Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “A piedi nudi” di Rossella Lalli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

“Pensa in questo momento quanto mi ami – mormorò. –Non ti chiedo di amarmi sempre così, ma ti chiedo di ricordare. Nascosta dentro di me ci sarà sempre la persona che sono stasera.”

Francis Scott Fitzgerald – Tenera è la notte

                                                                                    

Aprire gli occhi. Muovere prima un piede, e poi un altro, e poi un braccio e poi anche l’altro, perché in fondo sono semplici, quasi banali gesti in sincronia mattutina. Prendere coscienza di possedere un corpo e un cervello, i primi pensieri che iniziano a saettare per la testa come petardi impazziti, in attesa che qualche angolo della mente li rimetta pazientemente in ordine, nella loro fila ordinata, come il ticket in coda dal macellaio.

In fondo tutte le cose hanno bisogno di ordine. O meglio, avrebbero…dovrebbero essere ordinate, le cose. Così smetterebbero di attraversarti prepotenti la vita, scombinandotela senza un minimo di preavviso. E ci vorrebbe anche un preavviso. Prima di un cambiamento, intendo. E non un semplice cambiamento, no, non di quelli..”mi metto il frontino rosso..anzi no cambio, meglio quello bianco”…no. Io parlo di cambiamenti veri, di quelli che quando accadono ti fanno sbattere le palpebre, balbettare forse sì e no due parole…e poi te le tolgono, le parole. Lasciandoti in uno strano, misterioso e incomprensibile mutismo.

Dove sono le mie parole?

Perché non riesco più a trovarle?

 

Paola guardò nel cesto della biancheria sporca. Nemmeno lì.

Accidenti.

“Un trinity è per sempre.” Bene, e allora perché gli slogan pubblicitari, così rassicuranti e invoglianti, non intervengono in questi casi e rendono quel trinity davvero “per sempre”….invece di disseminarlo in chissà quale recondito angolo della casa?

Mandò mentalmente a quel paese i pubblicitari e si rimise a cercare l’anello.

Luca se ne sarebbe accorto….e non avrebbe detto niente. Probabilmente no, non avrebbe detto nulla, assolutamente nulla. Si sarebbe limitato a chiudere gli occhi scuotendo la testa, come per dissentire a qualche pensiero che gli era venuto improvvisamente in mente…e poi li avrebbe riaperti e le avrebbe sorriso. Tranquilla cara, riuscirà, le cose non spariscono mai…e altrimenti pazienza…c’è sempre la garanzia. E te ne regalerò un altro più bello.

E lei avrebbe obiettato…no. Non avrebbe obiettato. Si sarebbe semplicemente limitata a fare un cenno del capo, mesto e un po’ sottomesso forse…conscia di aver sbagliato. E dire che odiava sbagliare, soprattutto con lui che le perdonava tutto. Si sentiva impotente, quando si trovava di fronte a lui. Quando toppava e lui le dava ragione, quando aveva torto e lui non la rimproverava. Eccessivo buonismo, eccessivo amore…eccessivo. La parola, l’aggettivo il sostantivo giusto, per un qualcosa che lei non riusciva ancora a definire.

Avrebbe voluto avere qualcosa da obiettare, in quel caso, quando lui sarebbe tornato.

Avrebbe voluto potersi arrabbiare e dirgli “ti prego, sgridami..questa volta ne ho fatta una grossa, perché….”…perché sei lì e non parli, e mi guardi, e non dici niente?

Serve perdonare sempre?

Paola si sedette sulla sedia del tavolo della sua nuova cucina consegnata da appena una settimana, e scoppiò a piangere.

E mentre una lacrima le scendeva intorpidendole le ciglia, in controluce vide la superficie del trinity profilarsi sul tavolo di noce.

 

Il vagone del treno puzzava di alcool e merendina ammuffita. Tipico di un vagone di terza classe. Eppure lei questo non riusciva nemmeno a notarlo, benchè quasi tutti i restanti passeggeri cercassero di trattenere una smorfia di disgusto.

