Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “Una seconda opportunità” di Matteo Porrati

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Quando ho dovuto prendere una pausa forzata dal lavoro, ho sofferto moltissimo.

Ero caduta dalle scale che portano al decimo piano del palazzo in cui, da un paio d’anni, il mio ufficio ha la sua attuale sede legale.

In quel periodo il responsabile di reparto, il signor De Robertis, faceva di tutto per sminuirmi.

Seguivo alla lettera ogni sua indicazione ma, nonostante gli sforzi fatti, quel che facevo, sembrava davvero non bastare mai.

– Ce l’hai un cervello Giulia? -, questa era la sua frase ricorrente.

Dentro, mi sentivo morire e per darmi forza ripetevo a me stessa: «E’ normale, in ogni azienda si è vessati dal proprio capo,no?»

No, non è normale. Però è quello che mi avevano sempre fatto credere, ed è quello a cui, col tempo, mi ero abituata a pensare.

Ricordo che un attimo prima di cadere lungo la rampa delle scale e rompermi il femore, avevo sentito una forte spinta alla schiena che mi aveva proiettata nel vuoto.

Nel lungo salto, per un istante, riuscii a guardarmi alle spalle ma non vidi nulla.

A parte quella strana sensazione non ricordo altro, perché appena dopo l’impatto, avevo perso conoscenza fino all’arrivo in ospedale.

Dovete sapere che l’intervento alla gamba fu complesso (la frattura risultava scomposta in più punti) e doloroso, ma a essere onesta non quanto le successive, lunghe ed estenuanti sedute di riabilitazione.

Ad Alicia, la mia fisioterapista ispanica, non andavo a genio: quando mi ordinava di alzare la gamba o flettere il ginocchio per irrobustire i quadricipiti della coscia, con quei piccoli occhi da furetto mi gelava il sangue e così, obbedivo.

Quell’attitudine era così ostile da farmi desiderare il ritorno in ufficio: sottopormi remissiva alle ingiuste, ma conosciute, angherie del mio capo era indicibilmente meno frustrante che soccombere ad essi.

Odio essere ripresa, certo. Chi lo sopporta davvero? Ma quello era il mio mondo, capite, il mondo che conoscevo, ed era lì che volevo tornare: la sicurezza di ciò che si conosce è dolce anche nell’umiliazione, a volte, se paragonata all’ignoto.

Il terrore di perdere il lavoro a causa della malattia e di non riuscire più a provvedere ai miei bisogni economici, poi, mi avevano alienata al punto da rendermi insopportabilmente arida, tanto da non provare più tenerezza neppure davanti ai dolci occhi di un bambino.

Sarei stata disposta a lavorare gratis in quei giorni pur di rifuggire l’impotenza e la solitudine provate, tanto, che cercai di contattare più volte il medico mio di base per concordare assieme un rientro anticipato, ma senza esito.

Un pomeriggio, durante l’ultima settimana di convalescenza, dopo essermi svegliata da un pisolino, distratta, dalla portafinestra del soggiorno notai che la strada lì davanti era stranamente deserta.

«Com’è possibile?» dissi, «Qui sotto c’è sempre un traffico infernale!» Però era così. Non una persona, una macchina o una bicicletta: solo vecchie case e la lunga via alberata che da piazza della Repubblica porta a largo Seveso.

Improvviso, sentii un miagolio e, voltando il capo, vidi un micetto dal pelo fulvo che indeciso, sembrava volersi infilare tra dei maleodoranti cassonetti della spazzatura e, più in alto, proprio sopra di lui, alcuni passeri perfettamente disposti in linea retta su dei cavi elettrici.

Lo ricordo bene, erano le cinque di una tersa giornata d’agosto: il cielo tinto di un azzurro così brillante da poter essere scambiato per un quadro.

Fuori, in quel piccolo scorcio di mondo, l’estate sembrava imperversare carica di opportunità e promesse, eppure, dentro, sentivo freddo.

Come prigioniera di un involucro di argilla, mi crogiolavo assuefatta in una velenosa e melanconica sensazione d’impotenza: ogni mio tentativo di fuggire si dimostrò inutile.

Stanca di rimanere lì in piedi a fissare il nulla, stavo per allontanarmi, quando, un piccolo ometto di circa sessant’anni dal profilo a pera, (era stretto in alto, fino al torace, e poi si allargava come uno di quei palloncini colorati che si riempiono di farina per far giocare i bambini), che correva saltellando, entrò dirompente nel mio campo visivo.

Era intento a manovrare delle minuscole leve di legno collegate a due candide ali piumate: con quel suo buffo marchingegno fissato alla schiena, sembrava davvero potesse librarsi in aria e fondersi in un tutt’uno al cielo!

– Che ridicolo, – sbraitai isterica ad alta voce – non crederà davvero di riuscire a volare a quel modo? –

Però, nonostante ogni cellula del mio corpo provasse vivido disgusto davanti a tanta ingenuità, o demenza senile se si preferisce, ricordo che non riuscii a muovermi: non un millimetro di spostamento diede sollievo al mio corpo.

Dopo essere tornata padrona di me (dieci minuti dopo, credo), d’impulso aprii la portafinestra che dava sul balcone e aguzzando la vista mi accorsi di una cosa strana: quell’uomo portava ben saldo in testa un copricapo nero, uno di quelli “vintage” che usavano gli aviatori d’inizio secolo.

– Ah, ecco perché sta cercando di volare! – mi scoprii pronunciare stupefatta.

Era rapito, assorto da quel saltellio ritmico, avanti e indietro, tanto serrato da sembrar essere la sola cosa al mondo che gli importava davvero.

