Premio Racconti nella Rete 2016 “Il palo” di Marzia Pietrelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Mi ritrovavo per l’ennesima volta al palo. Con il conto, arrivavo quasi alle dita di una mano. Avevo la sensazione di avere dieci mani. Mi sembrava non ci fosse granché da fare. Non sentivo il bisogno di agitarmi. Lasciavo correre. Ero quasi stanca di me. Stanca anche dei pali.
Continuavo la vita normale. All’esterno. All’interno, un po’ intontita, come da fuso orario. Un po’ stretta nelle spalle, vagamente perplessa.
Era stata l’occasione per levare le ancore, partire su strade nuove. Su strade che avevo un tempo sognato e poi messo lì. Lontano da casa, ampi spazi e il suono del silenzio. Vicino a casa, vicoli mai percorsi, con murales e negozietti, finestre su altri mondi. Week end in improbabili mercati delle pulci a osservare distratta tante cianfrusaglie.
Finché un giorno, capitata per caso in una piazza, il mio sguardo indifferente si era posato su uno strano allestimento di vecchie cornici, navi in bottiglia e pali. Dei pezzi di pali, il più alto che non passava i due metri, il più piccolo gli ottanta centimetri di una palizzata senza pretese.
“Pali da collezione” disse il vecchio seduto su uno sgabello da campeggio. Forse rispondendo al mio sguardo interrogativo aggiunse: “Hanno tutti in comune di essere stati gettati su una spiaggia dal mare”. “Quale” mi scappò detto. “Ce ne sono da tutti gli angoli del mondo, che cosa cerca in particolare?”. Ho forse l’aria di qualcuno che colleziona pali portati dal mare ? pensai. Come se mi avesse letto nel pensiero, il vecchio continuò. “Quelli che la potrebbero interessare sono da questa parte, sono pochi e rari quelli che vengono dalle acque fredde”. Me ne volevo andare, invece mi volsi verso la direzione indicata dal vecchio.
C’erano tre pali di modeste dimensioni. Il vecchio si era alzato e li scrutava. Poi, ne sollevò uno e lo pose a fianco a me. “Questo è più o meno della sua altezza, sembrate fatti l’uno per l’altro”. Era serio. Sarei voluto andarmene ma rimanevo lì. Il palo era grigio come le anatre cinerine. E incredibilmente liscio come se fosse stato laccato. “Glielo posso consegnare” disse. “Quanto vale un palo da collezione” sussurrai imbarazzata. “Non hanno prezzo” cominciò, lo interruppi nel mio pensiero: ma perché dovrei starlo a sentire. Intanto lui continuò, “sono le uniche cose che non vendo, scelgo io a chi affidarli, sono io che li ho raccolti”. “E che cosa ne dovrei fare?” sentii che dicevo. “Ne faccia quello che vuole, ma non è buona legna da ardere” mi guardò attraverso occhi che dovevano essere stati blu. Tirai fuori un vecchio scontrino sbiadito e scrissi il mio indirizzo. Il vecchio disse che avrebbe potuto consegnarlo in serata.
Attraversando un piccolo parco nella luce chiara del pomeriggio, ripensavo a quel palo ma anche a tante altre cose, a come si possa collezionare pali, reali o metaforici. Tanto valeva averne uno vero. Tirai un sospiro di sollievo. Rientrai a casa, la luce entrava obliqua da ovest. Preparavo la cena quando suonò il videocitofono. Sul piccolo schermo vedevo il palo. Il vecchio lo posò in giardino e andandosene disse “buona fortuna”.
Il mio giardino corrispondeva a un piccolo cortile con bordure di piante arbustive messe a terra e altre piante e fiori in vaso. Non avevo prato, ma un selciato di pietra e una pedana di legno nella veranda aperta. Il grigio del palo e del selciato si fondevano, dietro la clematis era in fiore. Tornai in cucina. Non pensai più al palo.
I giorni passavano. L’occhio mi cadeva sul palo, immobile ma a suo agio nel cortile. Sembrava essere sempre stato lì. Mi ritrovai a osservarlo da vicino. Rari nodi e un graffio che cominciai a scavare. Entrai in una specie di trance scultoria, rispolverando tecniche e nozioni di un mio passaggio a una scuola d’arte. Usavo scalpelli piccoli o minuscoli, carta vetrata finissima e cera d’api. Non avevo schizzi, né idee prese a prestito da foto o giornali. Semplicemente, mi sfogavo su quel palo mentre i miei pensieri si muovevano in libertà. Non mi chiedevo dovevo volevo arrivare. A fine giornata, non facevo mai due passi indietro per contemplare il mio lavoro. La fine era sempre repentina, giravo sui tacchi e rientravo in casa. Mi dedicavo ad altro. E se lavoravo intorno a piante e bordure, non guardavo il palo. Quando lavoravo al palo, non guardavo nient’altro. Passò tutta un’estate così. Nel mattino di una domenica d’inizio autunno, chiusi il barattolo di cera con una sensazione di compiuto. Feci finalmente tre passi indietro.
