Premio Racconti nella Rete 2016 “Muro” di Susanna Gianotti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016C’è tanto silenzio che, quando la caffettiera comincia a gorgogliare, Ada la sente dalla camera, e lascia cadere sul letto disfatto, tra le lenzuola sgualcite, la gruccia su cui sono appese le camicette, per correre a piedi nudi in cucina. Sono le nove, è in ritardo.
Versa il caffè nella tazzina, poi la poggia nel piattino coordinato sul tavolo, ritorna in camera. La camicetta che sceglie è quella rosa pallido, con le maniche a sbuffo; però non ha nessuna gonna che si abbini bene. Succede tutte le volte: quella camicetta le piace, ma non sa mai con cosa metterla, eppure ogni volta lo scorda e la sceglie di nuovo; quella camicetta sembra lei. La ritira, e opta per un vestito grigio perla, fasciante, che arriva un po’ sopra le ginocchia e ha le spalline che s’incrociano sulla schiena; ci abbina una giacca corta verde bottiglia.
Porta tutto in bagno, allunga gli abiti sulla lavatrice, dove sono appollaiati collant e reggiseno neri. Si guarda nello specchio sopra il lavandino, spettinata, con occhiaie profonde e cattive, che somigliano a un cartello su cui c’è scritto della nottata passata a discutere con Francesco, l’ennesima. Infila la mano nel portagioie, prende un girocollo sottile, d’oro bianco, quello che suo fratello le ha regalato l’anno scorso per festeggiare l’operazione, lo posa sul ripiano dello specchio. Era tutto impacciato, con quel pacchettino che si girava tra le mani e un sorriso che si voleva spontaneo, e che è stato la cosa più preziosa.
Il caffè lo beve freddo. È tardi, oggi ha troppe cose da fare: la psicanalista, il pranzo con sua figlia, il pomeriggio impegnato in negozio, fino alle nove. È sempre nervosa, lì, ha sempre paura di sbagliare. Il responsabile la guarda di sottecchi come se fosse un esame, e c’è sempre un buon motivo per cui le rivolge un commento tagliente. Lo odia.
Non ha tempo di mangiare; tanto stamattina ha lo stomaco serrato. La bambina forse non avrà voglia di stare con lei, Sandra dice che è bizzosa, che fa un sacco di domande e non gioca con gli altri bambini, che è colpa sua. La Gandolfi dice che è un ricatto psicologico, che può succedere. Torna in bagno dopo aver lavato la tazza, in bocca ancora il gusto amaro di caffè.
Sciacqua il viso con acqua fredda. Testa in giù, spazzola i capelli, colpo di collo indietro, spazzola ancora, li raccoglie rapidamente, elastico, arrotola la coda, la avvolge stretta, fissa con le forcine, tasta con la mano per controllare che siano nascoste; ne aggiunge qualcuna per sicurezza. Spruzza la lacca, prende il tubetto della crema da giorno e la passa sul viso. Poi aggrotta la fronte, recupera la pinzetta dall’astuccio e strappa via qualche pelo fuori posto, sgranando gli occhi. Prende il barattolino del correttore, lo applica sul contorno occhi, gli zigomi, qualche tocco sulla fronte, lo stende con cura; poi il fondotinta – naso, mento, fronte, sfumato verso l’esterno – e infine si guarda per controllare che la passata sia uniforme. Sorride per spennellare il blush sulle guance, appena un’ombra; apre la scatolina degli ombretti – verde, una fumata leggera, con una nota più chiara verso l’esterno dell’occhio. Poi la matita nera, che a metterla fa sempre delle smorfie con la bocca storta; mascara. Il rossetto è color malva, non troppo intenso, non ha tempo per la matita. Indossa la collana.
Sorride. La faccia nello specchio ora somiglia a lei.
Infila i collant saltellando su un piede e sull’altro, li allunga bene, che coprano la pancia: ha preso dei chili, forse è anche questo che a Francesco non piace. Sfila la camicia da notte, infila reggiseno, vestito, giacca. Corre in entrata, apre l’armadio a muro e cerca la borsa secchiello verde, quella coordinata con le scarpe. Travasa le cose dalla tracolla, chiavi portafoglio documenti fazzoletti specchietto sigarette accendino e non c’è il telefono – è sul comodino, è rimasto lì, corre a prenderlo, infila le scarpe, è ora. Si chiude dietro la porta, corre giù per le scale, con quelle scarpe alte che ticchettano sui gradini.
Fuori dal portone l’accolgono due cose: la prima è un venticello leggero, la seconda è la scritta sul muro, proprio lì davanti, per lei. È una scritta a bomboletta, nera, tracciata da una mano disordinata, in stampatello maiuscolo. Dice: “FROCIO” e sotto, più piccolo, ma sempre immenso, “TRANS DI MERDA”.
Il portone si chiude.
