Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “Domus” di Sara Vallefuoco

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Nel 1957, durante i lavori di costruzione della strada litoranea tra Terracina e Gaeta, venne alla luce un’intera villa romana appartenuta all’imperatore Tiberio, che la usò fino a quando, atterrito da una frana che per poco non lo ammazzò, gli preferì una nuova dimora sull’isola di Capri. La villa di Tiberio è una serie mirabile di diversi edifici e ambienti affacciati verso il mare, pensati intorno a un cortile porticato. Tra questi, anche un impianto termale, una fornace e un forno per cuocere il pane. C’è un posto nella zona da cui si può ammirare la villa di Tiberio nella sua interezza. E’ a sua volta un’altra villa, moderna, costruita da un imprenditore dell’hinterland romano, poi svenduta dopo il fallimento della sua impresa. E’ stato Tommaso a portarmi lì la prima volta, davanti al cancello di quella che era stata la villa di suo padre. La vista era da mozzare il fiato. Ogni ambiente della villa romana si offriva chiaro e distinto in tutta la sua razionalità e abilità di progettazione. Sembrava un modello di perfezione cui era stato tolto il tetto per consentire una visione migliore. Di fatto, un meraviglioso relitto. Ricordo che pensai proprio questo. Togliere un tetto a una casa è renderla inadatta alla vita.

– Non vedi come si è ridotto tuo padre? E’ incredibile come si possa diventare. Era un così bel ragazzo, mi disse la zia dopo un lungo silenzio.

– Farà settant’anni a ottobre, zia Dolores. Non mi sembra se li porti così male, risposi divertita.

– No, non se li porta male. Passa solo intere giornate a invecchiare, ecco tutto.

Da quando zia Dolores aveva iniziato la sua vita singolare (come diceva lei, e come avevamo finito per dire tutti), non si poteva lasciarla per troppo tempo da sola, perciò mi ero offerta di tenerle compagnia nel dopopranzo per far riposare i miei genitori.

Per essere l’inizio di aprile, era piuttosto caldo. Avevo sommato qualche giorno di permesso dal lavoro ed ero tornata nella casa di famiglia, una vecchia casa colonica tra Gaeta e Sperlonga a un solo piano, con un cortile ampio, un pozzo, due costruzioni minori dove mio nonno ricoverava attrezzi e animali, e un forno in muratura per cuocere pane e focacce. Allora vivevo centocinquanta chilometri più a nord, disegnavo oggetti di design per una ditta laziale, ed ero il tipo di ragazza che riteneva le rose galleggianti imprescindibili in un matrimonio. Ero partita per il paese con l’idea di pianificare il mio banchetto di nozze, perciò non mi pesava affatto trascorrere un paio d’ore con zia Dolores sotto il grande tiglio di casa. Avevo tutto il tempo che volevo per pensare alla distribuzione dei tavoli, ricoperti con tovaglie avorio ricamate nello stile locale, attualizzato dal colore tono su tono. Al centro di ogni tavolo, ciotole colme d’acqua con dentro delicate rose bianche galleggianti. Tuttavia, nel momento in cui mia zia aveva cominciato a criticare la vecchiaia di mio padre, molte delle certezze cui mi ero aggrappata si erano già incrinate. Sono gli scherzi della memoria adulta, che si ostina a trasfigurare i luoghi dell’infanzia continuando a guardarli con gli occhi di un bambino. Il cortile che mi ero immaginata punteggiato di nuvole avorio era molto più piccolo, insufficiente, e irregolare, e rustico. La ghiaia lasciava intravedere il terreno polveroso in molti punti, e le radici degli alberi più alti creavano curiosi intrecci su cui qualsiasi tavolo, perfino il nostro tavolino da caffè, avrebbe traballato.

– Cos’è questa palla di vetro che tua madre ha messo sul tavolino?

– Un portacandele, zia. Mamma si allena per quando arriveranno gli ospiti. Questa sera ci metterà dentro una candelina e vedremo che luce farà.

