Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “Tempera rossa” di Lara Rossetti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Alberto spinge gli anelli di cipolla nella padella.
La mano scivola su quel corpo di latte. No, non deve distrarsi. Si concentra sul profumo intenso dei fili bianchi che si tingono di sfumature dorate. Solleva il tagliere di legno e lascia cadere le verdure a pezzetti. Il peperone sprigiona il suo profumo nell’aria.
I suoi seni rotondi e perfetti. Basta. Dovrà solo dipingere, guardarla e dipingere. Prende un calice dal mobile di legno scuro. Passa la mano sulla superficie liscia e irregolare, una sensazione intima lo rassicura. Era di sua nonna. Posa il bicchiere sul tavolo e versa un dito di vino rosso. Fa roteare la mano e ne assaggia il profumo. Il suo corpo si muove su quello di lei. No, non può. Dovrà solo dipingere, guardarla e dipingere.
Abbassa il gas sotto la padella. Attraversa la cucina ed entra nella stanza accanto. Si ferma di fronte alla tela montata sul cavalletto. Il disegno a matita è perfetto, leggero, sinuoso. Gli occhi sono chiusi, glielo ha chiesto lui. Un fremito lo percorre. Cerca la tavolozza e raccoglie i tubetti di tempera sparsi per terra. Ne apre uno e spreme contro il suo dito il contenuto: è giallo. Poi lo fa con il rosso. Rimane un attimo a guardarli, poi li mischia. Strie sottili di rosso e di giallo spiccano su un fondo arancione.
Questa sera verrà. Guarda la coperta stesa per terra. E sarà lì, nuda. Respira. E’ la ragazza di Guna, il suo amico, il suo maestro. Chiude gli occhi e schiaccia con forza il tubetto che ha ancora in mano. Solo nei colori, sulla tela, dovrà lasciare esplodere il suo desiderio.

– Cosa fai fuori dalla porta, piccolo? – aveva chiesto Guna il giorno in cui l’aveva conosciuto a Madrid.
– La mamma dorme e dentro c’è troppa puzza. – aveva risposto lui.
– Puzza? – aveva domandato Guna. Poi doveva essersi accorto che la porta era socchiusa e l’aveva spinta un po’. Insieme guardarono dentro. La madre di Alberto era distesa sul pavimento, con la faccia appoggiata su una chiazza di vomito. L’odore nauseabondo e alcolico era insopportabile. Guna aprì una finestra, poi toccò un piede del corpo di lei con il suo. La donna emise un gemito e si mosse.
– Vieni con me. – disse lui. Prese Alberto per mano e insieme entrarono nella porta di fronte. L’aria era pulita e sapeva di vaniglia e cannella. Anche quel salone non era in ordine. Una decina di cavalletti di legno sostenevano tele di diverse dimensioni, alcune colorate, altre percorse solo da fili di carboncino. Pennelli di ogni diametro spuntavano come grissini da bicchieri d’acqua torbida appoggiati su ogni ripiano libero. Per terra, al centro della stanza, ai piedi dell’unica poltrona, un mucchio di tubetti colorati.
– Siediti. Dovrei avere qualche biscotto. – disse Guna chiudendo la porta alle loro spalle. Frugò in un barattolo di latta appoggiato sul piano cottura.
– Ecco qua! Cioccolato o miele? – Porse ad Alberto una pasta tonda e panciuta e un’altra marrone con il buco in mezzo. Lui prese quella con il buco: – grazie. – disse. Si sedette per terra.
– Niente. – rispose Guna, sgranocchiando l’altro dolce. – Da oggi puoi venire qui quando vuoi. Bussa tre volte di fila, così… – Picchiettò le nocche su un cavalletto. – E io ti faccio entrare.
– E adesso cosa fai? – chiese Alberto.
– Adesso la coloro. – rispose lui, indicando la tela di fronte a loro percorsa da una ragnatela di fili neri. Raccolse da terra la tavolozza, la appoggiò su un braccio e iniziò a mischiare i colori. Intinse un pennello in un blu brillante e denso: – vuoi provare? – chiese. Lui prese in mano ciò che Guna gli stava porgendo e appoggiò la punta sul bianco.
– Adesso tira e lasciati guidare dalla tempera. –
Alberto obbedì. Una striscia colorata iniziò a rincorrere il pennello. Non avrebbe mai più saputo fare a meno di quella sensazione di morbida danza che componeva infiniti balletti.

Le verdure sono cotte. Alberto rovescia ancora le uova e chiude la padella con un coperchio.
Prende un vecchio disco dei Leño e lo appoggia sul giradischi. Quando la testina sfiora il vinile la musica riempie il silenzio.
La Tortilla è pronta, rovescia altro vino nel calice e si siede al tavolo.