L’aria non c’è più. Non ce n’è un soffio, nei suoi polmoni, non c’è più il vento, non ci sono i suoi piedi, le ginocchia, le articolazioni, solo la botta allo stomaco e lava incandescente nelle vene – bastardi – vi odio – e la scossa che le sale alla testa, e perché a me, perché io, cosa vi ho fatto io, è casa mia questa, io non ho fatto niente perché perché respira Ada voi non sapete il dolore lo schifo vigliacchi e i vicini nessuno mi ha detto niente l’hanno visto tutti perché io e guarda quello stronzo, coi suoi giornali di merda, ride e fa finta di niente e mi fissano tutti.
C’è la merciaia sulla porta, una donnina paffuta che la saluta sempre, e ha lo sguardo basso e la bocca stretta e vorrebbe dire qualcosa, ma non sa che cosa. Ada ha lo sguardo appannato e deglutisce un groppo che non scende, ma almeno finalmente respira a fondo e cammina, a fatica, i tacchi sembrano difficili da portare; cerca di non guardare niente e nessuno, soltanto dritto davanti ai piedi, accelera il passo verso la macchina, che è a venti metri ma pare lontanissima. Le verrebbe da correre, invece preme il pulsante dell’apertura a distanza e va avanti, a testa alta, finché non arriva all’auto e si appoggia. Chiude gli occhi un momento, inspira, apre, butta la borsetta sul sedile in là e lei dietro, si abbandona a sedere, si affloscia, ma vuole solo andare via, metti in moto, muoviti, vai; avvia il motore, via il freno la prima la freccia ce la puoi fare aspetta ora è libero vai vai vai.
Fa cento metri, svolta, percorre due isolati; è abbastanza lontana, lì non c’è nessuno. Accosta di fianco ai bidoni della spazzatura e fa appena in tempo a fermarsi che sta già piangendo, china sul volante, con i singhiozzi che le scuotono le spalle e fanno sussultare lo chignon e tutta la sua testa. Piange forte e fa rumore come i bambini e guarda che schifo, tutto quanto, quegli insetti che hanno fatto la scritta e schifo io che sono qui a piangere e hanno ragione perché guarda mi è colato tutto il mascara, e solleva la testa per guardarsi nello specchietto, con gli occhi rossi e le guance su cui scorrono lacrime sporche di trucco, che donna e donna io non sono capace io non sono abbastanza brava a essere una donna io faccio schifo io non sarò mai mai mai sono un bluff come a poker quelli del poker hanno fatto bene a smettere di parlarmi e le donne non sono non sono così deboli le donne, e le manca il fiato. Allunga la mano alla cieca sulla maniglia e apre la portiera per prendere aria.
Ruota tutto il corpo verso l’esterno in un moto convulso, sporge fuori la testa, la gonna le è salita sulla coscia. Un uomo le passa accanto e le fissa le gambe. Ada stringe le labbra, lo osserva dura.
“Che?” chiede, e quello tira dritto.
Va meglio. Respira quasi normalmente, ora, fruga nella borsetta verde finché non trova i fazzolettini di carta, ne sfila uno dal pacchetto, poi si osserva nello specchietto retrovisore, di nuovo, ma questa volta per tamponarsi il viso e cancellare le tracce di trucco dalle guance, sotto gli occhi, e a lato, nell’angolo, un’ultima lacrima. Gira la testa a sinistra e a destra per controllare lo stato del volto, e quando lo trova soddisfacente si sporge ad aprire il cruscotto e prende la custodia degli occhiali da sole, li inforca, e con la mano libera sta già sfilando una sigaretta dal pacchetto.
L’accendino è finito in fondo alla borsa, ci finisce sempre; accesa la sigaretta, Ada rimette in moto, allaccia la cintura, quindi butta l’occhio nel retrovisore. È in ritardo, ha tanto da fare: psicanalista, bambina, supermercato, lavoro. E ora deve anche andare alla municipale, per il muro imbrattato.
Non ha tempo da perdere.
Com’è incasinata la vita della tua Ada! E come sai descriverla bene! Non ho apprezzato molto le frasi dove la tua protagonista parla, riflette e ragiona in maniera un po’ troppo concitata che rendi ancora più drammatica non inserendo la punteggiatura. Per il resto è un buon racconto, anche se si ha sensazione che manchi il finale.
Grazie delle osservazioni. Le terrò presenti se/quando ci rimetterò mano. Il problema del finale lo sento un po’ io stessa. Ti ringrazio ancora!
Interessante questo racconto,c’è un passaggio che mi è piaciuto moltissimo “quella camicetta le piace, ma non sa mai con cosa metterla, eppure ogni volta lo scorda e la sceglie di nuovo; quella camicetta sembra lei.” Credo sia la chiave di tutto il racconto, Ada come la camicetta non riesce ad “abbinarsi” al mondo,mi sarebbe piaciuto rivedere Ada e la camicetta anche nel finale! In bocca al lupo Susanna
Ci penserò su per una revisione futura. Grazie mille!
A me è piaciuta la frase “La faccia nello specchio ora somiglia a lei”. Abbiamo, noi persone, bisogno di imbellettarci per essere … un po’ come Ada. Un buon racconto
Sì, un po’ tutti. Che era la mia idea di base! Grazie, del commento e di essere passata.