Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “Argento e diamanti” di Riccardo Crema

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

In un fredda mattina d’inverno banchi di nebbia ammantavano le montagne  avvolgendosi attorno agli alberi mentre la luce solare filtrava fredda tra essi. Sui rami la galaverna stava lasciando il posto a coni di ghiaccio trasparenti e perfettamente lucidi e i rivoli d’acqua si stavano solidificando. Il lago, che ormai era totalmente coperto da uno strato di ben quaranta centimetri di ghiaccio, stava richiamando molte coppie di amanti che andavano lì per ammirare la perfetta trasparenza della  lastra. Tra quegli  alberi e monti in un enorme castello abitava Idho che alla morte del nonno avrebbe ereditato un’immensa fortuna. Aveva vent’anni e nella grande catastrofe della cava aveva perso gli zii e molte persone che gli erano care. Solo gli dei sapevano quanti altri erano morti lì sotto in quel pomeriggio di nove anni prima. E solo un anno dopo con il disastro della centrale nucleare di Asta la sua famiglia conobbe un ulteriore lutto. Dopo quell’evento le radiazioni si erano prese i suoi cugini uno ad uno, lentamente e dolorosamente.  Spesso molti piccoli venuti al mondo dopo quella catastrofe con gravi e mostruose deformità: chi con le mani palmate, altri con membrane tra le braccia, due volti l’uno opposto all’altro, altri con dita al posto dei capelli. A volte gli sembrava di essere in una fiera di mostri, altre volte si sentiva lui  il mostro, deforme e fuori posto. Molti dei bambini nati dopo quella catastrofe erano apatici, al limite della razionalità e della schizofrenia, creature mentalmente distrutte destinate a rimanere in una prigione chiamata Casa di Cura senza  mai poter uscire, senza mai poter  avere un rapporto con il mondo. Non  oso dire il dolore dei genitori nel vedere i propri figli ridotti in quello stato. Quella mattina portava un velo di nebbia che mordeva le mani ed il naso, un freddo non insolito  in quel luogo ed in quel periodo.  Un anziano signore era sulla terrazza che dava sul giardino interno seduto sulla sedia a rotelle e vestito con una semplice camicia da notte.  Il nipote si avvicinò a lui  con aria stanca e leggermente trascurata.

“ Ecco il signor Morte. “ Disse il nonno con  un filo di voce flebile. Aveva iniziato a chiamarlo così da quando lo aveva visto per la prima volta vestito con camicia e giacca nera. Il che era un soprannome veramente azzeccato data l’aria truce che portava sempre stampata sul viso,un marchio indelebile amplificato e peggiorato dalla sua carnagione chiara e dalle profonde occhiaie che gli scavavano gli occhi, cerchiandoli.

“ Cosa ci fai qui nonno? ti prenderai una polmonite fulminante!” Gli disse il nipote mentre saliva gli ultimi scalini. Il ninnolo guardò sorridendo.

“ Vedi: mi ero preparato come al solito lavandomi la faccia , pettinando i pochi capelli che mi restano e mettendo l’acqua di colonia per andare a fare il nostro solito giro, ma quando sono uscito improvvisamente Jack Frost aveva disteso il suo bianco mantello sugli alberi e sui prati. “ Disse con un  tono di voce tale da far capire all’istante al nostro giovane amico che quel giorno la sua mente era un po’ più vacillante del solito e che ben presto sarebbero iniziate le urla e le grida isteriche, poi i deliri ed infine l’apatia. Il nipote prese le due impugnature della carrozzella e lo riportò in camera. Quella notte non aveva dormito gran che a causa dei continui lamenti del  vecchio signore per i dolori da arto fantasma. Gli erano state amputate le gambe; una all’altezza del ginocchio, l’altra completamente; ed il braccio sinistro. Il cancro alle ossa era un nemico maledetto ed infido, impossibile da debellare e che ti mangiava lentamente pezzo per pezzo.

Non appena fu davanti allo specchio e vide la sua immagine riflessa in esso si spaventò come se avesse visto  un fantasma .

