Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “Alfa Romeo rossa” di Andrea Polini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Erano le diciotto e trenta quando Arturo Rinaldi aprì il portone del palazzo dove abitava e uscì sul marciapiede. Pioveva in modo fitto e insistente, e subito fu costretto ad aprire l’ombrello. Attraversò la carreggiata – era una stradina della periferia nord della città, in un modesto quartiere residenziale dove abitava da mezzo secolo ormai -, e giunto sul marciapiede opposto passò accanto ad un’Alfa Romeo rossa, un vecchio modello sportivo che una quarantina d’anni prima era stato molto ambito. Una pena al cuore lacerò l’anziano operaio, come ogni volta che usciva di casa e passava davanti a quell’auto parcheggiata là davanti da tre decenni, e che lui e la sua defunta moglie avevano idealmente trasformato in una sorta di sacrario in memoria del figlio Gianni morto negli ormai lontani anni Ottanta. Gianni amava molto quella macchina, ed anche se né lui né sua moglie avevano mai guidato l’avevano tenuta pagando regolarmente bollo e assicurazione. Giunto al termine della stradina, Arturo imboccò il marciapiede della strada che attraversava l’intero quartiere, dirigendosi sulla sua destra. Qui il traffico, a differenza che nella stradina laterale, era piuttosto intenso, i pedoni sul marciapiede, però, non erano molti. Ora Arturo aveva nel cuore una speranza che alla sua età lo faceva sentire un po’ ridicolo, lui che nella vita aveva affrontato tutti i più severi dolori, dalla perdita dei genitori a quella dell’amata moglie passando per la più straziante di tutte, quella del figlio. Talvolta dava un’occhiata alle vetrine dei negozi, soprattutto a quelle sul lato opposto della strada, e già pensava a quando sarebbe arrivato al bar e avrebbe visto Daniela, bella come sempre, bella più di sempre, mentre serviva i caffè e le paste con la consueta grazia ed eleganza. Era la donna che a settantacinque anni di età gli aveva nuovamente messo addosso un’inaspettata voglia di vivere, addirittura una gioia di vivere quasi adolescenziale che lo portava ogni sera a cenare alle diciassette e trenta per poi andare a prendere il caffè nel bar dove lei lavorava, distante un paio di chilometri. Certo, era consapevole di non essere un granché come partito, era anziano, un po’ sofferente, ma aveva dei risparmi ed era considerato da chi lo conosceva una brava persona. Pochi minuti dopo attraversò il viale più importante del quartiere, che tagliava perpendicolarmente la strada che stava percorrendo. Sul viale c’era un gran traffico, come ogni sera del resto, e pur attraversandolo sulle strisce pedonali si sentiva un po’ a disagio perché ora pioveva anche più forte e l’ombrello gli toglieva anche visibilità col rischio, pensava, di vedersi piombare addosso uno di quei pazzi in auto o in moto che correvano come fulmini, neanche avessero avuto da andare chissà dove, neanche, si diceva, avessero dovuto anche loro andare incontro ad una luce come Daniela. Ormai si era lasciato alle spalle il suo quartiere, e camminava verso il bar accompagnato dalla dolce allegria che contraddistingueva gli innamorati. Mentre percorreva l’ampio marciapiede punteggiato da giardini con alberi ed aiuole che fiancheggiava l’ospedale cittadino, si domandava se un uomo come lui, vedovo da appena due anni e gravato dal lutto perenne per la morte del figlio a soli venticinque anni per overdose, avesse il diritto di sentirsi così ringalluzzito, pieno di progetti per un avvenire giocoforza non lungo, e subito gli vennero alla mente i quasi trent’anni in cui insieme a sua moglie ogni domenica andava al cimitero comunale a piangere sulla tomba di Gianni, gli sembrava di udire i loro discorsi sempre uguali, carichi di disperazione e di nostalgia, davanti a quella lapide dove non mancava mai un mazzo di crisantemi freschi, sentiva ancora la loro voce quando maledicevano la piega che stava prendendo questo mondo, con le sue ingannevoli illusioni, gli spacciatori di morte sempre più numerosi che approfittavano dell’ingenuità, della voglia di trasgressione, del crescente senso di inadeguatezza e di frustrazione che affliggevano le giovani generazioni. Era così grande il loro dolore, ricordava, che erano poche le notti in cui facevano l’amore. Poi anche Anna era morta, lei ormai non più giovane, portata via da uno di quei tumori che sembravano anch’essi prosperare in questa età moderna che sempre più gli appariva malvagia. Ma poi aveva conosciuto Daniela, una conoscenza superficiale ma potente al punto da cambiare radicalmente la sua vita interiore. Gli era bastato entrare nel bar una mattina a prendere un cappuccino dopo essersi fatto gli esami del sangue perché la vita con le sue speranze, le sue illusioni, anche le più improbabili, esplodesse di nuovo in lui. Ed ora, passo dopo passo, sotto l’ombrello che lo riparava dalla fitta pioggia producendo un sordo rumore come di mitraglia, era ormai giunto per l’ennesima volta in prossimità del bar. Davanti alle vetrine illuminate con tenue luce ambrata, dove erano esposte molte confezioni