Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “Imperfezioni” di Giulia Bonardi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

“Nella fase REM parlo, grido e penso al domani. Cosa devo fare?”

“Avverte spossatezza al risveglio?”

“A volte, appena apro gli occhi, provo un senso di occlusione alla gola. Altre di vuoto interno, come se ci fosse una voragine nel mio sterno. Ci sono giorni poi in cui mi alzo con la sensazione che qualcuno mi stia aspettando e io sia terribilmente in ritardo. Provo a focalizzare l’impegno ma non ricordo alcun volto, nessun nome. Allora tento di mettere ordine nelle cose della giornata, vorrei organizzarle in base alla priorità ma non riesco. Ho una grande confusione in testa, così bevo un sorso d’acqua e prendo fiato. Ci provo ancora, ma nulla. Schermo nero. Non ho risposte, faccio pensieri disarticolati. La mia ansia cresce vertiginosamente e vado nel panico. Provo a respirare lentamente, poi sento mia madre che urla dalla cucina, mi chiede se voglio un caffè. La sua voce spezza il delirio. A quel punto riemergo dal letto.”

“Questo le capita ogni mattina?”

“Sì dottore. Cosa devo fare?”

“Mi descriva la sua stanza. Forse il suo letto non è comodo o è mal orientato. Capita più spesso di quanto non si pensi, eppure il malessere ha una sua ragione precisa.”

“Lei crede? Non ci avevo pensato. Veramente non ho una camera. In casa ce ne sono, ma non ne ho una mia. Ho vissuto per anni a Firenze, lavoravo in una piccola industria di calzature; mi piaceva fare le scarpe, vederle cambiare sotto le mie mani. L’odore del cuoio e della colla era fortissimo, si mischiava a quello del gelsomino che cresceva incolto lungo i muri di recinzione. Era il regno delle formiche operose: così pensavo a me e ai miei compagni. Un giorno mi hanno licenziata – hanno detto che eravamo troppi – e sono ritornata.”

“Così non ha una camera. Dove dorme allora?”

“Con mia madre. Lo so è ridicolo. Il letto però è comodo, posso assicurarglielo.”

“Lei vive un momento traumatico di passaggio. Ha perduto la sua identità, così la cerca in ogni momento. Anche durante il sonno.”

“Può darsi, dottore. Dunque cosa devo fare?”

“Mi spiace, il tempo è scaduto. Continui con la pasticca di Amatrix appena sveglia e le trenta gocce di Nurovan quando sente l’angoscia. Se ci sono problemi chiami pure la mia segretaria; mi riferirà tutto, stia tranquilla. Ora vada. A lunedì.”

“Grazie, allora… arrivederci.”

 

Ho cominciato a scendere le scale di questo palazzo signorile del centro, lentamente. Quanto è cara la signora Olivia, la segretaria del dottore Sanguinanti, mi lascia sempre con un sorriso colmo di speranza.

“Signorina Delia sono ottanta euro. Venga l’accompagno alla porta.”

Poi mi saluta appoggiandomi una mano poco sotto la spalla sinistra, come ad indicarmi la via.

“Arrivederci Delia.”

Io la guardo un poco prima di lasciarla, le sorrido e mi avvio verso le scale. Che cara Olivia. Piano dopo piano provo la sensazione che il mondo lì fuori si sia dimenticato di me. Ho voglia di piangere ma mi trattengo. Che bello essere sorpresi dal sole delle 15:05 appena apro il portone pesante. Mi viene incontro come un amante a cui non posso sottrarmi e la terra mi sembra un posto più sopportabile in cui vivere.

 

“Delia, che fai lì impalata? Entra, benedetta figlia. Sembri uno stoccafisso! Sei andata dal medico? Che ti ha detto? Gli hai parlato di quell’impiastro che già chiami fidanzato? Come può una ragazza intelligente come te accompagnarsi a un tale smidollato! Cose del cielo! Mi hai sentito? Dove sei finita?”

 

Ho chiuso la porta dietro di me, sto bene nel salotto. In un angolo ho messo i miei romanzi preferiti, mi assomigliano così stropicciati. Alcuni si ribellano all’ordine che gli ho imposto, così ho dovuto metterli altrove. I libri fanno quello che vogliono, sono rivoluzionari! Ne scelgo uno e accendo una sigaretta. Il fumo delle 16:00 è il mio preferito: lo aspiro lentamente e il suo sapore mi invade il palato, si fa strada attraverso le viscere per raggiungere i polmoni; ne sento il cammino. Mi perdo per tre minuti. Tre minuti solo miei.

“Drin, drin”. Il telefono squilla sempre quando sto per varcare la soglia del tempo.

“Sono io, cosa fai?”

“Nulla amore, leggevo.”

“Cosa leggevi?”

“Un romanzo di Franzen.”