“ Chi è quel vecchio che continua a fissarmi?” Chiese con un filo di voce interrotta dalla paura indicando se stesso.

“ Continua ad imitarmi in tutto quello che faccio.“ Disse poi,  mentre il nipote prendeva da un alto mobiletto una bottiglietta di vetro marrone, facendo cadere in un bicchiere alcune gocce di un liquido  che allungò con un po‘ d‘acqua.

“ Oh, giusto in tempo Signorino Morte, ho una tal sete .” Tra le mille farneticazioni ed i balbettii insensati che si facevano sempre più intensi e sconclusionati, nella mente di  Idho, lentamente una sicurezza disarmante ed innegabile iniziava a crescere. Quello ormai non era più suo nonno, era solo il fantasma di un passato assai più felice di ora.

“ Cos’è?”

“ Acqua e menta. Bevila tutta d’un sorso .” raccomandò. Il nonno fece come detto e non ne lasciò neanche una goccia.

Alcuni minuti dopo era tornato ad essere il  caro e dolce anziano signore che, educato e riservato trascorreva le sue ultime lune di vita tra momenti felici con il nipote e letture che lo riportavano ai cari momenti della sua ormai passata giovinezza, quando ancora aveva l’età di Idho. Fu proprio in quel momento di lucidità che chiese al nipote di poterlo portare al parco per prendere un po’ d’aria. Il signorino Morte non poté farne a meno dicendo tra se e se che tanto avrebbe dovuto passare comunque per il paese per la riscossione mensile delle tasse.  Le sue visite erano talmente regolari e precise che gli impiegati bancari ormai conoscevano perfino la strada che percorreva. Arrivava la prima mattina del mese  alle 10.30 e si toglieva il cappotto. Alle 10.40 si stava rimettendo il cappotto. Alle 10.41 era uscito e mescolandosi ad una caotica ma tranquilla massa si avvicinava alla macchina. In fine, alle 11.00 era arrivato al  parco che il nonno tanto desiderava rivedere. Con la carrozzella Idho lo portò nel loro punto speciale: una panchina all’ombra di un salice piangente secolare che si protendeva verso un lago artificiale come se volesse specchiarsi. Sì sedevano li  e con quella vista idilliaca iniziavano adiscutere. Altre volte se ne stavano in silenzio, lasciando che fosse il paesaggio a parlare per loro. Quello fu uno di quei pochi e rari momenti in cui il nonno era perfettamente lucido e aveva voglia di chiacchierare.

“ Cosa ti lega così tanto a me Idho? Perché continui a portarti dietro un peso morto quale sono io? Sei ogni giorno più stanco e magro… hai gli occhi che a stento riesci a tenere aperti per il sonno. “

“ Finchè ci sarà la  possibilità che tu non peggiori o che comunque io riesca a continuare, lo farò. Sei mio nonno tutto quello che resta della mia famiglia .“

“ Ma non hai già  sofferto abbastanza vedendoli morire tutti? E poi cosa mi dici dei tuoi fratelli?”

“ Almeno tu sei ancora qui .”

Vi fu un momento di silenzio .

“ Quant’è passato dall’ultima  volta in cui sono stato totalmente lucido?”
“ Tre anni. Ad essere precisi tre anni. “

Calò nuovamente il silenzio per il resto della giornata. Quella sera gli mise del sonnifero nell’acqua e lo portò a letto.

“ Non potrai andare avanti ancora per molto con questa bella recita “ disse, mentre il nipote gli rimboccava le coperte.

“ Ti prometto che troverò una soluzione per te” disse infine l’anziano.