Tornare al suo paesino le faceva sempre uno strano effetto. Cercò di ricordarsi dei dettagli, dei ricordi non più ricordati e dei suoni non più ascoltati. Degli odori non più sentiti da tanto, troppo tempo… .

Luca aveva insistito per farle prendere la sua macchina d’azienda privata, ma lei non aveva voluto. Avrebbe fatto il viaggio in treno come tutti, come aveva fatto la prima volta che era andata a Roma a cercare un appartamento, quando aveva diciotto anni, e non era più tornata. La valigia blu sbiadita, la ricordava come se fosse adesso, spinta su quella retina incerta sopra la sua testa, il finestrino mezzo aperto perché era rotto e tutto non si apriva. Il caldo, le mamme che portavano i figli urlanti e rossi in viso al mare, i cestini del pranzo che odoravano di speck e emmenthal. E tante, troppe cose stipate in una valigia di ricordi e sensazioni, che aveva deciso di abbandonare quando era scesa da quel treno e aveva respirato l’aria di una stazione Termini sul far della sera, in una placida e remissiva domenica di settembre. Quando tutto sembrava incerto, eppure così inebriante e diverso, nuovo, colorato e splendente.

Le cose da giovane le sembravano sempre colorate. Le avevano insegnato a guardare il mondo come filtrato attraverso un caleidoscopio, e si era abituata a vedere il colore anche nei momenti più bui, di quelli dove ti sentivi più persa e senza boe a cui aggrapparti.

Roma le era sembrata colorata. E adesso che la stava lentamente lasciando, per tornare a casa nel suo dolce e collinoso paesetto, le sembrava sempre più bianca e nera. Che le stava succedendo? Dove erano finiti i suoi colori?

Guardò l’anello al suo dito e pensò a Luca. Lo immaginava lì, nel suo ufficio, nel vestito importante circondato da persone con vestiti altrettanto importanti, che contemplava compiaciuto il progetto di qualche fabbrica o centro commerciale che sarebbe stato costruito di lì a poco. E non avrebbe guardato fuori dalla finestra, l’enorme finestrone che aveva alle sue spalle, da cui c’era una stupenda visuale di una Roma di inizio lunedì, che si agitava frenetica e impaziente nel traffico e nei fumi, nel via vai e nel trambusto delle undici di mattina. Lui non guardava mai dalle finestre, diceva che la contemplazione di  un paesaggio gli impediva di concentrarsi come avrebbe dovuto.

Gli sarebbe piaciuto il paese? Quando sarebbe arrivato, di lì a due giorni, con la sua Rolls-Royce carica di progetti e valigie, di un vestito nuziale e polsini inamidati, l’avrebbe amato? Pensato e ripensato come lei, desiderato, come aveva fatto lei i primi anni di vita romana, prima di incontrare lui, quando viveva in un monolocale in affitto in un angolo di Via Bologna?

L’avrebbe ricercato con la mente, come faceva lei adesso, guardando dal finestrino verso un ammasso di colline, sole e nuvole?

E lei, la quasi-sposa di un ricco e noto industriale romano…l’avrebbero riconosciuta dopo dieci anni?

Che cos’erano dieci anni di ricordi e nostalgie?

 

Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. A dirlo era Montale, ma il pensiero le ritornò in mente come un fotogramma improvviso e freddo, le scivolò tra i nervi e le pulsò nelle vene. Le era sempre piaciuto Montale, lo trovava..così vicino. Così simile. Lo capiva, la capiva, si capivano, e anche in una semplice parola di una poesia di “Ossa di seppia” aperta a caso, aveva sempre saputo ritrovare qualche cosa di se stessa.

