Premio Racconti nella Rete 2016 “Un ragazzo sfortunato” di Sonia Matteodo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Era solo un ragazzino quando gli offrirono la prima canna. È solo un gioco, gli dissero. Avanti, non fare la mammoletta. Loro erano i ragazzi grandi. Di quelli che o te li fai amici, o te le prendi. E lui di prendersele anche fuori casa non ne aveva proprio voglia.
Quel giorno avrebbe dovuto andare al catechismo. Di lì a poco tutti i ragazzi del paese avrebbero fatto la Cresima, ma lui a Dio non sapeva se crederci oppure no. E non gliene importava un bel niente. In fondo, se fosse esistito, non gli avrebbe preso suo papà così presto. No, Dio non esisteva. Era meglio ascoltare chi della vita sapeva davvero qualcosa, piuttosto che dar retta alle fandonie di preti e suore. E loro, i ragazzi grandi, della vita se ne intendevano. Si facevano rispettare. E per Carlo questo bastava.
Quella prima canna fu il suo ingresso nella vita adulta. Ma pure quel giorno il patrigno gliele suonò. Un altro bicchiere di whisky e gliele suonò di nuovo. Tra tutte quelle botte, non riusciva a pensare ad altro. Nemmeno il dolore riusciva a distoglierlo. Quella cartina. Chissà che cosa avranno pensato i suoi amici di lui. Finalmente lo avrebbero considerato uno di loro. Un vero duro. E un vero duro non si fa spaventare di fronte a nulla. Che sarà mai marinare una volta la scuola? Lo fece il giorno dopo lo spinello. E il giorno seguente e il giorno dopo ancora. Tanto loro, i professori, non sapevano far altro che dar giudizi a destra e manca, ma mai una volta che gli avessero chiesto di sua madre e delle ore piccole che faceva per portare a casa due soldi. La scuola era solo per i figli delle famiglie per bene. Non per uno come lui.
Come quella sua compagna di classe, tutta casa e chiesa, che gli faceva ribollire il sangue ogni volta che piangeva per un voto basso. Lei, vestita sempre così bene, con la mamma che la veniva a prendere puntuale dopo la scuola. La sua, invece, a quell’ora dormiva ancora e lui la strada fino a casa doveva farsela a piedi. Da solo.
Fu proprio uno di quei giorni di botte e solitudine che picchiò Giulia. Non sapeva nemmeno perchè. Lo fece e basta. Quella mattina era saltato sui banchi durante l’ultima ora. I compagni lo avevano applaudito come un eroe e il professore di arte lo aveva mandato dal preside, tra le risate e gli sguardi altezzosi di Giulia e delle sue amiche. Se continui così, rischi l’espulsione, gli aveva detto. E la campanella suonò la fine della scuola.
Uscendo, era stato trascinato per le scale da una fiumana di ragazzini eccitati. A quel punto la vide. Camminava tranquilla e un po’ curva, sotto il peso dello zaino pieno di libri. Era solo qualche metro dietro di lui. Fece ancora qualche passo e sulla porta d’entrata si fermò, l’aspettò e quando gli fu accanto l’afferrò per il braccio, la trascinò fuori a forza e con tutta la rabbia che aveva in corpo la colpì prima in faccia, facendole cadere in terra gli occhiali, e poi sulla schiena. Così impari a ridermi dietro, le urlò contro, mentre le sue mani non ne volevano sapere di fermarsi. Corri dalla mamma, ora! Corri!
Guardava Giulia, ma non la vedeva veramente. Quello che vedeva in realtà era se stesso. Un povero vigliacco pieno di lividi che sapeva prendersela solo con chi era più debole di lui. Ma almeno aveva sfogato il suo odio per il mondo. Non avrebbe dovuto più trattenersi e avere paura. Un Carlo diverso era comparso quel giorno. Un ragazzo che avrebbe continuato a picchiare i più piccoli e più fortunati.
Ora tre anni sono passati, tra pere e pasticche. Prima ogni tanto, ora quasi tutti i giorni. Non ne può fare a meno. Sua madre l’ha buttato fuori di casa. Non ti riconosco più. Non sei mio figlio. Gli aveva urlato, sbattendogli la porta in faccia. É la vigilia di Natale e Carlo non sa dove andare. Prende il primo treno che parte per Torino. Le persone lo fissano. Alcuni arricciano il naso perchè puzza. Alla stazione Porta Nuova vaga come un cane randagio tra i binari. Alla gente che passa chiede due euro per comprarsi un panino. É un giorno ormai che non mangia. Nessuno lo guarda, nessuno sembra badare a lui. Tutti corrono con le borse piene di regali e hanno troppa fretta di prendere il treno.
É ormai sera e Carlo ha freddo. Un ultimo buco ancora. Non gli resta che quello. Si addormenta accanto ai bagni della stazione.
Così ti trovarono la mattina di Natale, in fin di vita, con la bocca aperta e la siringa appesa al braccio.
Lo lessi sul giornale locale. Sapevo che avevi preso una brutta strada, ma non fino a questo punto.
Io, Giulia, la compagna secchiona e tu lo studente svogliato. Io, quella per bene. Tu, solo un ragazzo sfortunato.
Brava, ti sei salvata alla fine… Hai fatto bene a svelare all’ultimo che è Giulia a narrare la storia, altrimenti sarebbe stata la ” normale” vicenda autodistruttiva di un ragazzo. E purtroppo ce ne sono tantissimi… chissà perché… Ma con Giulia scateni riflessioni diverse, fai apparire i sensi di colpa, richiami l’accidia, suggerisci l’ignavia… Forse hai messo poco sentimento in questa storia, così da risultare un po’ troppo sbrigativa.
Il racconto è scorrevole, il ragazzo è sfortunato realisticamente, con una vita faticosa e difficile come realmente in qualche famiglia potrebbe accadere.
La fine con le parole di Giulia mi piace tantissimo… mi avrebbe fatto curiosità sapere qualcosa di più di lei in quelle ultime parole, ma questa è solo una curiosità mia e solo perchè il racconto mi aveva preso parecchio e avrei voluto saperne di più.
Molto bello.
🙂
È un racconto breve, minimalista. Sono più per questi racconti che per altri più lunghi, gusto personale. Mi ha suscitato tristezza.