Premio Racconti nella Rete 2010 “Charles e Maria” di Sara Piazza
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Questa mattina mi sono destato di umore vivace. Il tempo è buono e credo che potrò uscire per una passeggiata. Il freddo degli ultimi giorni ha aumentato il dolore alle ossa: spero che il sole asciughi l’umidità che sento espandersi dentro, fino a tutte le giunture. Forse l’idea della gita in barca potrebbe essere un po’ avventata: si sa che in questa stagione un acquazzone può sempre prenderci alla sprovvista. Tuttavia non mi sento abbastanza forte, oggi, per affrontare gli occhi di Maria se si dovessero spegnere nella delusione. Correremo insieme questo rischio, perché accontentare lei per me è l’unica fonte di ispirazione.
Per troppi pomeriggi il suo piccolo corpo magro è stato abbandonato sul divano di casa mia. Sempre seduta in modo compito per non scontentare gli insegnamenti della mamma, la vedevo sprofondare ogni minuto di più nell’incavo del cuscino. Intanto il blu dell’iride spariva alla mia vista sempre più spesso, mentre i battiti delle palpebre aumentavano per contrastare il sonno portato dalla noia.
Lei reclama una nuova invenzione ogni giorno ma la vecchiaia rallenta i miei pensieri, così riesco ad avere qualche intuizione solo a giorni alterni, e solo se fuori c’è abbastanza luce. Funziono come una grossa macchina fotografica, che mette a fuoco se non si ha fretta, e che ha bisogno di un cielo molto chiaro per afferrare qualche immagine.
Ieri pioveva, oggi no, quindi oggi è il giorno in cui non posso sottrarmi al mio dovere di inventore, così la porterò al lago, remerò per lei e per le sue sorelline, se vorranno partecipare. Inventerò una storia, se mi chiederanno di parlare. Avrà come protagonista una bambina di nome Maria, a cui piace molto passeggiare nei prati e curiosare nei suoi sogni. Poi, quando tornerò a casa questa sera, farò dei disegni per lei con le immagini del mio racconto. Li raccoglierò tutti in una cartellina e glieli regalerò per il suo compleanno. Potrei mettere nella cartellina anche le foto che le ho scattato questo gennaio e che finalmente un mese fa ho stampato, nell’unico giorno in cui il freddo ha dato tregua alla mia schiena; ma non sono sicuro che vederle la renderebbe felice.
Mi sono accorto che non era disinvolta come d’abitudine, mentre posava, e così il suo volto solitamente imbronciato in una espressione viva e convincente, in queste immagini appare irrigidito in un sorrisetto sbiadito. Mi chiedo che cosa possa aver raccontato a sua madre, perché la Signora Scott mi ha chiesto di poter vedere le fotografie, cosa davvero insolita visto che in genere le considera affare esclusivamente mio. Dice di non capire questa nuova forma d’arte, e che per lei resta più interessante un bel ritratto a olio, dove la mano del pittore aggiunge carattere ai personaggi. Quando dice così mi dispiaccio per lei, che pensa di avere una figlia a cui il carattere debba essere aggiunto dalle pennellate di uno sconosciuto. Io invece sono convinto che nessun viso possa raccontare meglio di quello di Maria il mistero di pensieri celati, e che nessun corpo esprima un’eleganza paragonabile alla sua. Per questo motivo l’ultima volta le ho chiesto di togliersi anche le mutandine.
Non faceva freddo nello studio, il caminetto era stato acceso fin dalla mattina. Avevo consumato chissà quanta legna per rendere confortevole la temperatura, perché avevo capito che quello poteva essere il giorno buono per arrivare al fondo della questione. La giornata era limpida e la luce che al mattino era stata bianchissima stava lentamente assumendo i toni giusti, più caldi, mentre la giornata si avvicinava al tramonto. Avevo aperto bene le tende, fissandole ai lati della vetrata.
