Premio Racconti nella Rete 2016 “Una lunga storia” di Giovanni Paci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016La fioca luce che si propagava dal piccolo ambulatorio confortava l’attesa che per tutta la notte lo aveva tenuto sveglio. Se ne stava all’interno della sala a punzecchiarsi la barba cosparsa su tutto il viso, un viso che faceva presumere un’età, nella quale non si è più alla ricerca di niente. Sua figlia un poco assonnata gli stava accanto, rivolgendo particolare attenzione al suo piccolo orologio da polso. Il padre lo guardò. Si…me lo ha regalato lui, ti piace? Voleva dirgli questo ma non ci riuscì. I raggi solari filtravano tra le persiane consunte, alcuni pedoni vociferavano sul selciato che affianca l’ambulatorio ma l’uomo attendeva, chino sul tavolo in legno e la figlia sbilanciata dalla sedia, apriva a intermittenza i suoi occhi sottili. Il medico invitò il padre ad alzarsi, gli occhi della figlia seguirono con distrazione il passo stentato del padre. Da uno squarcio inciso sulla finestra si osservavano gli uomini e le donne mentre andavano al lavoro; correvano, dribblavano i numerosi ostacoli presenti sulla strada ma il loro esercizio quotidiano, era come spento. Durante l’attesa la ragazza eseguiva dei piccoli sospiri sommessi, forse rivolti alla socia che tra poco sarebbe andata in negozio. Il grembiule e il cappello bianco sarebbero scesi sul suo corpo, nascondendole i fianchi, il seno e la folta capigliatura bionda. Ripensò al negozio, alla calca che si sarebbe assorbita verso mezzogiorno, alle urla stridule di quelle donnacce sposate, ai lamenti sdolcinati delle zitelle e al torrido pomeriggio in cui anche lei avrebbe dovuto indossare l’abito da lavoro. La porta dello studio si aprì e il medico fece gentilmente accomodare l’uomo lungo il corridoio. La figlia scostandosi la ciocca di capelli neri dalla fronte, lasciò che il suo volto pallido si illuminasse di un sorriso particolare. I piccoli arti del medico si mossero fino ad arrivare ai piedi della segretaria intenta a leggere una rivista ma padre e figlia erano già fuori, all’aperto, colpiti dal sole di fine agosto. Oltrepassarono il traffico, gli echi dei clacson, le ombre oblunghe dei palazzi proiettate sull’asfalto riarso. L’uomo cullava la tessera tra le mani cercando di non chiedersi se il Tempo avrebbe prolungato il suo permesso. Si ricordò del primo giorno, quando suo padre lo aveva portato con sé al Farneto, all’alba, appena il sole lambisce la cresta orientale della collina. Per anni attese il giorno del suo diciottesimo compleanno; non aveva paura di quella età, non la temeva affatto. Appena sveglio rivolgeva lo sguardo al fucile che sarebbe diventato suo. Quel giorno arrivò; il fucile era riposto sopra il camino. Quel giorno arrivò ma la festa che aveva atteso per tutti quegli anni, non si fece mai viva. Era uno tra i migliori al corso ma da quelle operazioni che ripeteva ogni giorno si sentiva minacciato e più continuava, più lo scopo da raggiungere gli sembrava distante. Un giorno mentre marciavano tra le polverose strade della Libia, passarono tra una fila di eucalipti piantati ai margini di un canale di scolo. Non avevano nulla in comune ma per un attimo ripensò alle foglie dei pioppi che ombreggiavano il torrente di casa. Durante i sedici mesi di prigionia, molto spesso le tempeste di sabbia infierivano contro le inferriate ma per lui non erano altro che bufere di neve. Le palme nane che delimitavano il perimetro della prigione erano soltanto ispide ginestre. I carcerieri osservavano divertiti, quando ogni domenica lui e i suoi compagni di cella, difronte a quel rancio che addentavano a stento, tentavano di ricreare un’atmosfera conviviale. Fermarono la macchina fin dove la carrareccia termina la sua contorta serpentina tra le colline. Dovevano percorrere poco più di un km per raggiungere il rovere che svetta solitario nel campo di erba medica, dominando la vallata dove sempre più fabbriche stavano aprendo e i giovani ridiscendevano le montagne per prestare i propri servigi alla causa comune. Il proprietario del podere non sapeva che farne di quel pezzo di terra e se non fosse stato per quell’uomo, l’avrebbe di certo venduto. Andava in campagna ogni giorno, si prendeva cura dell’orto e degli animali, ripuliva la casa signorile dalle erbacce e dai rovi, quando serviva uccideva anche un coniglio o una gallina ma da circa un anno aveva smesso tutto quanto. Si recava nel podere solo quando sua figlia era disponibile. Restavano lì circa un’ora, poi senza prender parola si scrollava la polvere dal gilè e tornavano a casa. Quella mattina non tirava un filo di vento, i frammenti di pietra carsica scricchiolarono sotto i suoi scarponi. Saliva il sentiero a passo lento, cercando di aggrapparsi al fiato sbalzato via dai suoi polmoni. Il lato destro del rovere era stato squarciato da un fulmine che gli aveva per