Stava perdendo ogni capacità contemplativa ormai. Una volta le piaceva sedersi su un sasso, chinarsi e raccogliere le ginocchia tra le braccia, e poi guardare fisso davanti a se. Sterminate pianure verdeggianti, con il grano giallo e dorato che lambiva le gonne di qualche contadina che portava a spasso il nipote tra le spighe. La sua prima passeggiata tra le spighe l’aveva portata a perdersi, a finire nel campo di un vicino e a smarrirsi dopo qualche metro nel recinto di una casa diversa dalla sua. Ma il vicino aveva un figlio, un figlio dolce, un figlio gentile anche se a prima vista un po’ scorbutico e silenzioso, quasi imbronciato, ma che in alcuni imprecisati, indefiniti e quanto mai improvvisi attimi, le sorrideva e non parlava. La guardava e basta. E a lei bastava per capire che anche nelle persone all’apparenza più fredde e distanti, si nasconde qualcosa che ce le fa sembrare più vicina. Che ce le rende amiche. Che ce le rende simili,e amate.

Avevano passato il pomeriggio a bere latte e a mangiare biscotti al cioccolato appena sfornati, guardando Tom e Jerry in tv, senza parole, senza sillabe vocali o lettere, solo con gli sguardi. Sguardi, cioccolato, e un po’ di strana complicità; di quelle che nascono quando c’è affinità elettiva.

E poi il padre finalmente l’aveva ritrovata e riportata a casa, sgridandola per essersi persa così scioccamente, e per non aver chiesto subito il telefono per chiamare a casa, lasciando i suoi in una strana, molle e fiacca preoccupazione.

Paola guardò fuori dalla finestra della sua camera. Come era strano ritrovarsi lì, dopo dieci anni, agli esordi di una nuova e futura, felice vita…e pensare a Guido.

Guido, il vicino dei biscotti al cioccolato, Guido, quello che l’aiutava con i problemi di algebra, quel Guido che ogni fine settimana la passava a prendere con la Panda per andare in città a vedere qualche strano balordo horror appena uscito al cinema. Quel Guido lì insomma, quello che non capivi perché non potevi capirlo, perché non si lasciava capire. Perché agiva in modi che sempre e comunque ti sfuggivano, a volte spariva per settimane intere lasciandoti lì a chiederti…ma dove sarà? Come sta?, e poi riappariva improvvisamente con la sua Panda e ti diceva se avevi voglia di andarti a vedere Venerdì 13 al cinema.

Un Guido che a tratti svaniva, evanescente e vago, il Guido che però, quando stavano insieme, la fissava e la calmava con un solo semplice sguardo.

Gli sguardi servono quando non bastano le parole.

Ma…quando non bastano più nemmeno quelli?

Iniziò a piovere, e Paola chiuse la finestra, mentre una fila di donne e uomini eterogenei e colorati scorreva nel giardino di casa e si avvicinava sempre di più, venuti a trovare la sposa.

La sposa….quale sposa?Ah già…me.

 

Guardando una fotografia, scorgi persone e bagliori, riflessi di persone che erano e che magari hai dimenticato, profili di persone che credevi di aver perso e di persone che speravi di non perdere mai, e che invece magari, chissà come, erano sparite lasciando dietro di sé solo una scia di polvere e un’immagine sbiadita in un riquadro di carta scovato in un vecchio album delle superiori.

Guardando quella fotografia, Paola chiuse per un attimo gli occhi, come nella vana speranza di poter riafferrare ombre di passato da un misterioso cilindro e farle rivivere, farle danzare davanti a lei per farsi dire che no, non aveva sprecato quegli anni inseguendo una chimera della gioventù, non era arrivata a ventott’anni senza passato, senza futuro e, la cosa peggiore…senza presente. Ma dov’era il suo presente?

“Cos’è…insonnia da matrimonio imminente?”

Paola si voltò e lo guardò. E le sembrò naturale che in quell’esatto momento lui fosse lì. Come se non fossero passati dieci anni, come se fosse stato solo ieri che lui l’aveva accompagnata con la sua panda davanti la porta di casa, l’aveva guardata con quell’ultimo sguardo che si rivolge a chi hai la certezza non rivedrai mai più, e l’aveva baciata.

Le sembrò…ovvio. Che lui fosse lì per reggerla, per non farla cadere, per non farla annaspare e affogare in quel mare di incertezze e personaggi sbiaditi di una vecchia foto abbandonata.