L’estate scorsa avevo fatto rimuovere la siepe che ostacolava un po’ i raggi del sole, dai quali voglio che il mio studio sia invaso il più possibile. La Signora Scott aveva apprezzato molto la mia decisione. Mi aveva detto che in questo modo le era più facile salutare le sue figlie mentre lei passeggiava in giardino e loro erano nel mio studio a giocare o a posare. La sua buona educazione l’aveva sempre trattenuta dal dirmi che avrebbe preferito che fotografassi le bambine solo in estate e solo in giardino, ma qualche frase preoccupata su un mal di gola spuntato dal niente proprio il giorno dopo una seduta di fotografia mi aveva messo in allerta. Un giorno mi disse “Forse stare così tanto ferme in una stanza fredda non è una cosa salutare per delle ragazzine”. Allora io avevo quanto prima predisposto tutto in modo che il mio studio sembrasse la continuazione del giardino, e perché la signora Scott potesse sbirciare all’interno comodamente, per verificare di persona che Maria rimaneva ferma solo per pochi secondi durante lo scatto della foto, e che tra una foto e l’altra era libera di giocare per scaldarsi un po’. D’altronde la madre della mia piccola amica era sempre stata invitata da me a partecipare a queste sedute, quindi non capivo da dove scaturisse tutta questa preoccupazione per la temperatura della stanza, che avrebbe potuto sondare di persona ogni volta che avesse voluto.
Così le tende aperte e il campo sgombro dalla siepe rendevano perfetta la stanza ad accogliere una luce che avevo aspettato per tutto l’autunno e che adesso l’inverno finalmente mi portava. Chiamai Maria che stava sfogliando un libro nella biblioteca al piano di sopra, pregandola di non farmi attendere troppo, perché avremmo perso il momento migliore. Smorzai le fiamme nel camino, per evitare fastidiosi riverberi e ombre antiestetiche sul corpo della modella. Avevo fatto alcuni schizzi per decidere in anticipo la posizione delle braccia e l’inclinazione della testa, e avevo comprato una nuova poltrona in pelle marrone a cui facevo la corte da mesi, senza riuscire a strappare un centesimo di sconto. Quando Maria scese, aveva la camiciola e i mutandoni, come nelle immagini che avevamo rivisto insieme pochi giorni prima e che avevamo fatto d’estate nel bosco oltre il lago. Le chiesi di sedersi sulla poltrona con le gambe unite e i gomiti sui braccioli. Le mani dovevano stringere il ricciolo di legno che si trovava all’inizio di quei sostegni laterali. Maria teneva la testa troppo alta e la schiena troppo dritta rispetto ai disegni che avevo fatto, allora glieli mostrai per farle capire meglio che cosa avevo in mente. Il talento innato in quella bambina le fece interpretare la posa corretta nell’istante stesso in cui la vide. Insieme alla giusta posizione mi parve di vedere in lei un rapido lampo di sorpresa, mentre studiava le mie carte. Mi chiese allora “così va bene?” ed io le dissi di sì, anche se l’espressione del suo viso non mi convinceva. Feci comunque una prima foto, con il rischio di sprecare una lastra, perché ritenni che quello fosse l’unico modo per iniziare. Poi lei mi disse che per essere proprio uguale al disegno, non avrebbe dovuto indossare la camiciola. “Posso toglierla?” mi chiese. Le dissi che se non aveva freddo poteva toglierla, e pensai che quello fosse in effetti il modo migliore per realizzare la fotografia che avevo in mente. Le spalle di Maria diventarono più piccole ma questo non intaccò l’armonia delle linee. Si ricordava perfettamente la posizione e se ne reimpadronì appena si fu seduta nuovamente. La guardavo, identica al mio schizzo, eppure imperfetta. La cosa mi turbava molto perché Maria aveva sempre migliorato le mie idee. Ogni volta che si era messa in posa per me aveva creato la fotografia da sola, andando oltre le mie aspettative. Questa volta invece mi fu chiaro che avrei dovuto impegnarmi di più se volevo ottenere un risultato soddisfacente. Non sapevo se tale mancanza di spontaneità nel nostro lavoro dipendesse dall’umore di Maria oppure dal fatto che mi sentivo molto più infervorato per questo progetto che per i precedenti. Pensai che Maria non avesse responsabilità anche se i suoi occhi solitamente selvatici mi sembravano quel giorno placati, come se si fossero rassegnati a qualcosa che non capivo cosa fosse.
Le chiesi di togliere anche i mutandoni, per cercare nella continuità della linea della sua pelle la luce che in quel pomeriggio non riuscivo a trovare sul suo viso. Lei si alzò e sfilò le trine bianche senza dire niente. Le piegò con cura, come faceva con tutti i suoi abiti, e le appoggiò sul tavolino rotondo, vicino alla poltrona, sopra la camiciola. Tornò a sedersi sulla pelle marrone e io pensai che il rosa dei fianchi dritti e glabri contrastava tanto su quel colore scuro da far sparire tutte le ombre del corpo e mostrare solo luci abbaglianti. Riaccesi le fiamme del camino per creare qualche sfumatura su quel biancore, e feci la seconda fotografia. Inquadravo solo la poltrona, e Maria.