– Stasera vado al concerto dei Leño. – Aveva studiato tanto quale potesse essere il momento migliore per dirlo a lei. Aveva scelto il ritorno dal mercato, mentre, carichi di borse, salivano i quattro piani della vecchia casa di Madrid. La nonna non disse niente fino a quando non posò le borse davanti alla porta.
– Al Carolina Club? – chiese, prendendo dalla tasca le chiavi di casa. Lo colse alla sprovvista.
– Come fai a saperlo?
– L’ho sentito alla radio e il tuo disco è consumato.
– Allora posso andare?
– Con chi vai, Albe?
– Da solo.
– Albe, perché non ti fai qualche amico? E’ bello condividere queste cose, sai? –
Entrarono in casa.
– Guna non può.
– Guna, Guna, Guna! Lui è più grande di te, vai da lui tutti i giorni. Non puoi stare solo con Guna. I tuoi compagni di scuola?
– Sono stupidi.
– Albe, non si dice così. Possibile? Tutti?
– Mi prendono in giro.
– Perché, tesoro? – La nonna spalancò la porta finestra. Il sole abbagliò la cucina. Alberto uscì sul balcone.
– Perché la mamma è una spugna e chissà dov’è, perché si è fatta scopare da un papà che neanche ricorda e perché ho i capelli così ricci che mi fanno schifo! –
La nonna smise di mettere a bagno i pomodori: – Albe! – Lo raggiunse. Lui aveva appoggiato le braccia e la testa sulla ringhiera e piangeva. Lei gli mise una mano tra i capelli: – tesoro, non è colpa tua come sono stati i tuoi genitori. I tuoi amici sono stupidi, hai ragione. Ma noi dobbiamo trovare una soluzione, vieni qui. –
Alberto tirò su la testa e corse in casa. Prese lo zaino dove teneva i pennelli che Guna gli regalava quando non li usava più e scappò giù per le scale.

Beve un sorso di rosso e pensa a quante volte sarebbe ancora scappato di fronte a soluzioni da trovare e a donne che lo avrebbero voluto amare.

La luce gialla dell’insegna del Carolina Club in fondo alla via gli alleggerì il cuore. Tirò fuori dalla tasca il biglietto stropicciato e controllò l’orario, era in anticipo. Scelse un vicolo buio e si slacciò la cerniera dei pantaloni. Urinò contro il muro della casa. Quando sbucò di nuovo sulla strada del locale una mano si poggiò sulla sua spalla. Trasalì.
– Albe, non bere una goccia in quel posto! – La faccia della nonna era seria e il suo abbigliamento fuori luogo nella via di quel club di musica popolare.
– Nonna? –
La sua severità divenne sorriso: – e divertiti. – Se ne andò prima che lui potesse rispondere.

Il disco suona Maneras de vivir. Alberto sa che è l’ultima canzone. Appoggia il piatto e le posate nel lavandino. Guarda l’ora: le otto e venti. L’appuntamento è alle nove. Ha ancora tempo per una doccia.

Si lega l’asciugamano intorno alla vita e si guarda allo specchio. I riccioli bagnati gli incorniciano il viso. E’ ancora attraente. Chissà se una donna avrebbe potuto diventare sua moglie, chissà se avrebbe potuto amarlo per sempre. Si siede sul divano e chiude gli occhi.
Il suono del campanello al piano fa vibrare il silenzio. E’ già su!
– Un attimo… – Controlla l’asciugamano: è al suo posto. Decide di aprire, si vestirà dopo. In fondo lei starà tutta nuda. Gira la chiave e apre la porta. Cecilia indossa un abito azzurro chiaro chiuso davanti da un solo bottone. Le parti nascoste rischiano di svelarsi a ogni respiro. Sembra non volere che questo accada e con una mano sul seno tira la stoffa. Entra decisa e chiude la porta.
– Ciao. – La mano abbandona il vestito e scioglie con abilità il nodo che avvolge la vita di lui.
– Ciao. – risponde Alberto. Gli manca il respiro. Capisce che la volontà di resisterle sarà un oggetto troppo fragile tra le possenti mani di quella tremenda tentazione. Infila la mano sotto la veste di finta pudicizia e si preme addosso il calore di lei. Cecilia affonda la lama tra le sue scapole. Un urlo gli si spezza in gola con un rantolo lungo.

Alberto sbarra gli occhi. Ha il respiro corto e i muscoli tesi. Con una mano si tiene la schiena. E’ seduto sul divano. Guarda l’orologio: le nove e dieci. Merda, dormivo! Suonano di nuovo. Si alza e corre verso la porta. Appoggia una mano sul muro e guarda attraverso lo spioncino.
– Albe, ci sei? – lo chiama Cecilia. Sta fumando una sigaretta sottile. Con l’altra mano tiene chiuso sul seno un abito azzurro chiaro.

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3 commenti »

  1. Cattura l’attenzione e si fa leggere tutto d’un fiato. Bello.

  2. vero che cattura l’attenzione, ma poi ti aspetti di più….sembra l’incipit di un romanzo!!

  3. Eh…che dirti Laura? Hai ragione! Mi sono appassionata al personaggio che volevo tratteggiare e ho trascurato un po’ la trama del racconto. È vero che sembra l’incipit di un romanzo…ora non mi resta che scriverlo ;). Scherzi a parte grazie del commento, lo condivido.

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