“Sei qui.” Gli sorrise. E poi corse in un lampo ad abbracciarlo.

Guido la strinse respirando i suoi capelli, con quell’odore di balsamo alle pesche che lei usava sempre.

La allontanò un attimo da sé e la fissò per un minuto, cercando di rintracciare in quel volto i tratti che così bene ricordava, che gli erano rimasti impressi nella mente per tutti quegli anni come un bassorilievo scolpito, come un disegno indelebile. Era proprio lei,non era cambiata di una virgola, la città eterna e cosmopolita non ce l’aveva fatta a farle sbiadire quel sorriso aperto, quegli occhi accesi e azzurri, quei ricci castani che non volevano saperne né di lacchè e né di balsami, e che andavano un po’ come volevano di qua e di là.

“Sono qui.”

Si guardarono per un po’ in silenzio, tenendosi per mano come due ragazzi delle medie, e poi si sedettero sui gradini di pietra della casa di Paola.

“Allora, neo-sposina…dopodomani ti sposi. Come ti senti? Su, regalami una delle tue adorate “first impressions.”

Paola rise pensando a come lui si ricordasse ancora la sua fissa per Jane Austin, e a come lo avesse costretto a mandar giù Mansfield Park in una sola settimana. Impressa che rasentava l’impossibile per ogni ragazzo…specialmente se quel ragazzo era lui.

“Bè…direi che…mi sento. Mi sento come se dovessi buttarmi da un fosso ma questa volta senza paracadute o laccio elastico.”

“Bè..allora ti senti perfettamente normale.” Guido rise e la guardò negli occhi, che brillavano di impazienza e felicità per qualcosa di ritrovato, come di atteso da tanto tempo e finalmente ripescato dal passato.

“Seriamente…stai bene?Dimmi solo questo, e starò bene anche io.”

“Sto bene.”

“Ok.”

“Ok.”

Silenzio. Un silenzio ovattato, fatto di tante e troppe cose, indicibili e a volte magari anche strane…ma loro. Era un mondo che solo loro conoscevano, che si creava tra loro due non appena il silenzio calava. Un mondo in cui lui poteva trasmetterle qualsiasi suo pensiero senza parole, senza cenni, senza movimenti o impacciati balbettii. Un mondo in cui lei lo capiva appieno, senza riserve, senza dubbi o cedimenti.

Era loro…lo era stato. Ma adesso?

“…perché sei partita?”

Era quella la domanda che lei stava aspettando. Inevitabile, eppure certa.

Lo guardò, e nel suo sguardo si perse, come se avesse atteso solo quello smarrimento per poter capire pienamente se stessa….le ragioni delle sue scelte, dei suoi tanti troppi sbagli, delle sue paure. In quello sguardo si era sempre ritrovata, lei e le soluzioni ai suoi mutevoli problemi. Capì che doveva rispondere.

“Perché…perché ero in trappola. Me lo sentivo..c’era qualcosa intorno a me che mi soffocava, che non mi faceva respirare. Stavo cadendo…”

“E io, che c’ero a fare?Perchè non hai chiesto aiuto…a me?”

“..perchè…avevo paura.”

“E di cosa?”

“Dei tuoi silenzi. Di perdermici…ancora di più. Io dovevo andarmene e vedere cosa c’era oltre questo paese, oltre…oltre questo.”

“Oltre noi.”

“Non ho detto questo.”

“E hai trovato lui…questo Luca.”

“Non ho detto nemmeno questo.”

“Sì che l’hai detto…lo dici tuttora stando qui, lo dici sposandoti con lui.”

Si alzò di scatto, lasciandole la mano che aveva tenuto tra le sue per tutto quel tempo.

“Guido…”

“…rientra…qui fuori si sta facendo freddo.”

Lo guardò allontanarsi e capì che anche quel silenzio tra di loro si era rotto, lasciando frammenti di amore e rimpianto a fondersi in una fredda e disarmonica nostalgia.

 

“Paola, muoviti, è già mezz’ora che la sarta aspetta di sopra!”

