Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “Oltre gli occhi” di Silvia Ruggeri

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Suona ogni mattina. Sempre alla stessa ora, da anni.
Metto la sveglia due ore prima di iniziare a lavorare. Ho le mie abitudini e mi piace prendermela con calma.
Il primo caffè, la prima sigaretta, le prime notizie al Tg e la prima doccia della giornata.
Dopo circa un’ora e mezza di lenti preparativi esco di casa, ogni mattina alle 7.30.
La macchina parcheggiata al solito posto, la fermata al tabaccaio per il secondo caffè e la seconda sigaretta, i 10 km di strada per arrivare a lavoro.
A volte penso che quei chilometri sono infiniti. Sono troppi per sopportare i miei pensieri, la mia malinconia, la pesantezza dei miei stati d’animo. Anche il cd che ascolto è sempre lo stesso da un po’… le prime tre canzoni mi piacciono, quindi ogni volta lo faccio ripartire dall’inizio e alla fine del tragitto spengo la macchina quando il display
dell’autoradio indica la settima traccia. E’ così da un paio di mesi.

Non sono una persona molto socievole, ho solo un amico da quando andavo al liceo. Da quando si è sposato ed è diventato padre lo vedo molto raramente. Non mi è mai piaciuto stare in mezzo a troppa gente, trovarmi in posti affollati, sentirmi pervaso da rumori, suoni e luci. Mi sarebbe piaciuto fare l’impiegato, magari in un grande ufficio, in modo da confondermi senza necessariamente distinguermi in nessun modo. Mi sarebbe bastata una piccola stanzetta, anche in fondo al corridoio e senza grandi pretese.
Non sono mai stato ambizioso. Ho sempre pensato che il lavoro rientri nei doveri di un uomo ed è una rarità che questo possa coincidere con il piacere, con una reale passione. Il lavoro che faccio da 15 anni non l’ho scelto, non ho mai desiderato farlo. Penso che sia un impiego come un altro, dà uno stipendio e mi è stato insegnato da mio padre.
Questa è stata la sua eredità, insieme alla casa in cui vivevamo insieme prima che lui se ne andasse, stroncato da un infarto. Quando mi ha proposto di seguire il suo stesso percorso lavorativo ero molto scettico ma era bastato un buono stipendio per convincermi. Ero dubbioso perché pensavo fosse un lavoro molto faticoso fisicamente ma ero un giovane con forti braccia e pesanti muscoli. Mi sono adattato subito, senza grandi difficoltà. Le procedure da seguire sono sempre le stesse e la mia giornata è scandita da momenti precisi. Questo aiuterebbe chiunque, soprattutto un tipo come me.

Parcheggio l’auto nell’area dipendenti.
Mi sento inquieto più del solito, come se avessi qualcosa allo stomaco che mi fa respirare in malo modo. L’aria fuori è fredda, umida. La nebbia avvolge l’enorme entrata lasciando tutto poco nitido e tenebroso. Ormai mi sono abituato alla poca luce, dentro ci sono pochissime finestre perché la gioia, la spontaneità, la libertà non vivono qui…inizio a convincermi che sia meglio non ci siano finestre. Non sopporto lavorare sentendomi in questo modo.
Prima di timbrare fumo l’ennesima sigaretta.
Vado a cambiarmi ed indossare la divisa da lavoro prima di incominciare con le mie attività. Inizio facendo un giro di osservazione entrando nelle aree in cui sono posizionate tutte le celle. C’è sempre un pessimo odore, nonostante si cerchi di pulire il più possibile. Queste zone non sono mai silenziose e i rumori si intrecciano come nodi in gola.
Chi vive lì non ama vivere lì, l’ho sempre capito. E’ impossibile non pensarci trovandosi a contatto con così tanti occhi, ogni giorno, da 15 anni. Durante questa fase di perlustrazione emergono problemi di salute dei detenuti o altri aspetti che vanno risolti urgentemente.
Io mi occupo prevalentemente di monitorare e coordinare questo settore. Le mie attività sono scandite nel tempo precisamente. Ogni azione viene svolta ad un orario preciso e secondo uno schema preciso. Mi occupo anche del sostentamento, fornendo ad ognuno il cibo, le terapie e l’acqua. Quest’area è molto grande, circa 3000mq, e piena di celle: molto piccole se ospitano solo uno o leggermente più grandi se ne ospitano un numero superiore.
Oltre questo settore si estende una zona piena di macchinari per la produzione che coinvolge i detenuti. Ho libero accesso anche a questo spazio ma non ci entro quasi mai. Lascio che se ne occupino i miei colleghi…ad ognuno il suo compito. Non mi mancano certo le cose da fare e difficilmente ho il tempo per fermarmi o riposare un attimo.
Dopo l’osservazione e la fase del sostentamento, entro in ogni singola cella per accertarmi delle condizioni psico-fisiche di ognuno. Spesso sono precarie e necessitano dell’intervento del medico reperibile.
E’ capitato che l’unica cosa da fare fosse accertarne la morte.
La reclusione è una condizione di vita pessima, credo che a chiunque tolga la dignità costringendo a vivere in condizioni per cui non valga la pena vivere. In questo caso però la ritengo necessaria.