“E chi diavolo sarebbe? Uno stramboide come te?”, ride. “Quante volte devo dirti di dormire il pomeriggio, così quando ci vediamo non mi dici che hai mal di testa e sei stanca. Ma di cosa mi domando.”

“Ma io, be’ Ennio, amo leggere. In fabbrica si parlava tanto di libri… .”

“Amore! Che parola abusata. Le persone si amano. Tu devi amare me! E basta pensare a un passato di fallimenti! Piuttosto, a che ora passo?”

“Ennio, caro, ti avevo detto di Clara… la mia amica, te lo avevo detto, sì?”

“Sì, sì, ma chi è questa Clara? Che devi fare?”

“Ti avevo raccontato del nostro proposito di vederci per una passeggiata.”

“Senti, non ho alcuna voglia di aspettarti. Disdici! Tu e le tue stupide amiche. Ma questa chi è? Non mi hai risposto! Sei strana, fai pensieri segreti e mi tradirai, andrai a letto con qualcun altro! Non è vero? Dimmi, non è vero?”

“Ennio scusa, non volevo innervosirti. Le dico che usciremo un’altra volta. Eh? Promettimi che stai tranquillo, dai, ci vediamo alle 17:30 come sempre.”

Ha messo giù senza salutarmi, ma era arrabbiato. Lo capisco, quando si adira non può contenersi. È fatto così. È come il mare: ingoia le coste, porta via tutto con sé e non ha riguardi per il male che infligge. Ennio è sanguigno, ma è buono. Ha detto che mi vuole bene e gli credo. Io mi perdo dietro sciocche inquietudini e a tratti mi sento disperata, perduta, sbranata. Ecco sì, come se qualcuno si cibasse di me; ma cosa sta mangiando? Se solo lo capissi. Che stoltezze, le ennesime della mia testa tormentata. Trenta gocce di Nurovan e mi calmo.

 

“Pasquale, come stai?”

“Tiro a campare.”

“Che sciocco sei, non dire così. Oggi non sei uscito, ma ieri dove sei andato?”

“In giro. Delia, cosa vuoi?”

“Vorrei parlare con te, sei mio fratello, perché non chiacchieriamo un po’?”

“Non voglio parlare! Tu e mamma siete fastidiose. Volete controllare la mia vita.”

“Ma no, siamo preoccupate per te. Non hai un lavoro, non hai obiettivi. Temiamo per il tuo futuro.”

“Non mi interessa del domani, per me non conta nulla. Siamo parassiti che succhiano energia alla terra. E tu non sei migliore! Dove sei ora? Cosa fai per il tuo “futuro”?”

“Pasquale, caro,… provo a rimanere a galla.”

Ho richiuso la porta della stanza di mio fratello, c’è aria viziata dentro. Un misto di sudore e cancrena, una cappa di sogni infranti e lividi pesti. Non ho mai potuto attraversarlo con una sola delle mie parole d’affetto. Perdo sempre con lui.

Mi rifletto nello specchio del corridoio e non so in che luogo del mio corpo posso trovare riparo. Forse tra la clavicola e la scapola o tra l’astragalo e il calcagno? Sono tanta e innascondibile. Ho gli occhi di piombo, il Nurovan già mi prende.

 

“Finalmente, sono cinque minuti che ti aspetto!”

“Scusa Ennio, l’ascensore era bloccato.”

“Ancora bugie! Brava! Perché quella faccia? Che hai?”

“Nulla caro, sono un po’ stanca.”

“Stanca dici. Ora ti faccio riprendere io”. Ed è già su di lei.

“Ennio, non qui.”

“Maledizione! Ti porto dove possiamo stare tranquilli.”

Respiro lentamente, tengo a freno lo stomaco sobillatore. Cuocio come una pentola d’olio rovente e temo che prima o poi brucerò ogni essere intorno a me, senza pietà. Deglutisco, il Nurovan mi annebbia la vista.

“Ennio, dove andiamo?”

“Voglio guardare il mare con te. Non si può?”

“Certo. Ma queste bottiglie in macchina?”

“Scaldano l’ambiente! Non ti farò ubriacare… non ne è rimasto molto”, sogghigna istericamente, ha lo sguardo feroce.

“Ennio, non correre è pericoloso…”. La mia voce è diventata flebile per il farmaco.

“E smettila con il piagnisteo. Senti il rumore dei giri! Sei una lagna.”

“Vai piano, ti prego!”

“Piangi, piangi, tanto non ti sente nessuno. Sei una perdente! Ho pena per te, altrimenti non sprecherei il mio tempo.”