Paola si tolse il trench azzurro e lo attaccò nell’appendiabiti all’entrata, mentre sua madre scendeva le scale rapida, a passetti svelti. Sua madre era sempre stata così; la ricordava muoversi con quei suoi passetti svelti,tenaci e sempre pronti a correre in aiuto di qualcuno che lo chiedesse, senza aspettare ed esigere niente. Era veterinaria in un piccolo ambulatorio di un paese lì vicino, e da piccola Paola si vedeva di tanto in tanto arrivare bestiole del più diverso tipo a casa, bisognose di aiuto e affetto. Paola si era sempre chiesta se anche Guido fosse qualcosa di simile…una bestiola bisognosa di aiuto. E se sua mamma, sempre così dolce e materna con cani, gatti e ricci trovati per strada, lo sarebbe stata anche con Guido, che non le piaceva neanche un po’.

Lo giudicava freddo, distaccato e anche un po’ snob. Ma era quello il problema, che lei lo giudicava. Mentre Paola….bè, lei lo capiva. Era qualcosa alla Goethe. Erano affinità elettive. Inspiegabili, ma potenti, misteriose ma determinanti nel dirigere la vita di un individuo verso scelte diverse da quelle a cui aveva puntato in partenza, scelte che non aveva incluso quando aveva pianificato la sua vita fin nei minimi dettagli.

Ma sua madre l’aveva sempre capita, anche quando aveva soltanto giudicato. E adesso, chissà se la capiva. Chissà se si chiedeva il perché dello sguardo smarrito della figlia, il perché di quell’espressione malinconica dopo essersi incontrata con il futuro sposo appena arrivato in paese, con quel Luca che era piombato nella sua vita e gliel’aveva stravolta…e cambiata. In meglio. Ma secondo chi?

Paola le sorrise, un sorriso teso e stanco, e salì al piano di sopra con lei per la prova finale dell’abito da sposa.

Quando la sarta se ne andò, facendo i suoi migliori auguri e tante care cose a sposa e famiglia,e la mamma l’accompagnò tentando di bloccarla ogni due metri per offrirle un tè, un pasticcino, un crodino o anche un semplice confetto, quando tutto questo fu finito e i convenevoli abbandonati con un sospiro quasi di sollievo, Paola si guardò allo specchio.

Guardò il lungo abito di seta bianco, stretto al seno da una filo di perle, guardò i lunghi guanti di pizzo affusolati, e guardò il velo di raso trasparente che le copriva il volto come a mascherare i suoi difetti e le sue paure.

Si avvicinò lentamente alla finestra e guardò fuori, verso un oltre indefinito e lontano, e poi più giù, più in basso, cercando qualcosa su cui focalizzare gli occhi per evitare di far vagare il pensiero troppo liberamente, disarcionato e senza controllo.

Guido la fissò di rimando, seduto sul recinto che separava i giardini delle loro rispettive case, e si perse oltre quel velo bianco, troppo intimidito da tutta quella bellezza e radiosità per poter articolare anche solo una parola. Lei gli sorrise, come a rispondere ad un suo sorriso non mostrato, ma pensato. Perché la sua mente era per lei un libro aperto, lo era sempre stato.

Paola sospirò, e andò a togliersi il velo per tornare alla realtà che c’era oltre.

 

Dopo il secondo giro di grappa, che aveva gentilmente rifiutato per evitare di svegliarsi con un’emicrania lancinante il giorno del suo matrimonio, e dopo aver guardato con un mezzo sorriso Luca che giocava con il suo cugino di appena due anni pensando a che tipo particolare di padre ne sarebbe venuto fuori, Paola uscì fuori in veranda a prendere una boccata d’aria.

Il cielo era terso e blu, splendente di milioni di puntini gialli più o meno luminosi, con qualche nuvola che si radunava a branchi e si sfilacciava verso un orizzonte pallido e distante. Lasciò le scarpe sul tappetino della porta d’ingresso e fece qualche passo sul prato a piedi nudi, come faceva sempre quando era piccola e suo padre aveva innaffiato tutto il giardino, dopo aver passato il tagliaerba.