Quella mattina ho eseguito tutto secondo i protocolli. Ho anche fatto accedere e sistemato nuovi ospiti nelle loro stanzette. Ho compilato moduli, osservato e raccolto le indicazioni di cui avevo bisogno perché tutto fosse in regola. La mia attenzione ad un certo punto si focalizza su un nuovo arrivato. In tanti anni di lavoro ne ho visti tanti che giungono da noi inquieti, stressati, terrorizzati, abbattuti e frustrati ma lui mi colpisce particolarmente. La cosa che mi attira subito di solito è lo sguardo, non lo evito mai. Spesso sono loro ad evitarlo e questo mi dà forza, animando in me una sorta di egoismo e superiorità.
Lo osservo per un po’, continuando a fare il mio lavoro. Era l’unico, in mezzo ad altri tre, che continuava a dare le spalle. Gli altri erano rivolti verso le sbarre ma lui è rimasto tutto il tempo voltato dall’altra parte. Era giovane e ho pensato che avesse qualche problema di salute. Dopo circa tre ore, entro in cella cercando di capire come mai stesse assumendo questo comportamento ma non rispondeva a nessun tipo di richiamo, neanche a quelli più violenti.
Il medico dopo una visita non ha rilevato niente di anomalo. Ho deciso di sistemarlo in una cella singola. Così ho fatto e lui ha continuato a tenere il volto rivolto verso il grigio muro di cemento.
Erano quasi le 16, la giornata di lavoro era giunta al termine.
Posizionato frontale a lui, l’ho guardato a lungo ma ad un certo punto me ne sono andato.
Tornando a casa ci ho pensato però era troppa la voglia di staccare con questi pensieri. Mi sono fermato a prendere una pizza, quattro birre e davanti alla partita di calcio mi sono addormentato profondamente.