– Perché? Prevede che morirà qualcuno?

Avevamo sempre riso di tutto, io e la zia. Quando mia madre ci aveva raccontato di voler aprire un bed and breakfast dopo il mio matrimonio rimettendo a nuovo la vecchia stalla, zia Dolores aveva commentato che le sembrava un ottimo affare. C’è molta gente che quando va in vacanza non sa dove lasciare gli animali.

– La zia Dolores non è più lei da molto tempo, ci teneva a spiegarmi mia madre pressoché ogni giorno. – Non credere a una parola di quello che ti dice.

– Leda cara, tua sorella dice stranezze da quando è nata. Ma è solo perché ha sempre visto più in là di tutti. E forse avremmo fatto bene ad ascoltarla di tanto in tanto, ribatteva mio padre.

Negli anni passati zia Dolores tornava spesso dai miei a dare il suo parere non richiesto. Era lei, o meglio le sue idee, la principale causa di frizione tra mia madre e mio padre, dato che il marito, a quanto io mi ricordi, finiva sempre per dare torto alla moglie. Negli ultimi anni le sue visite erano diventate sempre più rare.

– Ti piace stare qui, zia Dolores? Voglio dire: ti manca un po’ la tua casa di Roma?

– Roma è dietro l’angolo. E poi tanto ci torno domani.

– Domani no, zia. Domani non puoi. Domani arriva Tommaso. Lo devi conoscere.

Tommaso e io ci saremmo dovuti sposare il 10 di luglio. Era stata di sua madre, l’idea di organizzare il matrimonio qui, alle pendici dei Monti Aurunci. Sua madre adora questa costa. Sperlonga soprattutto, e la sua villa affacciata sull’altra, mirabile villa di Tiberio. Era qui che trascorreva le vacanze estive con suo marito e i bambini quando la fabbrica di infissi prosperava e ogni famiglia dei dintorni contava almeno un membro che ci lavorava come operaio o dipendente. Poi, negli ultimi anni, il fallimento. Il papà di Tommaso non resse a tanto. Lo trovarono impiccato a una corda in uno dei suoi capannoni di Frascati. Conobbi Tommaso proprio in quei giorni terribili. Non mi vanto particolarmente di essermi voluta infilare nella sofferenza altrui. Gli lasciai un biglietto di condoglianze nella buca delle lettere. Quando venne a ringraziarmi di persona gli offrii un caffè e i miei migliori sorrisi.

– Ma davvero gli hai aperto in pigiama!

Zia Dolores adorava ascoltare quella scena. A volte avevo la sensazione che dimenticasse a bella posta le cose del passato per il gusto di sentirsi raccontare tutto daccapo, per bere di nuovo alle sorgenti della gioventù. Mentre le descrivevo per l’ennesima volta il mio primo incontro con Tommaso, nella sua testa c’era forse un altro caffè, un altro pigiama, altre parole, altri sorrisi che le premeva rievocare. Degli amori giovanili di zia Dolores sapevo poco. Mia madre filtrava sempre i suoi racconti, una cosa simile a quando da ragazzina mi metteva la mano sugli occhi davanti ai ragazzi che si baciavano in piazzetta. Era come se l’amore altrui fosse una malattia grave che avrebbe potuto contagiarmi, data la mia povertà di difese immunitarie.

– Questa palla di vetro non piace nemmeno a me, zia. Piuttosto, dei piccoli porta lampada di carta colorata. Lo diremo alla mamma. Magari di un verde mela, un tono delicato che richiami le foglie del tiglio.

– Un tiglio non è un melo. Ma del resto una stalla non è un albergo, mi rispose a scoppio ritardato zia Dolores. E poi si assopì.