Idho chiuse i balconi alle finestre, dove aveva fatto mettere delle inferriate e la porta facendo scattare due volte la chiave nella serratura. Tornato nella torre cilindrica che usava come camera, si stese sul comodo letto, mentre l’ultimo pezzo di legno bruciava nel camino. Dopo essersi messo il pigiama, si mise a ripensare a quella giornata. Non  era stata poi così pesante come si sarebbe aspettato, forse perché il vecchietto era lucido, forse perché non aveva avuto la forza per pensare. Guardò l’orologio a pendolo e gli venne il pensiero che due ore dopo il conto sarebbe ricominciato da zero. Suo nonno aveva ragione a dire che non sarebbe andata avanti ancora tanto: era al limite di quello che il suo corpo poteva permettergli di sopportare. La sua mente era già stata spezzata, il tempo stava corrodendo già anche le più forti parti del suo essere. Chissà cosa sarebbe accaduto a lui? Sarebbe finito come il nonno? Sarebbe impazzito e finito in qualche manicomio fino a che non sarebbe crepato? Mentre questi mille pensieri gli passavano nella mente, lentamente si addormentò. La mattina seguente, dopo essersi svegliato e  aver fatto colazione, controllò le sue mail. Ce n’era solo una: quella del senatore Putreq. La lesse. Come al solito non c’erano particolari novità dalla capitale, un’unica notizia: il re aveva legittimato la richiesta dell‘anziano antenato di Idho di rendere il ragazzo unico erede del titolo di Gran Duca e di potergli lasciare ogni bene che spetta di diritto ad un primogenito.

Erano giorni freddi e piovosi quelli, giorni in cui il cielo pareva come coperto da una cappa di piombo e ferro dalle quali cadevano lacrime di acqua e grida d’oro. Le giornate si facevano sempre più piccole e fievoli, la temperatura scendeva ogni giorno sempre di più sotto la minaccia  incombente del gelo, e tutto era calato in un letargo nascosto nella terra, quasi come se gli animali e gli alberi volessero allontanarsi da quel mondo grigio per risvegliarsi col ritornare dei colori.

Lì Idho si sentiva  un re che temuto ed amato nello stesso tempo camminava tra i suoi sudditi prostrati. I suoi passi erano talmente leggeri da sembrare quelli di un fantasma, poi quando si guardava allo specchio si diceva tra sè e sè che il vero morto era lui. Scarno, pallido , con un cancro la cui possibile cura lo sfiniva e lo lasciava ogni giorno sempre più spossato e vuoto. Mangiava e beveva quanto gli bastava per sopravvivere o per essere più precisi mangiava quanto bastava per non morire. Non parlava più ormai.

Idho guardava la barella spostarsi mossa da degli infermieri che la misero nell’ambulanza . C’era una persona  coperta da un telo bianco. Mentre guardava allontanarsi il nonno defunto un pensiero gli attraversò la testa, spontaneo , inaspettato. – Finalmente è crepato. Era ora.-

Nella causa del decesso c’era scritto: caduta accidentale dal balcone. Quella notte Idho era andato nel laboratorio e a seguire il nonno c’era una badante. Si era gettato dal balcone in una delle sue solite  crisi, inutile dire la fine che fecero le sue povere e fragili ossa malate  al contatto con il terreno. Il corpo venne cremato contro le usanze  e senza tutte quelle cerimonie fastose, niente funerali, nè veglie o cortei. Le ceneri vennero poste in un’urna di porcellana bianca decorata con intarsi di argento. La  notizia della morte del duca era dilagata a macchia d’olio in tutto il territorio e tutti si chiedevano come sarebbe stato il nuovo nobile. Ciò nonostante dobbiamo tornare a quella fredda ed umida mattina in cui la morte aveva lasciato dietro di sè la traccia della sua presenza come un temporale lasciava dietro di sè pozzanghere e fango. Non è necessario dire quindi che il giovane ragazzo non fece altro che starsene solo per tutto il resto del giorno in camera sua. Quel pomeriggio sarebbe arrivato un impiegato della banca per leggere il testamento e per firmare le carte che gli erano state mandate . Le aveva lasciate lì sul tavolo la sera prima quando aveva finito di compilarle, in modo da evitare di doverle prendere all’ultimo momento, rischiando inoltre di non trovarle più o di confondersi con altri fogli inutili che gettava di solito nel camino o che usava per accendere il fuoco in giornate fredde e cupe come quelle. Tutto gli sembrava strano ora che non c’era più il nonno o qualcun altro a cui badare. Al silenzio era abituato,  ma non era solito a quella calma, non lo era a svegliarsi dopo una notte intera di  sonno e con semplicità  andare a fare colazione.