Ogni giorno faccio più o meno le stesse cose, in modo meccanico, abituale. Arrivo al parcheggio con le note della traccia numero 7.
Mi sento stanco come se non riposassi da molto tempo. Guardandomi sullo specchietto retrovisore ho pensato che il mio sguardo inizia ad invecchiare, gli occhi incominciano a voler guardare oltre quei movimenti meccanici ed abituali. Mi rendo conto che la fatica che sento oggi non è fisica. Timbro il cartellino, mi cambio e inizio il giro di osservazione.
Lo incomincio da lì, dalla cella n°48. Con stupore vedo che non si è spostato di un centimetro, è rimasto immobile e fermo per 16 ore. Rientro in cella e mi siedo frontale a lui. Rimango dentro a lungo, mi aveva contagiato con la sua
immobilità. La sua testa si alza leggermente e i suoi occhi incrociano i miei per qualche secondo. A quel punto sono riuscito a capire, ad immedesimarmi in quello stato d’animo. Provo a parlare con lui. Gli altri non si comportavano così perché ancora stavano cercando in tutti i modi di reagire alla prigionia. Chi piangeva disperato, chi tirava calci alle grate, chi urlava, chi lo aveva accettato come condizione dell’esistenza, chi emetteva forti segnali di stress, chi si lasciava morire… Più lo guardavo e più rivedevo me stesso dentro ai suoi occhi languidi. Lui si trovava in un totale stato di rassegnazione, quella per cui non vale la pena vivere. Tutta la postura del suo corpo, nella sua totale estraneità e immobilità, comunica al resto del mondo la piena rinuncia a trovare pace e la totale sofferenza dell’anima. E’ come se sapesse che non può più fare nulla per cambiare quella situazione. Tra poco verrà preso insieme ad altri per andare nell’altro settore e non potrà farci nulla. Se altri dimostrano di averlo accettato, lui no. Si è solo adattato al pensiero della morte. Ho pensato che io sono come lui. Mi sono adattato ad una vita che non mi appartiene. Ho sempre desiderato fare solo un lavoro tranquillo…quanto vorrei adesso una piccola stanzetta piena di scartoffie in fondo ad un lungo corridoio!
Devo prendermi una pausa.
Mi sento soffocare. Esco fuori per una o più sigarette, circondato da una nebbia fitta. Non riesco a smettere di pensare alla sopportazione. Io l’ho fatto per anni. Ho lasciato che altri scegliessero per me rendendomi una persona ordinaria. E poi c’è lui…come posso non pensare a lui, ai suoi occhi e a tutto ciò che mi ha comunicato. Per 15 lunghi anni non ho visto niente, non ho capito niente. Tutto così meccanico e abituale, come se stessi lavorando con oggetti e non con soggetti. Sapevo che non era così ma ho pensato sempre che loro fossero nati per uno scopo preciso. Io ho solo accontentato mio padre, ho avuto uno stipendio per 15 anni e non avrei mai immaginato che…
Devo rientrare, mi richiamano dentro. E’ il momento del trasporto nell’altra area. Il collega mi dice di accompagnare i detenuti delle celle dal numero 41 al numero 60. Inizio con i primi cinque… dopo circa 40 minuti è il momento di portare i successivi. Con lui ho fatto molta fatica, non voleva muoversi. Ho dovuto sollecitarlo in malo modo. Camminava insieme agli altri con la testa bassa e molto lentamente. Era magro e profondamente depresso. Il mio collega li porta via ma prima di andarmene lo guardo ancora una volta. Con un movimento veloce della testa si gira e incrocia il mio sguardo. Rimaniamo così per circa 10 secondi ma uno strattone lo fa allontanare. Torno di là con il pensiero che in quei pochi secondi lui ha lottato per l’ultima volta, trovando la forza di guardare la persona che non lo ha fatto sentire inesistente e gli ha prestato attenzione. Un ultimo grido silenzioso di aiuto.
Ho realizzato in quel momento che io mi sono sentito invisibile per anni, proprio come lui.
Ho visto tanto di me in quel detenuto. Come è possibile?
Sono stanco. Per la prima volta in tanti anni decido di tornarmene a casa prima. Mi fermo a prendere delle birre prima di rientrare a casa.