Le lacrime insistenti premono per rompere gli argini del mio controllo, scorrono e sembrano fiumi in piena, colme di ira antica. Conficco le mani nel sedile per sigillare il corpo alla spalliera che la velocità scuote e fa tremare. Ho paura. Vorrei urlare tanto forte da spaccare i vetri; in mille pezzi li farei brillare ma non riesco ad articolare le parole. Sono allacciata alla seggiola come una pianta. Non sono più una persona ma una cosa muta e inanimata, se Ennio mi stringesse mi romperei rivelando la mia natura di frammenti mal tenuti insieme.

“Scendi!”, ringhia, “scendi, immediatamente!”

Sono paralizzata, non lo ho mai visto così agitato e violento. È già presso il mio sportello, lo apre, mi trascina in strada. I pochi passanti ci guardano, ma con gli occhi vuoti degli indifferenti.

Cado, il Nurovan mi atrofizza le gambe, nel crollo mi strappo le calze. Non riesco a divincolarmi nonostante ci provi disperatamente. Mi manca il fiato per farmi sentire, ripeto ipnoticamente “Ennio, Ennio, Ennio.”

La spiaggia violacea del tardo pomeriggio è umida, mi si insinua nelle scarpe, si strofina sulla pelle e sporca i collant lacerati. Cado ancora, Ennio incombe col suo corpo su di me, mi taglia il respiro. Mi contorco, ma mi tiene stretta per i polsi. Sono immobilizzata.

“Ferma, non puoi scappare, non hai dove andare. Sei mia!”

Mi bacia con l’avidità degli assassini, mi viola con le parole, con il corpo. Sono un fantoccio di carne da riempire di dolore. I miei occhi non rispondono, non si muovono le palpebre, guardo fisso in cielo dove le nubi arancioni e blu striano l’immenso. Forse morirò. Ho freddo.

 

L’incubo è durato un tempo indefinito; lui è andato via ma non so da quanto. Si è smaterializzato nell’aria della sera. L’acqua di ghiaccio mi sfiora un piede, sembra che mille spilli mi attraversino. Mi inchiodano alla realtà. Cosa faccio? Dire addio su questa sabbia, arrendersi alla morte? Mollare sarebbe un dono, mi salverebbe da questo abisso. Ho le mani contratte e sporche di terra, non riesco a stendere le dita livide. Ho male ovunque, ho le braccia graffiate e le ferite bruciano. Soffoco di rabbia. “Imperfezioni imperfezioni imperfezioni. Spaccature dell’anima, varchi aperti verso l’interno dell’essere. Cosa sono diventata? Devo alzarmi”, mi dico e la mia voce è un sussurro. Il mare scintilla alla luce della luna. Qualcuno dall’ombra viene verso di me: “signorina, sta bene? Cosa le è successo?”

“La prego, mi porti in ospedale.”

“Certo, venga. Andrà tutto bene.”

 

Sguardi buoni, parole gentili, questo cercavo nel mondo. Tenerezze, docili rifugi, parentesi di miele nel mezzo di un vivere in armi. Sono grata che qualcuno nel buio si sia accorto di me. Chiudo gli occhi mentre il Nurovan allenta la sua presa maledetta, sono esausta. La macchina di questo sconosciuto è il posto più sicuro in cui mi trovo dopo tanto tempo. Ora devo ritrovare le forze. Nel fondo nero in cui sono, nessuno può toccarmi.

 

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8 commenti »

  1. uno spiraglio di luce in fondo a un tunnel di grigiore quotidiano. Bello e maledettamente attuale.

  2. Sei riuscita a farmi fare un tuffo nella mente distorta della tua protagonista, a farmi percepire il mondo nella sua solitudine dolorosa e paranoica. Grazie per l’inaspettato viaggio… Complimenti.

  3. Molto intenso, vivido, emozionante. Brava

  4. Grazie Costantino e grazie Patrizia, fa sempre piacere quando si riesce a portare via il lettore dal suo qui e ora. Grazie davvero di averlo apprezzato.

  5. Grazie davvero Laura…

  6. Veramente ben scritto e molto intenso in più punti, traspira un forte senso di solitudine e abbandono il tuo bel racconto, ma è un bellissimo viaggio ricco di emozioni. Molto brava.

  7. Una storia dura, intensa, ma piena di speranza. Per fortuna c’è sempre qualcuno che ci trova pure in mezzo al buio. Speriamo capiti anche al tuo racconto, lo merita. Complimenti.

  8. Grazie Demian e grazie Roberto, era ciò che volevo raccontare, la perdita dell’io quando veniamo tagliati fuori dall’impegno sociale. Ho scelto una prospettiva imprevista, quella di una donna giovane che vive in un contesto degradante, inumano, da cui non riesce a difendersi. L’epilogo è tragico e le circostanze che lo preparano sono parte stessa di quel degrado. Pasolini diceva che “la condizione sociale si riconosce nella carne di un individuo. Perché egli è stato plasmato dall’educazione appunto fisica della materia di cui è fatto il suo mondo”. E tuttavia in fondo a questo buio, qualche volta, c’è anche la luce…

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