Si sforzava con tutto sé stesso. Balzava sempre più in alto, un saltello dopo l’altro, e in quel correre trafelato, passando ripetutamente davanti all’animale, regalava lui un sorriso sincero. Era un trambusto indicibile eppure, nonostante quel baccano, l’odioso batuffolo di pelo rimaneva a fissarlo incredulo esattamente come facevo io.

Dopo venti minuti lì ferma immobile, mi stancai di guardarlo. Stavo per andare via (non avrebbe mai volato, quindi cosa rimanevo alla finestra a fare?) quando, prima di voltarmi, vidi che era tornato serio.

Quell’atto del tutto naturale in un’altra occasione, mi scosse, profondamente, e a forza, contro ogni volontà, mi costrinsi a rimanere.

– Ma…sì, – dissi a un certo punto – era ora! –

E intanto protendeva il capo scuotendolo in sincronici movimenti ondulatori come un grosso piccione, fino a quando, quel suo sorriso tanto ampio da sembrare magico, riapparse sornione.

Furente di rabbia, desiderai la sua morte.

Un istante dopo lo vidi barcollare, fin quando si fermò del tutto.

– Hai visto? – proruppi fiera – Pensavi davvero di prendere il volo a quel modo, stupido vecchio? –

Nel pronunciare quelle parole avvertii un acuto dolore, tanto forte da uccidere per sempre una piccola e profonda parte di me e comunque non vi rinunciai, pronunciandole con rabbia una seconda, poi una terza volta, come sfida a chissà quale Dio.

Noncurante, il vecchietto riprese a correre per poi finalmente cadere a terra lungo e disteso. A fatica e pieno d’affanno, sì rimise in piedi e fu allora che notai che una delle bianche ali che aveva sulla schiena si era spezzata proprio poco sopra l’attaccatura.

Sembrava che la caduta l’avesse spento per sempre, e invece, una volta tornato sulle proprie gambe, quel vecchio pazzo riprese a correre, più velocemente di prima, vibrando in aria entrambe le ali più forte che poteva.

– Ma possibile che non si renda conto che non volerà mai a quel modo? – dissi arrabbiata al cielo ora più con me stessa che con Dio.

E in quel momento, i passeri sul cavo elettrico raddoppiarono.

All’inizio non vi diedi peso: quando si è intenti a disprezzare i sogni degli altri, non si ha tempo di innaffiare i propri.

Ricordo che cominciai a desiderare che quello stupido vecchio capitolasse e a terra ancora una volta e che magari, in quella caduta, si rompesse l’osso del collo oltre le ali.

E allora, i passeri si moltiplicarono per dieci.

Alla fine cadde davvero.

Fu un istante: si rimise in piedi ancora una volta facendo leva su un ginocchio malridotto e riprese subito a correre, saltellando ostinato esattamente come prima.

Ero furiosa, bruciavo di rabbia a quel punto – Hai visto cosa succede a fare il bambino e sperare nell’impossibile, eh? Ti muore il sorriso, vero? -, proruppi carica d’odio.

Fu in quel momento che il vecchietto si fermò di scatto.

– Finalmente… – esordii soddisfatta dell’evidente sconfitta – era ora che ti svegliassi. –

Prima di provare a pieno la più crudele delle soddisfazioni per quel suo fallimento, i passeri presero a moltiplicarsi, ancora e ancora e poi ancora dieci, cento volte agglomerando una nera massa soffice e indistinta, intenta a fissarmi in un solo occhio ricolmo d’odio.

Ebbi paura.

Pulsavano all’unisono quei passeri, silenti e immobili come l’eternità. Sentivo quel loro gelatinoso occhio indagatore fin dentro le membra, in una sonda meccanica intenta a scavarmi dentro grattando avida le pareti del mio passato di bambina. E poi, come in un sogno (ma non lo era, ve l’assicuro), tutti assieme, spiccarono il volo in un corpo nero e il cielo si oscurò.

Il vecchietto riprese a sorridere: in quel momento il mio cuore esplose.

A un suo segnale, dopo una breve ascesa, quel mantello di morte fatto di piume inconsistenti, ridiscese rapido in un denso vortice viscoso e lo avvolsero per intero. Poi, tutti assieme, presero a pulsare ritmici sostenendone il volo al sole in una nube orribile. Prima però, con un cenno del capo, ordinò loro di fermarsi alla mia portafinestra. Come un diavolo, rimase lì fermo davanti ai miei occhi per un tempo indefinito. Un minuto, forse, che per me durò quasi un’eternità intera.

Era serio, il volto privo del più abbozzato dei sorrisi e dietro quel pozzo incolore, ci vidi la mia morte. Alle sue spalle il sole si oscurò del tutto e provai un freddo tanto intenso da spingermi a tremare come una foglia.

Rimase lì, a mezz’aria nel vuoto, sostenuto solo da quei piccoli psicopompi intento a fissarmi senza la più latente traccia di umanità.

Poi, senza un motivo apparente, quella lastra trasparente di nera disperazione che era diventato il suo volto si diluì, come un fondale di lago torbido e fangoso che, nella risalita, clemente, lascia spazio alle chiare acque di superficie.

I suoi tratti allora si sollevarono, prima lievemente, poi con beffarda sicurezza.

Sorrise, di nuovo, e il sole alle sue spalle pian piano tornò luminoso, dapprima leggero, poi pieno di luce sfolgorante.

Rimase lì sospeso ancora una frazione di secondo, poi scomparve.

Non permisi mai più a me stessa di oscurare i sogni altrui, altrimenti, ne sono certa, quel vecchietto sarebbe tornato e mi avrebbe portato via con sé. Per sempre.

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  1. Visionario

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