Poi le chiesi di appoggiare le mani sulle ginocchia, ma di mantenere i gomiti larghi. Spostai il cavalletto e inclusi nell’immagine anche il tavolino con gli abiti piegati. Dopo questa terza fotografia, le dissi di rivestirsi in fretta e andare a sedersi vicino al fuoco, prima che sua madre potesse rimproverarci per un ennesimo mal di gola. Mentre infilava la camiciola lei mi guardò riappropriandosi del suo sguardo animale e mi disse che era abbastanza grande per decidere quando restare in casa ammalata. Poi non fece in tempo ad appisolarsi al caldo perché il manico dell’ombrellino di sua madre ticchettò sul vetro per richiamarla a sé.
Qualche settimana dopo pensai che probabilmente la piccola doveva aver detto a sua madre che le fotografie di quel giorno, una volta sviluppate, sarebbero state molto belle, perché appunto la Signora Scott continuava a chiedermi quando gliele avrei mostrate, impaziente di iniziare a imparare qualcosa su questa nuova moda nell’espressione artistica. “Mia figlia è il suo soggetto principale ed io, che l’ho generata, me ne disinteresso. Ciò è inadeguato.” Mi aveva detto.
Il freddo che seguì in quei giorni mi impedì di andare in camera oscura prima della fine di marzo. Il mio ritardo fu tale che la Signora parve di nuovo perdere interesse per l’argomento, fino al punto di condizionare forse anche Maria in questo, che ultimamente mi è sembrata molto più interessata ai miei libri che alle nostre sedute artistiche.
Oggi, sul lago, le racconterò una storia, poi, a maggio, le regalerò i disegni. Se le piaceranno, le chiederò se vorrà diventare lei l’immagine che sta guardando: a questa mia proposta ha sempre sobbalzato di entusiasmo. Il giorno del suo compleanno scoprirò se Maria è diventata troppo grande per poter entrare nelle mie foto da folletto.
Bello. Quello che mi è piaciuto è la costruzione per non detto, come se tutto si creasse da sé, di un mondo pieno di un certo mistero e di molte ambiguità. Prendi ispirazione dalla biografia di Lewis Carroll e della sua Alice, vero?
Allora il mistero e l’ambiguità rispettano, come se si avesse pudore ad andare troppo avanti, il fatto che anche nella realtà raccontata non si sa infine cosa sia accaduto e cosa sia stato solo immaginato dagli esterni.
Primo pensiero: “Indefinito”. Bello perchè mi ha portato ad immaginare e a personalizzare la storia, mi ha fatto sentire parte del racconto. Quindi indefinito perchè “leggo o sono io”? O vorrei essere io? Bello perchè fa pensare.
All’inizio ho fatto fatica ad entrare nel racconto, qualche parola da cambiare? La punteggiatura? Non so, comunque anche molti dei + bei libri che ho letto hanno un inizio impegnativo.
Racconto che propone la psicologia di un uomo in bilico tra equilibrio, senso estetico, ricerca di una luce, e impulsi assai pericolosi. Il suo patto con la bambina è veramente inquietante, descritto benissimo nella sua indefinitezza, nella sua inconsistenza, nel suo non essere alla pari. Che patto vi puà essere tra un esteta e una bambina? Tra un voyer che è convinto di vedere uno sguardo animale nel suo soggetto, ed una coscienza in formazione?
Campo minato ed inesplorato, quello che Sara Piazza affronta con vera maestria, creando suspance fin dall’inizio.
Il contrasto ta il rosa del carnato e la scura pelle della poltrana: il contrasto tra il mistero e il reale, tra impulso e ragione, tra il torbido e l’estetica. La grandezza di un artista passa a volte attraverso percorsi scuri , sfide a convenzioni con convinzioni non etiche. Lewis Carroll, ovvero Charles Lutwidge Dodgson ne fu un esempio clamorso…qualche giorno fa ho finito di leggere il romanzo di Simonetta Agnello Horbny proprio sull’ideatore di Alice.
Carmina Trillino