 

Considerai che, se davvero mia madre aveva mai avuto la seria intenzione di affittare camere mettendo a nuovo le stalle, sarebbe stato il caso di farlo prima del matrimonio. Una struttura di mattoni appena smaltata e ripulita sarebbe stata di sicuro un fondale migliore che una serie di vecchie assi di legno scurito dal tempo, che fungevano da ricovero per qualsivoglia attrezzo mio padre era capace di reperire in giro. Avrei dovuto chiarire queste cose con lei, prima dell’arrivo di Tommaso. Quanto a mio padre, aveva rimediato negli ultimi mesi una quantità impressionante di sedie e tavolini pieghevoli, che giacevano accatastati appena dietro il muro di casa. Quel legno scadente più adatto a una trattoria che a un banchetto di nozze non sarebbe arrivato al 10 di luglio sotto il vento secco e il sole cocente, motivo per cui mio padre aveva coscienziosamente coperto il tutto con una cerata verde oliva. Affondai i miei pensieri in un respiro profondo, e in quel momento arrivò mio padre con il primo caffè del pomeriggio.

– Pensavo dormissi, Dolores. A tutti i modi, c’è caffè anche per te.

– Come si è fatto vecchio, Toni. Ogni giorno che passa, sempre più vecchio.

L’indomani arrivò Tommaso. Al mattino andammo in giro per la zona. Fu allora che mi portò in cima alla collina, davanti a un cancello imponente, che una volta era stato di un verde cupo ma brillante, e che ora mostrava vari cedimenti alla ruggine. Mi mostrò attraverso quelle sbarre la casa che era stata di suo padre e della sua famiglia, e mi promise che un giorno l’avrebbe riacquistata, per sua madre, per sua sorella, per tutti. Anche per me. Così disse. Non c’era gioia o esaltazione nelle sue parole. Piuttosto, pensai, una brama di espiazione. Quella villa era il tentativo di porre fine a un lungo rimorso. Di non esserci stato, di non essere stato attento abbastanza, forse. Tutti pensieri che trovavo perfettamente normali per chi aveva subito una perdita in un modo così doloroso.

Tornammo che era già ora di pranzo. Feci gli onori di casa. Tommaso mi fece notare cauto che nessun tavolo sarebbe potuto stare in equilibrio su quelle radici, e che le tovaglie color avorio di cui gli avevo parlato non si intonavano con il colore della casa rattoppato di un rosa ingrigito dal tempo. E la vecchia stalla? Dove avevo pensato di nasconderla? La sua espressione seria e fintamente divertita mi faceva credere che non aveva mai pensato potessero esistere case diverse da quella di suo padre e di Tiberio.

Mia madre trovò Tommaso bello ed elegante, e si preoccupò oltremisura della polvere di ghiaia e della terra che ombravano le sue scarpe di pelle lucida. Aveva allestito un pranzo solo di poco inferiore a quello di nozze, con evidente scopo dimostrativo. Aveva sentito dire che i ristoranti offrono sempre agli sposi un pranzo gratuito per provare il menu scelto. Tommaso si lasciò andare a molti complimenti, non avendo affatto compreso che quello sarebbe stato il nostro menu di nozze. Sono sicura che il coniglio alla cacciatora non rientrava nei suoi programmi, ma non ho avuto mai modo di chiederglielo.

Zia Dolores sembrava a tratti molto stanca, ma piuttosto presente. Ci fece compagnia a suo modo. Ci raccontò della festa di fidanzamento dei miei genitori durante la quale mio padre aveva portato a mio nonno una mucca in regalo. Disse anche che mia madre per non sfigurare si era agghindata come un vitello alla fiera. Risero tutti molto. Poco prima del dolce la zia si assopì. Mia madre entrò in cucina lasciandoci soli, Tommaso, mio padre, la zia addormentata ed io, sotto l’ombra protettiva del tiglio. Quando la zia si svegliò, il suo umore era cambiato. Le capitava, dopo un breve sonno, di perdere l’orientamento come quando ci si sveglia da un sogno troppo coinvolgente.

– Non lo sposerò. Non ti sposerò, Toni, per niente al mondo.

– Non sei tu che devi sposarti, Dolores, scherzò mio padre. – Sono Cristina e Tommaso.

