Premio Racconti nella Rete 2016 “Insospettabile” di Margherita Peri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Toccava a Tom recuperare la palla. Toccava sempre a lui, il più piccolo della squadra, andarla a ripescare tra i bidoni della spazzatura dall’altra parte della strada, dove finiva immancabilmente quando un calcio troppo forte la scagliava oltre lo steccato del campetto della scuola.
Tom brontolava tra sé mentre camminava e trascinava i piedi sul selciato sollevando piccole nuvole di polvere. La giornata era afosa e l’odore pungente dei rifiuti giungeva alle sue narici più forte e nauseabondo del solito. Tom arricciò il naso. Scacciò con un movimento brusco della mano i moscerini e le mosche che volteggiavano sulla catasta maleodorante e si chinò per prendere la palla. La sollevò e subito la lasciò cadere, con un grido. Seminascosto tra i rifiuti, pallido e inerme, giaceva il cadavere di un uomo.
I suoi occhi si spalancarono nel buio. Gocce di sudore freddo gli imperlavano la fronte, il cuore palpitava nelle tempie. Tom si tirò a sedere sul letto, respirando profondamente per calmarsi. La stanza era avvolta nella penombra, e fuori il cielo era del colore plumbeo e perlaceo che precede l’alba. Tom scese dal letto e si vestì rapidamente, mentre un fiume di pensieri emergeva dalla nebbia confusa della sua mente assonnata. Pensò a quante volte aveva fatto quel sogno, a quante volte quel ricordo aveva terrorizzato le notti della sua infanzia. Viveva nascosto nella sua mente, emergeva all’improvviso, non lo lasciava mai. E Tom ne era ossessionato, terrorizzato.
Scosse la testa, come per scacciare queste riflessioni e andò davanti allo specchio. Squadrò per un attimo quel volto magro e scavato, le occhiaie profonde, i capelli scuri e spettinati, la barba ispida tagliata corta. Non si riconobbe. Sembrava quasi che i suoi pensieri avessero consumato il suo corpo tanto quanto avevano logorato la sua mente, e ora quella che vedeva era solo l’ombra dell’uomo che era stato. Come obbedendo ad un impulso improvviso, si allontanò dallo specchio e a passi risoluti si avviò verso la porta di casa, afferrò la giacca e uscì.
Una brezza gelida lo investì, insieme all’odore di terra bagnata. Camminando velocemente Tom imboccò la strada verso il suo ufficio. Ma cosa lo spingeva ad uscire a quell’ora così insolita? Negli ultimi tempi quel sogno si era fatto più frequente, lo assillava e non gli dava pace. Da anni ormai indagava su quell’omicidio, e più il tempo passava più questo lo tormentava, come se lo spronasse a scoprire la verità. Quel mattino Tom aveva deciso di porre fine al suo tormento, ben deciso a chiudere il caso che lo perseguitava dall’infanzia, dal giorno in cui la vista di quel cadavere aveva cambiato la sua vita.
Un quarto d’ora dopo essere uscito di casa, Tom si ritrovò davanti alla porta del suo ufficio, sulla quale una targa di ottone riportava scritto “Detective Thomas Reed”. Entrò, e senza togliersi la giacca, andò a sedersi alla sua scrivania. Aperto uno dei cassetti, frugò tra le cartelle e ne estrasse una piena di ritagli di giornale, appunti, relazioni. Cominciò a sfogliarla, leggendo tra sé:
“Rinvenuto cadavere del giovane Montgomery, diciassette anni, ucciso da un colpo di oggetto contundente sulla nuca. Il suo cadavere gettato tra i rifiuti. La polizia in cerca dell’assassino …”
Quelle carte rappresentavano anni di ricerche, anni passati a studiare minuziosamente tutti i possibili indizi che potessero rivelare una pista alla polizia. Tom era sempre più impaziente. Sollevò la cornetta del telefono e compose un numero. “Pronto?” rispose dall’altro capo una voce impastata dal sonno. “Mr. Dallas? Sono il detective Reed” disse Tom. “Sì, sono io … che succede? Sa che ore sono?” ribatté la voce. “Sì, sono le quattro e mezzo, e lei dovrà trovarsi in ufficio tra quindici minuti!” replicò Tom, e senza dare all’altro la possibilità di protestare, riattaccò e tornò a dedicarsi alle sue carte.
Mezz’ora dopo, la porta dell’ufficio si aprì e comparve la faccia occhialuta dell’assistente di Tom, Robert Dallas, con un’aria trafelata e assonnata insieme. “E’ in ritardo” osservò seccamente il detective, senza alzare gli occhi dalla cartella. “Perché mi ha chiamato?” rispose quello sedendosi alla scrivania. “Riguardo al caso Montgomery” disse Tom. “Avrei dovuto immaginarlo” pensò Dallas amaramente e si pentì di non essere rimasto a casa. Il detective si occupava di quel caso da anni, e sembrava non pensare ad altro. Ci doveva essere qualcosa, pensava Dallas, che lo interessava direttamente in quella faccenda, per assorbirlo a quel modo. Certo, era un individuo ben strano, quel Reed. Quell’uomo così dedito al suo lavoro, ma dall’aspetto così inquieto e stravolto, come se qualcosa lo tormentasse. A volte il suo volto si contraeva e i suoi occhi, scuri e riflessivi, erano attraversati da lampi di tristezza, o addirittura di puro ed inspiegabile terrore.
Lo squillo del telefono sulla sua scrivania interruppe queste riflessioni. “Pronto?” disse Dallas alzando il ricevitore. Ascoltò in silenzio per qualche minuto, poi disse rivolgendosi a Tom: “E’ il commissario … dice che l’hanno trovato, signore. Hanno trovato l’assassino.”