di cioccolatini, biscotti e caramelle, chiuse l’ombrello inzuppo di pioggia, poi lo infilò nel portaombrelli vicino la porta ed entrò nel locale. I suoi occhi cercarono subito Daniela. Era dietro il banco, mora, sempre abbronzata anche d’inverno, alta e magra il giusto. Una gran bella donna, insomma. Cinquantadue anni così ben portati che avrebbe potuto dichiararne una decina in meno senza che nessuno potesse sospettare l’inganno. Dietro il banco, moderno ed elegante, oltre a Daniela c’erano le altre solite tre commesse, piuttosto carine, ma nessuna di loro aveva mai attirato l’attenzione di Arturo. Tutte erano impegnate a servire i tanti avventori, perlopiù persone che andavano a far visita a degenti dell’ospedale. Ad Arturo parve che quella sera, nonostante il maltempo, gli avventori fossero più numerosi del solito, o forse questa era una sua sensazione perché tutta quella gente, di fatto, gli impediva un approccio vero e proprio a Daniela. Da un paio di minuti aspettava il suo turno per farsi servire il caffè quando, inconfondibile, sentì la voce di Daniela “noi chiudiamo alle otto e mezza. Passa a prendermi, andiamo fuori a mangiare qualcosa”. Poi lei mimò un bacio. Arturo rimase interdetto, quasi non gli sembrava possibile che Daniela, la sua Daniela, si rivolgesse ad un uomo con simili parole e simili gesti. Era anche un bell’uomo, alto e brizzolato, di certo non superava i sessanta. Un tipo distinto, poteva essere un medico dell’ospedale. I morsi della gelosia gli serrarono lo stomaco, e poco dopo, quando fu il suo turno di essere servito, riuscì a malapena ad inghiottire il caffè, che peraltro gli servì proprio Daniela con un sorriso ed un saluto molto professionali ma freddi. Un tono generale che ad Arturo parve mortalmente freddo. Finito di bere il caffè non si trattenne un minuto di più nel bar. Anche l’uomo affascinante che quella sera sarebbe uscito con Daniela era andato via. Ma dopo, si disse, lui sarebbe tornato a prenderla e avrebbero passato la serata e forse, chissà, anche la notte, insieme. Arturo, invece, sentiva di averla perduta per sempre. Perduta anche se non era mai stata sua, perché aveva perduto quella gioia di vivere che incredibilmente gli era tornata addosso. Prese l’ombrello dal portaombrelli, lo aprì, poi uscì sul marciapiede battuto dalla pioggia come qualche minuto prima, anche se per lui ora era una pioggia dal ritmo triste, funereo, come lo era stata la sua vita per tanto tempo. Fino a quando non aveva conosciuto Daniela, ma ora tutto era finito. “Magari avessi almeno un cane a farmi compagnia,” pensò ad un certo punto quando ormai stava per attraversare il viale principale, ora un po’ meno trafficato di mezz’ora prima, che segnava il confine del suo quartiere. Proseguì poi sul marciapiede della strada che si inoltrava nel rione. Qualche negozio, adesso, aveva già abbassato la saracinesca, il brutto tempo non invogliava certo la gente ad uscire per un acquisto dell’ultima ora. Giunto infine nella strada traversa dove abitava si fermò un poco di fianco all’Alfa Romeo rossa di suo figlio. Un groppo ora gli serrava la gola. La carrozzeria, un tempo lucente, era in molte parti arrugginita, l’interno un po’ malandato. Gianni, lo sapeva, aveva comprato quella bella macchina, sia pure usata, perché era convinto che l’avrebbe aiutato a rimorchiare le ragazze, la sua vera passione. Ma Gianni, ai tempi, aveva poco più di vent’anni. Chissà, si disse Arturo, se fosse riuscito a stare insieme a Daniela magari avrebbe finito anche lui per comprarle una macchina carina, solo per farla felice. Sapeva che era un pensiero stupido, ora la sua vita sarebbe stata più che altro un guardare la lenta agonia dell’Alfa rossa, il suo lento disfacimento, e un macerarsi nei ricordi, nei rimpianti, nel rimorso di non essere stato un buon padre capace di difendere suo figlio dal demone della droga. Sarebbe andato più raramente anche al bar, ora anche Daniela apparteneva al passato, come tutta la sua vita che poteva osservare nella lenta morte dell’Alfa rossa che tanto tempo prima, per Gianni, fu un’illusione di vita, ed ora, per lui, era parte importante della sua vita malinconica che lentamente si spegneva, come questo pomeriggio triste.

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2 commenti »

  1. Un racconto che parte triste e finisce peggio. La speranza che complica le cose. Il tempo che le logora.
    é un quadro senza possibilità.
    Ben scritto.

    Se ti va passa a leggere i miei racconti, mi farebbe piacere.

  2. Io sono una fan dei racconti tristi e drammatici, della storie che trasmettono dolore e sofferenza ad ogni riga, e devo dire che da questo punto di vista il tuo lavoro batte di sicuro il mio! Inoltre il tuo personaggio è rassegnato al suo destino, senza possibilità di salvezza, impossibilitato a rialzarsi, definitivamente inchiodato nella sua situazione… Mi piacciono i vicoli bui senza via di scampo, senza nemmeno la più piccola lucina di speranza ad illuminare la notte… Bravo, per essere stato così oscuro e spietato.

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