Solo allora la zia parve riconoscere chi c’era con lei.

– Ti ricordi Toni? Quando andavamo al fiume a fare l’amore, passavamo un sacco di tempo a fare progetti. Io volevo andare a Roma, per studiare. Volevo diventare una scrittrice. Bada bene che avevo fatto a malapena la sesta elementare. Anche Toni voleva andare a Roma per vedere il papa. Al che, io gli dicevo ‘Scappiamo insieme, Toni’. Era bello, Toni. Aveva la pelle liscia, i muscoli alle braccia, e un viso dolce.

Cominciavo a essere a disagio. Mi alzai dalla sedia di scatto, sperando che il rumore interrompesse quel vaneggiamento. Cominciai a tirare via i piatti sporchi. Mio padre le diceva ‘Dolores, basta, non sai quello che dici.’ Le aveva preso la mano e gliela stringeva forte, forse un po’ troppo forte. Pensai che le stesse facendo male.

– Un giorno Toni venne qui, sotto il tiglio. ‘Sono venuto a parlarti con il permesso di mio padre’, mi disse. Immaginai che fosse lì per dirmi che saremmo partiti per Roma la sera stessa. E invece mi disse: ‘Dolores, mi vuoi sposare?’ Gli risi in faccia. Figurati se volevo sposarlo! Figurati se volevo restare con lui a mangiare fave per tutta la vita. Si arrabbiò. Si arrabbiò moltissimo.

Tommaso era confuso. Giocava con il tovagliolo pur di non alzare lo sguardo. Era il nome a confonderlo, ovviamente. Non era sicuro di poter assecondare i ricordi amorosi della zia, dato che lo sposo rifiutato si chiamava Toni come il suo futuro suocero.

– Quella sera nostro padre fece il grande annuncio. ‘Quanto è vero che mi chiamo Giuseppe, in questa casa ci sarà un matrimonio!’, disse. Era contento morto. Una moglie e tre figlie femmine: non vedeva l’ora di mettersi un maschio in casa.

– Dolores, adesso basta, intervenne mio padre duro. Sbatté un pugno sul tavolo. Tommaso sobbalzò. La zia Dolores non diede segno di essersene accorta. Io invece sarei voluta scomparire. Lasciai la catasta di piatti al centro del tavolo e mi mossi verso di lei.

– Zia, non agitarti, non ti fa bene, le dissi massaggiandole le spalle. Provai a distrarla con domande stupide, le chiesi se aveva troppo caldo, o se non sentisse troppa aria, se voleva che le prestassi i miei occhiali da sole. Lei mi rispondeva no, senza guardarmi. Fissava un punto lontano, e quando riprese a parlare lo fece come qualcuno che descrive una scena davanti ai suoi occhi. Credo fosse allora che mia madre uscì di casa con la teglia del tiramisù tra le mani. Ne aveva preparati due, uno con la ricetta classica, savoiardi e mascarpone, e un altro con la ricetta light, come aveva imparato a dire dai programmi di cucina di Raiuno, ricotta e pavesini.

– Ero pronta a smettere di mangiare e di bere pur di non sposarmi. Ma quando mio padre alzò il bicchiere e disse: ‘Toni ha chiesto in sposa la nostra Leda, e io ho detto di sì’ pensai: Bastardo di un Toni, vendicarsi chiedendo la mano di mia sorella. Leda si teneva una mano sulla bocca. Povera stupida. Disse di sì con un gridolino da cucciolo di cane. E tutti facemmo festa.