“Oh boy” mi venne alle labbra l’esclamazione usata dalla signora con cui stavo in casa quando ero studentessa. Di fronte a me c’era l’ultimo dei mohicani. Il palo era diventato un totem, il mio. All’estremità inferiore avevo scolpito un mucchio di pigne, le potevo quasi prendere in mano tanto sembravano vere. Sentivo il profumo delle pigne tra cui avevo camminato in un giorno lontano. Una lacrima mi scivolava in bocca. All’estremità superiore c’era un ramo di foglie d’ulivo. Era stato difficile riprodurle, erano ben più spesse che nella realtà. Ma il legno era di un grigio-verde sottile, avevo passato la cera e poi ancora leggermente grattato con la carta vetrata. Circa a metà erano uscite due mani, un palmo aperto e un pugno chiuso. Fuori e dentro, ti prendo, ti spingo. Coraggio e paura. Poggiai la mia mano nel palmo di legno aperto che avevo lasciato grezzo, le lacrime bagnavano le labbra e dovetti asciugarle con quello che avevo, forse la manica della felpa. Al posto del cuore, avevo tracciato stelle di cielo e di mare. Le parti restanti erano coperte da segni geometrici, in libertà, simmetrici e asimmetrici. Ora, che cosa ne avrei fatto?
Il mio pensiero iniziale si mise in letargo per tutto l’inverno, poi, com’è naturale, si svegliò a primavera. In una fresca mattina di maggio, caricai il totem su una macchina presa a noleggio e partii. Guidai per ore, fermandomi quando c’era qualcosa di nuovo per cui guardarsi intorno. Ne vidi di cose nuove e anche di cose con occhi nuovi. Mi sentivo emozionata ma presente. Il paesaggio scorreva come la strada, e come i miei pensieri. A un certo punto diventò più familiare. L’emozione aumentava ed io per momenti ero più nel passato che nel presente, ero nel ricordo. Dovetti accostare perché l’emozione velava i miei occhi. Rimasi per un tempo indeterminato a scrutare l’orizzonte finché mi sorprese l’ultimo sole. Arrivai a destinazione che era già buio.
Avevo prenotato in un minuscolo bed and breakfast leggermente fuori mano. La camera era un nido caldo e confortevole. Avrei potuto vivere lì per un po’, fuori dal tempo. Come Thoreau a Walden Pond. Dormii profondamente. Al mattino, feci una ricca colazione servita da una signora in costume tradizionale. Ma non ero a Walden Pond e il palo mi aspettava nel bagagliaio della macchina.
Era ancora presto e l’aria era tersa, il cielo turchino. Feci una sosta alla panetteria, i fornai erano infarinati e in maniche corte, la commessa mi diede brioches, focaccia, pane e grissini. Non avevo saputo resistere. In macchina, il profumo era ancora più irresistibile e nonostante le curve, pizzicavo focaccia dai sacchetti. Parcheggiai e presi il sentiero. Il palo era rimasto al suo posto, mentre nello zaino avevo infilato acqua e qualcuna delle ghiottonerie. Camminai per un po’ nel silenzio alternato di bosco e radure. Sentivo dei fruscii ma nessun animale si faceva vedere.
Finché arrivai alla panchina sotto i larici, un tronco ammezzato che portava i segni di tutto il tempo che aveva passato sdraiato. Ero già stata lì, anni prima, nella stagione dei larici rossi. Mi sedetti e rimasi immobile, forse per ore, osservando lo scorrere della vita fuori e dentro di me. Il gioco della luce tra i rami, la pressione della corteccia del larice sulla mia schiena, il panorama immobile in lontananza, il panorama dai movimenti appena percettibili: piccoli personaggi come macchie colorate, piccole vetture dagli specchietti che curvando incrociano il sole, delle rondini, qualche ciuffo di nuvola spostato dal vento. L’aria che si scalda sulle mie mani, lo stomaco che borbotta, delle immagini che scorrono, dei pensieri, delle voci, dei ricordi. La marmotta che si aggira lentamente sul prato più in là, il profumo del bosco, gli uccelli che strusciano le ali e hanno dialoghi discreti. La luce che gira, le ombre che si spostano. Le mani sul tronco liscio. Liscio come il palo, in macchina.
Ripresi il sentiero e mi sedetti più tardi su una pietra, al sole, a un altro belvedere, sorseggiando l’acqua alla fresca temperatura ambiente, la sentivo scendere e sembrava il ruscello che avevo scavalcato poco prima. Mangiai con gusto la focaccia leggermente salata, la brioche gonfia e deliziosamente vuota, sgranocchiai i grissini al cioccolato. Lentamente tornai sui miei passi.