sempre compromesso una postura risoluta. Da lontano sembrava un malato che non riesce ad accettare la propria patologia. La casa signorile sorgeva poco più a sud. Il tetto sarebbe crollato entro pochi anni, le stalle erano già state svuotate e negli anni avvenire il figlio del proprietario vi avrebbe fatto sorgere un albergo con piscina. Alcune tortorelle spezzarono il silenzio che si era formato ma non erano le prede a cui ambiva. Un uomo in cima al campo incespicava tra le zolle di terra. Non era lui, la ragazza sperava ma non poteva essere lui; a quell’ora si trovava di certo al lavoro. Mentre pensava a questo si tolse l’orologio dal polso per stringerlo tra l’indice e il pollice della mano destra. Il padre tendeva l’orecchio verso il folto del bosco per intuire quali fossero i suoi abitanti. Sapeva attendere, aveva la capacità di aspettare meglio di chiunque altro. Prima che tornasse dalla guerra, sua sorella riuscì a sottrargli ogni singolo pezzo di terra. Per anni sentì sul proprio collo lo sguardo di sua moglie. Riuscì tuttavia a convivere con quello peso, anche quando nelle fredde albe legavano i buoi al carro e ripartivano nuovamente verso l’ignoto. Passavano di casa in casa avvolti in una nube di polvere e povertà. I figli più grandi emigravano in Svizzera, i più piccoli restavano immobilizzati in quella transumanza forzata. Quando trovavano casa non usciva mai di sera, aveva come il sentore che potesse sfuggirgli nuovamente di mano. Seduto davanti al camino con i bagliori della fiamma che zampillavano tra il suo volto olivastro, guardava i figli che crescevano di giorno in giorno. Anche in quella mattina il cappello era calato sulla sua testa; un cappello sgualcito che gli era sempre rimasto fedele. Per tutta la vita lo aveva protetto dal sole, dalla pioggia e dalle umiliazioni. Le mani candide massaggiavano il collo il cui biancore risplendeva tra le ombre appena scalfite dai raggi del sole. Cercava di percepire ancora la sua calda presenza, come se fosse lì, ad abbracciarla e a spingerle le labbra sul collo. Gli occhi del padre puntavano ad occidente, alle montagne ammantate da boschi. Una coppia di poiane recise l’aria appesantita dall’afa di fine estate. Passarono circa due ore poi tre starne sgusciarono dal bosco. L’emozione salì, la stessa che lo aveva invaso da piccolo alla sua prima conquista. Il fucile era parallelo al suolo; prese la mira. Le canne terminavano sul corpo dei volatili, sarebbe forse bastato un colpo per abbatterli. Un brusio alle sue spalle: voltò il busto per scoprire cosa fosse. Il cielo si macchiò di starne che avvolsero il sole, concedendosi a lui e alla sua piccola vanità. Un forte sussulto scosse la doppietta che disperse i pallini tra i cunicoli del pendio, addensati in una grossa maglia nera. Un vecchio trattore stava risalendo la china del colle. Le cornacchie continuavano a perlustrare i campi, dirigendo il loro becco nero su quel lembo di mondo ancora incompreso. Verso mezzogiorno i due ridiscesero il sentiero che si immetteva tra rari vigneti e boschi di roverella. Il padre prima di salire in auto guardò la recinzione che separava la strada dai campi di orzo. Bisognerà sistemarla, o prima o poi qualche bestia ci rimarrà sotto. Studiò lo sguardo grave della figlia; sembrava appoggiasse quelle sue parole insonore. Parcheggiarono l’auto proprio sotto casa. La madre doveva essere già in cucina a preparare il pranzo. La ragazza stava aprendo la portiera quando il padre iniziò a sorriderle; la mano sfiorò per un breve attimo la coscia della figlia. Era una mano stopposa abituata a stringere strumenti da lavoro. Dal contorno delicato della bocca uscì un suono pulito, estremamente gradevole. Morì a metà novembre per un cancro allo stomaco.
Arrivò la neve anche in città ma era una neve sporca, contaminata dagli oli industriali e dagli scarichi delle auto che spensero la magia traghettata dall’inverno. Molto spesso di domenica lei e quel ragazzo facevano lunghe passeggiate tra la neve, poi quando tornavano in auto accendevano il riscaldamento e inserivano un’audio-cassetta. Ascoltavano musica, bevevano del vino di qualità che lei rimediava al negozio, poi, facevano l’amore. Un giorno tornò sotto il rovere. Nevicava appena, un capriolo balzò sul campo con il musetto tinteggiato di neve per poi svanire tra il sentiero che muore dentro il bosco di carpini neri. Chissà se a suo figlio sarebbe piaciuto quel luogo. Indietreggiò nella sua mente. Che cosa folle! Pensò. Un figlio, una creatura, un piccolo organismo destinato ad assorbire sempre più vita. Le mani protette dai guanti in lana accarezzarono il ventre. Ci mise un poco di pressione per sentire l’effetto. Suo figlio avrebbe apprezzato tanto quel posto, ne era certa. Suo padre aveva ragione, dovevano davvero ritenersi fortunati. Tutti quanti.
Ciao Giovanni, apprezzo molto il tuo potere di sintesi, in bocca al lupo!