In una frazione di secondo accadde tutto. Mio padre, accortosi della presenza di mia madre, colpì mia zia al volto. La perfetta dimostrazione di un manrovescio. Dal naso le uscì un rivolo di sangue. Fu la scena più crudele e più feroce cui abbia mai assistito. Tommaso balzò in piedi. Fece per soccorrere la zia. Dovette scansare mio padre di peso. Schiacciò con le sue belle scarpe di cuoio un pasticcio di cocci di ceramica, di savoiardi – o forse erano pavesini – e di crema mezzo gialla e mezzo marrone. Mia madre alle nostre spalle si teneva una mano sulla bocca, come la sera dell’annuncio del suo matrimonio. Non avevo dubbi che quella storia fosse vera. Era la prima volta che vedevo mio padre alzare le mani. Menava i cani con il giornale per addestrarli, e questa era tutta la violenza di cui lo avevo visto capace nella mia vita. Non avevo dubbi che mia madre non ne sapesse niente. Mi chiedevo quanto avesse sentito esattamente. Rinsavii sentendo la voce di Tommaso che mi gridava di bagnare un tovagliolo con l’acqua.

Ho dei ricordi confusi su quello che successe dopo. Vidi mio padre salire sulla sua vecchia 127 verde e andare via. Nelle notti successive mi parve di sentire rumori nel capanno degli attrezzi, e pensai che avrebbe cercato un ricovero lì. Mi ero sbagliata. Lo aspettai invano per giorni. Venni poi a sapere dalla gente del paese che si trovava da un suo fratello a Minturno, o almeno quella era la voce che si era premurato di mettere in giro.

Tommaso tornò a Roma da solo: data la situazione, convenimmo che non era il caso che mi allontanassi.

Mia madre non parlò più per un tempo infinito. Se ne fossi stata capace, l’avrei presa per le spalle e l’avrei scrollata come un albero di noci. Al mattino metteva una sedia in cortile, ci si sedeva sopra e lì restava fino a sera. Mi occupai io di mia zia. Aveva un brutto ematoma. Zia Dolores parlava per tutte e tre, a sprazzi. Non tornò più sull’argomento. Era come se mio padre glielo avesse ricacciato in gola con la forza. Aveva trovato altri cardini per i suoi pensieri sempre più spezzettati. Mi chiedeva in continuazione se era tutto pronto per il banchetto di nozze. Quando era in presenza di mia madre, ripeteva sempre e solo una frase: ‘Ledù, tutto torna a posto, Ledù.’ Poi si metteva a piagnucolare. Quanto a me, mi sentivo preda di una febbre continua. Era caldo, ma avevo sempre i brividi. Mi ricordo che ero ossessionata dall’idea che mia madre e mia zia non si lavassero abbastanza. Nessuna delle due pareva molto intenzionata a farlo, per motivi diversi, e spendevo la maggior parte delle mie energie a convincerle. Mi sembrava che l’acqua e il sapone a poco a poco ci avrebbero ripulito tutti.

Avvisai al lavoro, sarei stata in ritardo con la consegna del nuovo progetto. Mi fecero capire che questo avrebbe pesato sul rinnovo del mio contratto, in scadenza ad agosto. Tommaso chiamava tutti i giorni, ogni mattina, dall’ufficio. Anche lui aveva trovato un cardine per i suoi pensieri. Voleva che denunciassi mio padre. Mi ripeteva che era un delinquente, capace di colpire una vecchia demente e chissà di cos’altro, negli anni in cui ero stata lontana a disegnare lampade. Ricordo che mi destabilizzava molto il modo in cui aveva aggettivato tutta la mia famiglia. Mi chiesi chi ero io per lui. Forse una povera stupida come mia madre. In un’ultima telefonata si riferì a mio padre come il responsabile dello sfascio della mia famiglia. Fu allora che dissi l’indicibile. Dissi che come paladino della giustizia non era poi un granché. Dissi che la sua sete di giustizia puzzava tanto di coscienza sporca. Dissi infine che chi è violento verso se stesso è in grado di sfasciare una famiglia come e più di chi è violento verso gli altri. Poi, non sopportando il peso delle mie stesse parole, riagganciai.