Aprii il bagagliaio, accarezzai il mio palo. Mi ero portata dietro un carrellino comprato dal gigante della grande distribuzione per la casa. Ne avevano d’idee geniali per rendere la vita un po’ più semplice. Chiuso, il carrellino era grande come un banale computer portatile. Lo aprii e ci sistemai sopra il palo. Se qualcuno mi avesse visto, avrebbe forse pensato che ero una matta di mezza età. Se solo tutti potessimo ricordare quanto le apparenze ingannino, a volte, mi dissi. Ma non c’era anima viva, almeno non a occhio nudo. M’incamminai verso i larici tirandomi dietro il palo sul carrellino. Avrei fatto meno fatica che portarmelo in spalla.
Mi sedetti sul tronco ammezzato dopo aver fatto scendere il palo e dopo averlo messo dritto di fronte al panorama, sotto i larici, accanto a dove sedevo io. Restammo a guardare l’orizzonte fino agli inizi del tramonto. Sgranocchiai l’ultimo grissino e decisi di lasciare il palo lì, sotto i larici, con tutto il mio bagaglio di vissuto scolpito simbolicamente nella sua fibra. Piegai il carrellino e tornai alla macchina e al bed and breakfast. Come mi aveva proposto al mattino, la signora mi fece trovare una minestra calda di porri e patate e un piatto di formaggi locali con pane nero. Tirai fuori il pane comprato al panificio. Mangiai con appetito, poi mi ritirai nella camera che era uno chalet in miniatura, feci una doccia calda e mi coricai esausta.
Per qualche giorno girai nelle valli circostanti. C’erano posti che non conoscevo, passeggiate semplici che non avevo mai fatto. Scelsi anche un castello che non avevo ancora visitato. Il mio tempo lì stringeva, il mio cuore anche. A metà pomeriggio dell’ultimo giorno, m’incamminai verso i larici. Il sentiero curvava liscio, entrava e usciva continuamente dal bosco. Dopo una di queste curve, il bosco si ritirava un po’ indietro a voler lasciare spazio ai larici. S’intravedeva il palo a distanza. Sembrava che qualcosa vi penzolasse. Il mio cuore batteva e mi avvicinai praticamente di corsa.
Sul palmo aperto del totem c’erano parecchi lamponi. Al pugno chiuso, era appeso un piccolo sacco di canapa. Dentro, racchiusi tra pezzi di carta velina, c’erano dei bucaneve e delle stelle alpine essiccati. Mi guardai attorno, stetti in ascolto. Solo silenzio. Solo il battito accelerato del mio cuore. Respirai a lungo. Poi mi sedetti. Assaporavo i lamponi e guardavo il tramonto con il sacchetto di canapa stretto intorno al polso. Il sonno doveva avermi sorpreso così. All’alba mi svegliarono gli uccelli. Ero coricata sul tronco ammezzato e qualcuno mi aveva coperto con un caldo plaid a scacchi. Mi buttai su e appoggiando la mano sul tronco nudo oltre il limite occupato dai miei piedi per non cadere, sentii il calore di qualcuno che era appena stato lì, forse a vegliare il mio sonno. Mi guardai attorno, stetti in ascolto. Solo gli uccelli erano già svegli.
Decisi di lasciare il palo, piegai con cura il plaid che posai sul tronco e partii. Anno dopo anno tornavo sotto i larici, a ogni stagione. Il palo non c’era d’inverno, il luogo era raggiungibile con le ciaspole e mi accontentavo di guardare i larici spogli coperti di ghiaccio e neve. Ricompariva ogni mese di maggio, nel giorno in cui l’avevo portato la prima volta. La prima cosa che facevo arrivando era andarlo a trovare. Il primo giorno era ad aspettarmi vivo e immobile. I giorni successivi, il palmo o il pugno portavano sempre qualcosa. Delle piccole cose che mi piacevano tanto. D’estate, a volte trovavo anche il plaid, piegato con cura come l’avevo lasciato io. Allora, sapevo che potevo dormire lì ed erano i miei sonni migliori, i più profondi, senza sogni e senza pensieri. Mi svegliavo e ai miei piedi c’era la traccia calda di qualcuno che aveva vegliato su di me. Sapevo che il palo era in buone mani.
Il sapore di una ricerca di sé, misteriosa e affascinante.
un racconto quasi ipnotico
Laura, grazie di cuore.
Marzia, ho letto tutti i tuoi racconti: ti ringrazio per averli scritti. Sono bellissimi. Hai la rara dote di avvolgere il lettore in una poeticissima tela di ragno da cui non può e soprattutto non vuole scappare fino alla fine. Difficile dire quale mi è piaciuto di più. Un’antologia, ci vorrebbe.
Sara, grazie di cuore.