Si tolse il cappotto e lo infilò nel vano sopra la sua testa. Con lo stesso gesto veloce, riprese la borsa, si sedette e poi, frugando con una mano all’interno, recuperò il cellulare. Lui invece, piegandosi di lato, lo estrasse dalla tasca dei jeans.
Li osservò ancora per alcuni secondi, entrambi con la testa abbassata sullo schermo del proprio telefono. Dalla parte opposta, l’altra coppia continuava a parlare sorridendosi.
Abbassò la testa. Non ricordava più quei quattro volti, ma solo i posti che stavano occupando, eppure li aveva avuti negli occhi fino a qualche istante prima. Ne aveva guardati i gesti, pensando che fossero all’inizio e alla fine di qualcosa. Sentì di oscillare tra quei due estremi, senza sapere dove si sarebbe trovata quando si fosse fermata.
Si tirò su i capelli con le mani e li imprigionò tra la testa e il sedile in un groviglio scomposto. Ripensò all’elenco che aveva scritto la notte del litigio per sostenere la decisione di troncare la loro storia – lui è disordinato, non sa cucinare, non mi chiama mai per primo; aggiunse mentalmente che non avrebbe mai permesso che gli lasciasse la borsa sulla gambe senza nemmeno chiederglielo, che non le aveva domandato con chi sarebbe stata a Natale, e non le aveva mai detto niente a proposito dei capelli – chissà se gli piacevano corti o lunghi.
Le girava la testa. Prese il cellulare e tolse la sveglia che aveva impostato. Non si allungò per controllare dal finestrino dove era arrivata. Quel treno avrebbe fatto avanti e indietro per tutto il giorno, e in un punto del percorso, alla fine, sarebbe scesa.