Non feci in tempo a piangere che apparve mia madre. Si era finalmente cambiata vestito. Aveva indosso uno dei suoi abiti a fiori sgargianti incrociati sul davanti. Si era rimboccata le maniche, aveva tirato fuori una testa d’aglio, una padella, l’oliera, una scatola di pelati. Era decisa a fare il sugo, evidentemente. Respirai l’odore del soffritto cercando di cacciare indietro le lacrime. Zia Dolores era seduta su una sedia accanto al tavolo, in quello che era diventato, nei giorni bui che stavamo vivendo, il suo solito angolo. D’un tratto mia madre si girò verso di me, e indicando sua sorella con il cucchiaio di legno sentenziò:

– Lei non c’entra niente. Non è colpa sua.

Ecco dunque cos’era quel suo mutismo ostinato e irritante. Il giudice era chiuso in camera di consiglio. Aveva ripassato dentro di sé i motivi dell’accusa e quelli della difesa. Aveva ripercorso più di quarant’anni di matrimonio, più i pochi mesi di fidanzamento. Aveva riascoltato i mille e più dialoghi che dovevano essere intercorsi tra lei, sua sorella e mio padre. E infine, aveva deliberato. Mia zia era innocente. Il colpevole, come si premurò di dire più e più volte al vicinato, aveva dovuto soccorrere il fratello in seria difficoltà con i suoi campi e i suoi animali a Minturno.

Tempo dopo, circa un anno fa, zia Dolores morì di infarto. La sorte le aveva risparmiato la parte peggiore della sua malattia, che comunque fece in tempo a renderla quasi del tutto invalida e molto assente nei pensieri.

Allestimmo una camera ardente all’ingresso. Era quasi l’ora di pranzo quando vidi, sotto l’arco di accesso al cortile, mio padre. Aveva il cappello di paglia in mano e un bottone nero appuntato su una giacca non sua. Ero andata più di una volta a cercarlo da mio zio. Non aveva mai tolto le mani dalla terra per parlarmi. Si era limitato a dirmi che non poteva tornare. Non poteva, punto e basta. Ecco un altro che deve espiare fino a farsi male, pensai. Quando mia madre lo vide – stava parlando con una cugina di secondo grado venuta per le condoglianze e per il rosario – entrò in casa e gli preparò un caffè.

Con le vecchie case coloniche la cosa migliore da fare è togliere ogni velleità di gioventù e ogni traccia di immodestia. E’ imprescindibile essere onesti. Sotto l’intonaco rosa risalente alla mia infanzia sono emerse pietre ancora belle da lasciare a vista. Le stalle alla fine sono rimaste stalle, ma qualche animale ben curato è un’ottima attrattiva per i bambini. Il forno in muratura continua a sfornare pizze e focacce. L’unica soluzione per non far rovesciare i tavolini instabili è stata quella di sceglierli pesanti, in ferro battuto. Li usiamo per la colazione del mattino e per gli aperitivi. Qualcuno vuole anche cenarci, la domenica e le altre sere di festa in cui offriamo un semplice buffet freddo. In tal caso, aggiungiamo volentieri un piccolo portacandele. Dopotutto, sembra essere tornato il tetto, sopra questa casa.

Stamattina sono andata a fare una passeggiata, da sola. Ho preso la macchina e mi sono addentrata verso i monti Aurunci. Sono salita fino alla villa disabitata per ammirare un’ultima volta da lì la domus di Tiberio, e il mare. Sarà difficile che io possa tornarci ancora. In paese corre voce che il figlio del precedente proprietario, quello che si è impiccato, l’abbia ricomprata. Pare che i lavori di ristrutturazione siano imminenti, e che dalla prossima estate Tommaso, fresco di nozze, tornerà a villeggiare lì con sua moglie, sua madre e tutta la sua famiglia. Dopotutto, aveva avuto ragione la zia. Come ebbe a dire mio padre, lei vedeva più in là. Suo malgrado, le piaceva stare sempre più in alto di tutti noi; da lì non poteva fare a meno di osservare le case scoperchiate, per poi perdere lo sguardo fin oltre il mare.

 

 

 

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1 commento »

  1. Come il corto, semplicemente e puramente bellissimo. Veramente complimenti.

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