“Dove sei?”

“Sono qui.” Guido uscì da dietro un albero di fichi, quello da cui lei lo aveva visto uscire in  tante sere di dieci anni prima, quando si davano alla fuga sulla sua Panda verso la città, ovviamente il tutto all’insaputa dei suoi, che la credevano a casa di Maria a fare la versione di latino.

“Come stai?” La sua domanda la colse di sorpresa, come se non se l’aspettasse.
“Ti interessa?Ieri non sembrava.”

“A me interessa sempre…solo sapere come stai tu.”

“Perché non mi hai mai cercato…non mi hai mai chiamato quando…”

“Ogni volta che facevo il tuo numero era come…come se non riuscissi più a respirare. Mi si annebbiava la vista, era come non vedere più. Era non voler vedere, ora che ci ho ragionato dopo tutto questo tempo. Non volevo vedere, non volevo capire che te ne eri andata per chissà quanto tempo e sentire la tua voce…altrove. Preferivo continuare a pensare che eri lì, a fianco a me, e che quando avrei voluto sarei potuto passare e darti un colpo di clacson e tu saresti scesa, e tutto sarebbe stato come prima…come sempre. E riattaccavo il telefono. Abbastanza stupido vero?” Fece una mezza risata e la guardò, ma Paola non parlava. Solo, lo fissava ed era come se capisse qualcosa a cui neppure lui era arrivato.

“Io ti voglio bene.” Lo disse all’improvviso, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo da dire in quel momento, in quell’esatto momento in cui lui era lì, il cielo era blu e le stelle brillavano come nelle loro nottate di tanti anni prima.

“Io no. Io ti amo. Ma lo hai sempre saputo.”

Paola spalancò gli occhi, ma poi tornò a fissarlo e provò a dire qualcosa. Solo che non ci riusciva, perché tutto quello che c’era da dire, come al solito, l’aveva detto prima lui, in quelle tre semplici parole che li avevano sempre legati e che costituivano la parte più bella, la più dolce e la più intima di quel silenzio che c’era sempre stato tra loro.

Non c’era mai stato bisogno di tante parole, perché le parole troppo spesso confondono, le parole annebbiano. L’avevano capito dal primo momento che si erano incontrati, in quel campo di grano tanti anni prima, e non erano mai venuti meno a quel silenzioso patto di silenzi e sguardi.

“Ti voglio bene.”

“Ma ami lui.”

“E’….complicato.” E lo era davvero, perché lei realmente amava Luca. Lo amava dalla mattina, quando lui entrava in punta di piedi con il caffè e puntualmente ne rovesciava metà sul piumino nell’inutile tentativo di non fare troppo rumore con le ciabatte; lo amava quando era arrabbiato o deluso per qualche motivo di lavoro, lo amava quando sorrideva e gli venivano quelle due rughette attorno alle labbra; lo amava quando la baciava e le diceva che non l’avrebbe lasciata mai, e che avrebbe pensato lui a smacchiare quel piumino al caffè. Lo amava come si ama una persona, lo amava come si ama qualcuno che hai deciso di sposare e con cui passare il resto della tua vita. Semplice.

“Non lo è in fondo…hai scelto.”

“No.”

“No?”

“No. Non potevo scegliere. Tu me l’hai impedito…con la tua lontananza. Con i tuoi silenzi, con quel freddo che a volte ti prendeva e non ti lasciava più, con quei brividi che mi davi. Con il tuo non parlarmi, con le tue scomparse improvvise, con le tue stranezze. Ma…è complicato. Perché…io lo amo, è vero. Ma tu…tu sei me, più di quanto lo possa essere lui. Siamo troppo simili per poter amarci come si amano le persone normali.”

Guido la guardò per un attimo e poi, come se d’improvviso tutto fosse chiaro, come se tutto fosse tornato a essere semplice e naturale, le sorrise. “Questo l’ho sempre saputo.  Che sei sempre stata l’unica e la sola a poter dire di conoscermi davvero. L’unica che mi capiva con uno sguardo. Semplicemente…l’unica parte di me con cui stavo davvero bene.”