Il mattino dopo alle 7 sono già fuori casa.
Le troppe domande e la estenuante ricerca di risposte non mi hanno fatto chiudere occhio. Non avevo messo in discussione solo la mia esistenza ma anche quella degli altri… quella di colui che mi aveva permesso di comprendere lo stato d’animo altrui. Se prima pensavo che tutto è già scritto, che ad una strada, qualunque essa sia, siamo destinati, ora ho messo in dubbio ogni certezza.
Parcheggio ed entro subito, senza fumare. Mi cambio ed inizio, come ogni giorno, il giro di osservazione. Alle ore 8.30 sono seduto nell’ufficio del mio capo e presento la lettera di dimissione. A lui non spiego la reale motivazione del mio gesto ma gli infiocchetto un discorso uscito al momento e che neanche ricordo. Cerca di convincermi, visti i rapporti di amicizia che aveva con mio padre, ma capisce poco dopo che sono fermo ed immobile sulla mia posizione.
Durante la fase di perlustrazione delle celle non ho potuto evitare di andare oltre ai loro occhi. Mi sono accorto che iniziavo a proteggermi evitando di guardarli e che, anche se si incrociavano con i miei, la sensazione che sentivo non era più quella di superiorità. Era terrore, sofferenza e ricerca di pietà. Mi sono sentito un codardo bastardo perché ormai sapevo e non potevo nascondermi. Non ero più lo stesso di prima. Lui e i suoi occhi mi avevano cambiato.

Esco da quel posto alle 10 del mattino, con tutta la giornata davanti ed una pagina bianca su cui scrivere la mia vita. Ho pensato che anche loro avrebbero meritato la spontaneità e la sensazione nuova di libertà. Mi sono reso conto che non era così necessario come pensavo sfruttare la vita di un altro essere vivente, senza colpe, nato con uno scopo preciso e senza nessuna possibilità di cambiamento. Oggi penso che sarebbe meglio ci fossero tante finestre di vetro trasparente. Quello che so per certo è che io non avrei più potuto mettere piede lì dentro. Uscendo dal parcheggio vedo arrivare un altro camion con un altro carico. Dalle grate intravedo gli occhi di molti di loro, spaesati ed impauriti. Con i grossi musi cercano di captare qualche segnale che li orienti e che gli faccia capire dove si trovano.
Con la mia auto inizio ad accelerare, tenendo i finestrini abbassati per prendere aria.

Guardo lo specchietto retrovisore e mi lascio alle spalle la scritta “Allevamento Bovini”.
Accendo una sigaretta, inizio ad urlare, il cd riparte dalla traccia numero 7.
Premo OFF.

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8 commenti »

  1. Bello.Scorrevole e veloce.Il finale mi ha fatto abbozzare un sorrisetto e dire ad alta voce: ” ma dai! “.Di sicuro, regala un valore aggiunto al tuo racconto. Ma non so se Papa Francesco sarebbe d’ accordo con me, hahaha…a parte gli scherzi, bravissima!

  2. Grazie di cuore!

  3. La rassegnazione è per chi non ha possibilità di scelta come nel caso della bestiola che andava al macello..personalmente mi piace il messaggio che hai voluto dare,e sei stata molto brava a costruire la storia,bellissimo il finale.In bocca al lupo Silvia

  4. Un racconto che invita ( velatamente!) a diventare vegetariani… Se il tuo scopo era quello di insinuare dei dubbi, secondo me ci sei riuscita… Brava, scrivi molto bene.

  5. Un bellissimo racconto, gli occhi di quell’animale ho potuto vederli attraverso le tue parole.
    Di temi qui dentro ce ne sono parecchi, a partire dal sopravvivere che molte persone oggi portano avanti senza accorgersi mai di cosa si perdono della vita vera, al tema molto discusso ai giorni d’oggi sull’alimentazione. Il tema posso condividerlo o meno con tutte le sfumature che comporta, ma questo racconto è scritto veramente bene.
    Molto bello!
    In bocca al lupo!

    Orsola

  6. Grazie mille a tutte…mi fa davvero molto piacere che vi sia piaciuto e che ne sia stato colto il significato.

  7. Ciao. Io avevo capito che non si trattava di esseri umani. L’ho capito piuttosto presto. Il motivo non te lo spiego. Avevo però pensato, lì per lì, che fossero cani.
    Comunque è un racconto ben scritto e una storia molto ben congegnata. Complimenti.

  8. Ho capito solo alla fine l’identità di quegli occhi. Sono molto sensibile a questo tipo di argomento, sei stata davvero brava ad affrontarlo. Complimenti!!!

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