Premio Racconti nella Rete 2016 “A cavallo nel cielo” di Piera Giordano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Non avrei potuto immaginare una morte migliore per me. L’incontro con un cavallo. È stato il destino a regalarmelo. Il destino supera la fantasia. Non sempre. Talvolta sì.
I cavalli c’entrano con la mia esistenza. Anche se non so dire quando fu il primo momento in cui vidi un cavallo. Una volta alla radio un’esperta parlava di come si formava la memoria. Andò sul personale. Raccontò il suo primo ricordo: succhiava il latte dalla tetta di sua madre. Strabiliante!
Il mio primo ricordo invece è un cavallino di pezza. Era di tela ecru, con la coda e la criniera di fili di lana variopinta. Il muso a quadretti bianchi e rossi, le orecchie a fiorellini gialli e blu su sfondo azzurro. Le zampe di una stoffa a fantasia rosa. Fu un amore a prima vista, immortalato da una foto nel giorno del mio secondo compleanno. Nonostante fosse la fine di novembre, portavo i pantaloni corti, una maglietta scura. Avevo gli occhi spauriti. Tenevo il cavallino per la coda a penzoloni. Mi accompagnò in parecchi viaggi. La domenica quando si andava a pranzo dai nonni. D’estate quando si partiva per le vacanze che passavamo in un campeggio di Albenga. Poi sparì. Non solo gli uomini, anche le cose svanivano misteriosamente. Un giorno il cavallino non c’era più. “È finito in cielo”, mi disse la mamma. Così fu anche per il nonno, poco tempo dopo.
Il cavallo è un animale magnifico. Energia, vento, prateria, libertà, decisione. Il cavallo è un eroe. Anche se ci sono cavalli schiavizzati come quelli che vedi a Roma a fianco del Colosseo, costretti a trainare la carrozzella per il giro turistico di americani e giapponesi.
Il mio secondo cavallo fu a dondolo. Di peluche. Marrone. Le briglie rosse. Salivo in groppa, gli accarezzavo la criniera. E via… Quante battaglie tra cow-boy e apache. Poi l’album di figurine. Sulla copertina c’era l’immagine di Joey che, in sella, salutava con il braccio sinistro mentre teneva strette le briglie con la mano destra. Furia era maestoso. Il pelo luccicante. Le zampe anteriori impennate verso il cielo. Insieme, al galoppo, sostenemmo molti combattimenti contro Giuseppe che faceva i turni di notte e la signorina Giordanetti, insegnante di francese, che nel pomeriggio doveva correggere i compiti e preparare le lezioni. Noi bambini del condominio Ippocastano (si chiamava così per un ippocastano che era cresciuto in cortile) non potevamo andare a giocare di sotto. Facevamo troppo baccano. Giuseppe e la signorina Giordanetti avevano bisogno di silenzio.
La mia famiglia era modesta. I miei erano operai. Per loro era inconcepibile un figlio cavallerizzo. Però a sedici anni riuscii ad avere un cavallo vero. Non era proprio mio, ma del padrone del maneggio che stava fuori dal paese, a un quarto d’ora di bici. L’accordo era pulire i box, spalare lo sterco, strigliare i cavalli, pettinare la criniera, dare loro fieno e acqua. In cambio potevo cavalcare Cielo, il mio preferito. Aveva gli occhi saggi di chi sa come vanno le cose. Appoggiavo il viso sul suo muso. Sentivo il respiro caldo e le narici umide che palpitavano. Andavo in passeggiata con lui, al tramonto, nella luce rossa, attraversando i prati. Allora si allargava una pace immensa nel mio petto. Ero felice.
Nel frattempo mi diplomai. Perito industriale. Mentre cercavo lavoro, presi la patente D. Finii a fare l’autista di pullman. Fu un caso fortunato. Inviai la domanda d’assunzione proprio in un periodo in cui mancavano conducenti e la società stava ampliando il servizio. Accettai. Volevo lavorare. Sposarmi. Vivere con Elisabetta che amavo. Ero innamorato. Per sempre ci eravamo detti. Ero felice. Fare l’amore con lei era come attraversare la campagna con Cielo.
Il lavoro mi occupava tanto. E poi c’era Elisabetta. Così non potei più andare al maneggio. Alle quattro e mezzo del mattino guidavo già il pullman. Lo portavo da Castelnuovo Nigra, un paesino di mezza montagna, a Torino. Trasportavo i soliti pendolari, operai della Fiat. Quelli che come me facevano il primo turno. Mettevo in sottofondo i Pink Floyd. Immaginavo di cavalcare Cielo. Dietro, Elisabetta si stringeva a me. Diceva che ero rimasto ancora un po’ bambino. Per questo le piacevo. Le facevo tenerezza.
Ieri è stata una sorpresa. Ero sulla Pedemontana. Guidavo l’autobus. Sopra gli operai del turno del mattino. Ho visto arrivare un cavallo. Assomigliava a Cielo. Ho frenato di colpo, senza pensare. Il cavallo galoppava sicuro verso di me. Si è schiantato contro il pullman, sfondando il parabrezza. Ha aspettato che montassi in sella e siamo volati via. “Il solito bambino”, avrebbe detto Elisabetta. La corriera è sbandata ed è finita fuori strada, lungo una scarpata. Si è fermata in un campo di granturco. Alcuni operai sono rimasti feriti. Una cosa da niente.
Ho pensato alla frase di mia madre: “È andato in cielo”. Alla disperazione di Elisabetta. Tutto è diventato misteriosamente leggero. Le cose, gli animali, gli uomini svaniscono, ma poi ritornano trasformati. Ritornano… ho pensato
Un racconto magico, fantastico e surreale. Sei stata diretta e efficace anche se forse mi sarebbe piaciuto che la storia fosse un po’ più lunga e particolareggiata, se non altro per stare un po’ di più a contatto con il tuo protagonista che a me è piaciuto molto. Brava.
Grazie, Patrizia, sì, hai ragione avrei potuto ampliare la vicenda. Questo racconto è un flash, un po’ come la vita …
No, assolutamente non dovevi allungarlo ! come ‘Antologia di SPOON RIVER ‘ racconti in poche righe l’essenza della vita e della morte.Va bene così ! (Piaciuto molto ..)
Un racconto trascinante, narrato con un tono familiare e intimo che srotola l’immaginazione un po’ alla volta. Mi piace questa scelta che sa di poesia e spazi aperti.
Un grazie alle due Laure, amo la poesia e la sua essenzialità e le ricerco anche nel raccontare