Lo abbracciò, e lui la strinse forte, come l’ultima volta che si erano visti, e poi la baciò.

“Paola…sono malato.”

“Lei lo guardò senza capire. Non poteva capire. Non c’era niente da capire.

“…come?”

“Ho il cancro…me l’hanno diagnosticato qualche mese fa. Stadio avanzato….dicono che ci sia poco da fare. Sei l’unica a cui l’ho detto, non lo sanno nemmeno i miei.”

“No. Non è vero.”

“Paola, guardami…”

“No, non può essere, tu non puoi….” Lo allontanò mentre cercava di prenderle la mano, si coprì gli occhi mentre le lacrime scorrevano impazzite, impossibili da frenare.

“Paola…guardami.” Lei si sforzò di rivolgergli lo sguardo, tiepido e perso. “Domani ti sposerai. Non puoi stare così, non devi.”

“Io…”

“Domani mattina parto. Ho il treno alle otto…vado a Zurigo, mi hanno mandato in una specie di clinica privata in cui dicono mi potranno tenere meglio sotto controllo….bah. Ci credo poco…ma uno sforzo devo pur farlo. Ascoltami. “ Le alzò il mento con una mano e le sorrise, asciugandole le lacrime. “Domani dovrai essere la sposa più bella che ci sia mai stata in questo posto, capito? Fammi pentire per bene di non poter essere presente al matrimonio della persona a cui tengo di più al mondo.”

Paola stette in silenzio, guardando quegli occhi nocciola che non avrebbe mai più scordato. E poi, lentamente, fece un debole sorriso.

“Ci proverò.”

“Brava.” La abbracciò, e stettero così per un po’, senza dir niente, senza parole, navigando in quel loro silenzio che non avrebbero scordato mai, perché gli aveva dato tutto.

“Bè….che ne dici di andarci a vedere “Venerdì 13, atto due?”

Paola sorrise e guardò la Panda nera parcheggiata nel vialetto.

“Ti voglio bene.”

 

Tutte le cose che portiamo nel cuore sono, saranno sempre legate a qualcun altro. Le persone, le storie, i multiformi e cangianti spazi ed essenze, le sensazioni ed emozioni che proviamo, si intrecceranno sempre e porteranno le nostre vite a incontrarsi e, perché no, anche a scontrarsi.

Ma nello scontro c’è sempre qualcosa che ci riporta in vita, in superficie, che ci impedisce di annegare nel buio che a volte sembra troppo forte persino per noi.

Paola guardò fuori dal finestrino della macchina, verso un cielo azzurro e limpido inondato di sole e speranze mattutine. Strinse il libro di Mansfield Park che teneva tra le mani e posò lo sguardo sulla dedica di Guido, il disegno di un panda davanti ad un cinema, con due ragazzi appoggiati sulle sue zampe che ridevano mangiando biscotti e con gli occhi alzati al cielo stellato.

Luca ingranò la terza e imboccò l’uscita dell’aeroporto di Fiumicino , poi la guardò e le sorrise, prendendole la mano. “Sei radiosa.”

Lei gli sorrise di rimando. “E’ una bella giornata.”

“E’ la nostra prima giornata, direi.”

Paola toccò la fede sul dito; alzò lo sguardo e gli strinse la mano tra la sua, per poi posarla sulla copertina del libro chiudendola.

Una panda verde li superò e si allontanò sulla corsia e, mentre Luca borbottava qualcosa sui guidatori irresponsabili, lei sorrise e guardò il cielo oltre il finestrino.

Lui non sarebbe scomparso mai, non poteva. Ci sarebbe stata sempre una parte di Guido che lei avrebbe portato con sè, nel suo cuore.

Un aereo sfrecciò nel cielo, lasciando dietro di sé una lunga scia di fumo bianco, speranze e dolce silenzio.

 

 

 

 

 

 

 

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1 commento »

  1. ohh, romantico, antico, nostalgico.
    🙂
    mi è piaciuto, lento, dolce, soave, pieno di immagini nette.

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