Dopo colazione andò in bagno, si tolse l’accappatoio rimanendo con solo le braghe del pigiama. Da un cassetto prese un barattolino  in plastica verde, un pennello da barba ed un rasoio con il manico in argento e cesellature di madreperla. Una volta steso lo strato di schiuma da barba chiuse il barattolo riponendolo nel cassetto, sciacquò il pennello e mise via anche quello. Prese in fine il piccolo capolavoro, si guardò allo specchio per un istante ed infine iniziò a radersi come faceva regolarmente ogni due giorni. La lama scivolava liscia come scorresse su velluto tanto era affilata. Lui sentiva il rumore dei peli che venivano recisi senza fatica dalla formidabile. Era sempre dello stesso pallore funereo che ormai aveva da qualche tempo. Il suo sguardo scese sul riflesso del suo corpo: sempre più magro, emaciato; il volto scarno e scavato dalla stanchezza e dalla morte ridotto ad una maschera con una permanente espressione cupa, tetra, addirittura truce a volte. Aprì l’acqua della doccia e lasciò che diventasse calda mentre si spogliava completamente, poi riaprì le ante ed entrò lasciando che quel tepore lo avvolgesse.

 

L’impiegato era arrivato, l’aveva fatto accomodare nello studio offrendogli del brandy per intrattenerlo mentre andava a prendere le carte. Una volta tornato ebbe piacere nel vedere che il bicchiere era vuoto e che aveva già preso il testamento.  Tutto andò come si era aspettato: aveva ereditato il ducato e anche gli appezzamenti di terra di tutti gli altri parenti suoi.  Alla lettura era arrivato lo stesso direttore della  banca. Il giovane duca ed il figlio erano grandi amici da sempre.

“ Prima di congedarmi volevo chiederle se giovedì tra due settimane  verrete al matrimonio di mia figlia. Ovviamente l‘invito è valido anche per i vostri fratelli, se lo desiderano.”

“ Non mancherò dottore. Per i miei fratelli non so dare una risposta ora come ora, la informerò il prima possibile.”

Lo accompagnò alla porta e tornò in cucina a prendere le carte  che gli aveva lasciato il mastro banchiere. Le mise in una busta plastificata e poi nella cassaforte.

Rimase lì seduto ad ascoltare lo scoppiettio del fuoco nel camino mentre picchiettava sul tavolo con le dita ritmando il passare dei secondi fino a che non arrivò l’ora di cena. Quindi prese una fetta di pane e la consumò senza troppo impegno. Rimase lì un’altra ora o due prima di rincalzare il fuoco con del castagno, accese una lanterna e andò in camera dove iniziò a pensare ad un regalo per i due futuri sposi. Si ricordò in fine di avere dei calici in argento con un  piccolo diamante incastonato e pensò che quello sarebbe stato un bel dono da fare loro dato che il futuro marito aveva una vigna che produceva il migliore vino di quelle terre.  Decise che sarebbe andato a ritirarli la mattina seguente.

Rivolse un ultimo pensiero ai suoi fratelli e alle sue sorelle, chiedendosi se si sarebbero presentati a lui nuovamente o se avrebbero almeno risposto al corvo messaggero che stava mandando loro. Di sicuro il fatto che fosse stato nominato erede del titolo, scavalcando quindi l’ordine di nascita di Rego Aster e Samael, li avrebbe fatti andare su tutte le furie. Conoscendo il loro temperamento impulsivo sapeva che c’era una buona probabilità che si presentassero al castello. Sperando fortemente che ciò accadesse aprì la finestra e fece volare il corvo imperiale. Sapendo che la riuscita dei suoi intenti ora era tra gli artigli del suo messaggero.

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