Mezz’ora dopo, Tom e il suo assistente camminavano nei corridoi del commissariato, verso la stanza degli interrogatori. Entrarono. Il commissario li fece accomodare.
“ Si chiama Jack Hastings” disse indicando l’ uomo seduto al tavolo “ha trentotto anni, è stato in cura fino a poco tempo fa in un ospedale psichiatrico, dove era stato mandato in seguito a manifestazioni di rabbia violenta, schizofrenia e sdoppiamento di personalità. Stamattina si è presentato al distretto di polizia e si è dichiarato colpevole dell’omicidio di Montgomery. Mi dica, signor Hastings, lei conosceva bene la vittima?”
L’uomo, dapprima con titubanza, poi parlando sempre più in fretta, cominciò la sua confessione. “Sì… sì, lo conoscevo… eravamo compagni di stanza nell’ospedale psichiatrico. Mike era rimasto orfano di padre e aveva ereditato una somma cospicua di denaro, ma dopo aver sperperato tutti i suoi averi nel gioco d’azzardo era letteralmente impazzito. Finì in cura all’ospedale dopo un tentato suicidio.”
“E quali furono i motivi che la spinsero ad uccidere Montgomery, la sera del 7 ottobre di diciotto anni fa?” chiese il commissario.
L’uomo si agitò sulla sedia. “ Vede, commissario … né io né Mike tolleravamo di vivere chiusi in quel posto. Così decidemmo di evadere. Lavorammo su quel piano per settimane, pianificando ogni minimo dettaglio. La sera del 7 ottobre decidemmo di scappare. Filò tutto liscio, fino a quando …” Qui l’uomo si bloccò, incapace di continuare. Tom lo fissava in silenzio, ma il suo viso era pallidissimo.
“… fino a quando scavalcammo il muro del cortile” riprese Hastings parlando a fatica “allora Mike, che non era mai stato coraggioso, non volle più proseguire. Rimase lì, fuori dal cancello della clinica, dicendo che non voleva andarsene, che non sapeva dove scappare. Iniziò ad agitarsi e a gridare. Io ebbi paura che ci scoprissero, cercai di calmarlo, ma invano. Continuava a urlare, cercò di tornare indietro. Fu a quel punto, credo, che mi colse una delle mie crisi. Non avrei permesso che quell’uomo rovinasse la mia fuga. Così raccolsi un sasso da terra e… lo scagliai con violenza contro la sua testa… solo quando cadde bocconi ai miei piedi mi resi conto di ciò che avevo fatto.”
“ Mr. Reed, si sente bene?” il commissario interruppe il racconto rivolgendosi verso il detective, che aveva la faccia di chi sta per svenire.
“Sì … sì sto bene” riuscì ad articolare Tom, cercando di contenere il fiume di ricordi che quel racconto stava evocando. Quel viso… Hastings… l’aveva visto, quel giorno, mentre…
“… trascinai il suo corpo nel vicolo più vicino” proseguì l’accusato “e lo gettai in mezzo alla spazzatura, dove pensavo che nessuno l’avrebbe trovato. Poi iniziai correre, sentivo passi che mi seguivano, e io correvo …”
… senza voltarmi, oltrepassando il cortile della scuola, con l’immagine di quel cadavere impressa nella mia mente, io, Tom Reed, scappavo tra i vicoli polverosi, con le mani sporche di terra e il cuore che scoppiava nel petto, pazzo di paura …
“Basta! Signor commissario, lo faccia smettere!” proruppe Tom, alzandosi di scatto. i suoi occhi lampeggiavano, folli.
“ Sono stato io, signor commissario, io ho ucciso Mike Montgomery!”
Nella stanza calò il silenzio. Poi, parlando lentamente, il commissario replicò: “Lo sappiamo, Mr. Reed. Questa messinscena serviva a farglielo confessare. La dichiaro in arresto per l’omicidio di Mike Montgomery.”
“Non si ricorda di me, signor Reed?” Jack Hastings lo fissava dritto negli occhi.
Tom lo guardò e la sua mente tornò a quella notte di ottobre di diciotto anni prima, quando nel buio di quel vicolo, con le mani ancora sporche di sangue, fuori dal muro del manicomio da cui era appena evaso, aveva visto quel viso di bambino che lo fissava con occhi pieni di terrore. Tom era fuggito da quello sguardo e da quel luogo, e da allora non aveva mai smesso di scappare. Aveva soffocato quel ricordo, la sua mente folle l’aveva stravolto e trasformato fino a convincerlo che tutto fosse andato diversamente. E ora quell’unico testimone era riapparso, dopo anni, a riportare a galla la realtà, per rivelare con quella messinscena chi era veramente, un pazzo schizofrenico assassino.
Un giallo, finalmente! Devo dire che il genere è dei più difficili. Ideare una storia che si ribalta del tutto nel finale lo è ancora di più. Io sono un appassionato del giallo e, per un occhio attento, la trama scricchiola in un paio di punti e il finale mi è sembrato un po’ affrettato. Comunque hai le capacità e la padronanza di linguaggio per ottenere ottimi risultati. Ti ringrazio per la tua storia. Sono desideroso di leggerne altre.
Probabilmente il fatto di dover scrivere un racconto breve ha un po’ penalizzato la tua storia, che purtroppo non riesce ad esprimersi al meglio.
Ma, siccome mi è piaciuta molto, vuol dire che comunque l’obiettivo è stato raggiunto. Complimenti.