Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “L’armatura misteriosa” di Simone Roncoletta

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

                                          

                                    Il doveroso preambolo del preambolo

 

In questo racconto vi sono delle forti incongruenze storiche (vengono descritte parti veneziane della cinta magistrale di Verona, edificate intorno al 1500, e parti di muro alla Carnot del periodo austriaco (1800), mentre la storia si svolge intorno al 1300 alla corte degli Scaligeri). Vicende reali, quindi, sono mescolate a situazioni inventate. Ho utilizzato anche dei termini dialettali sicuramente diversi da quelli del tempo, ma che ho ritenuto opportuno mantenere per dare peso non tanto alla veridicità storica quanto alle immagini più o meno fantastiche che, suscitandomi delle emozioni, di volta in volta mi piaceva descrivere.

  

 Il preambolo

 

Addì 15 maggio dell’anno 1312 d. C. sia appeso per la forca il Comandante Paisse Fabio in contumacia di alto tradimento

 

 

Una morte annunciata

 

    La sentenza fu firmata da Cangrande Secondo, fratello del munifico Cangrande Primo della Scala, Signore di Verona e a lui succeduto dopo la morte penosa, che lo aveva colto sul fiore degli anni e alla quale giunse in seguito ad un fulminante prosciugamento di ogni liquido corporeo.

    Tutto il mondo allora conosciuto si dolse della grave perdita e poiché quell’orribile morte pietrificò a tal punto il corpo del malcapitato, per onorarne la memoria esso stesso fu abilmente messo in posa di fiero cavaliere con tanto di spadone sguainato e montato su di un cavallo scolpito nella pietra.

 Il monumento equestre così eretto fu messo in bella vista al di sopra della tomba, ovviamente vuota, del defunto Signore di Verona.

   Ma tanto Cangrande Primo aveva avuto fama di nobile mecenate, protettore delle arti, delle lettere e del bel canto, tanto il fratello era inviso al popolo a causa delle pesantissime tasse con cui opprimeva la povera gente e per le quali si guadagnò il soprannome di Canrabbioso o Cansquarzabraga,

   Dopo un paio di mesi dalla pubblica esecuzione di Paisse, ancora, lungo le vie e le viuzze dei borghi, a bassa voce si parlava dell’accaduto.

   Un burchiere in sosta lungo l’ansa dell’Adige, che nella zona del Pestrino curva dolcemente, si era soffermato ad ascoltare il chiacchiericcio delle lavandaie che, spossate dell’afa, si mostravano più intente alle ciacole che al bucato.

   Paisse, il Comandante Paisse, chi più chi meno intimamente, lo avevano conosciuto tutte e colei che non poteva vantarsi d’averlo incontrato da vicino mandava languorosi sospiri al pensiero della sua lunga chioma bionda più del grano maturo che metteva in risalto gli occhi azzurri e limpidi come il cielo dopo un temporale.

   Paisse, quando era in turno di riposo, soleva recarsi al porticciolo delle chiatte sul fiume per sostare dopo qualche lunga galoppata.

   Il porticciolo era un punto d’incontro molto frequentato a quel tempo e tale restò sino a quando non fu distrutto dalla terribile inondazione dell’Adige del settembre 1882, una sciagura che mise sott’acqua tutta Verona come ricordano le scritte sulle lapidi a memoria dell’infausto evento.

   L’arrivo di Paisse sul cavallo scalpitante era preannunciato da un melodioso canto che lo stesso Comandante amava intonare con voce calda e passionale.

Ai primi echi che giungevano in lontananza si risvegliava, improvvisamente, l’entusiasmo e l’euforia delle comari affaccendate.

Anche le più giovani a stento nascondevano il batticuore che il biondo cavaliere sempre procurava.

Dall’acqua, subito, spuntavano interamente le gambe e le cosce sode sino a quel momento coperte dalle pieghe delle gonne rimboccate appena sopra le tornite ginocchia mentre le donne più ardite ostentavano prosperose scollature.

Del giovane comandante amavano non solo il bell’aspetto, virile e fanciullesco al tempo stesso, ma anche quel fare un po’irriverente e smaliziato che sin dall’età adolescenziale lo aveva contraddistinto dai suoi coetanei ancora goffi e timorosi nei confronti del gentil sesso.

Tanto era scanzonato e giocherellone nel tempo libero e tanto era severo e autoritario quando indossava la divisa.

Fin da ragazzo, infatti, aveva sognato di difendere il proprio popolo da invasori e altri nemici e così all’età di quindici anni decise di arruolarsi nel corpo delle Guardie Volontarie di Corte.

Il forte senso di giustizia e lealtà lo avevano portato a scalare velocemente i gradi militari e a soli ventinove anni era stato promosso comandante di plotone.

Se pur giovane era rispettato e stimato da tutti, anche dai suoi superiori.

Il rispetto se lo era guadagnato sin da bambino quando, orfano a soli a sei anni, decise che sarebbe diventato uomo da solo e nove anni più tardi, quando si arruolò, lo divenne.

Oltre che bello, quindi, era considerato un piccolo eroe e ora che era morto le donne giovani e vecchie parevano colpite da un lutto comune e stavano lì inginocchiate per terra curve verso l’acqua come in atto di prostrazione.

   – Can rabbioso l’è sta un gran bastardo! – sentenziava la più anziana lungo la riva del fiume sbattendo e strizzando le bianche lenzuola grondanti.

   -Tasi Nina, tasi, par amor del cielo, che nol ne taca ia anca noaltre – incalzava subito la più vicina timorosamente mentre sfregava nervosamente su e giù con la spazzola di legno i capi di bucato, per poi strapazzarli e malmenarli.

   Il burchiere, uomo semplice e taciturno, al timone della sua imbarcazione ormeggiata sulla riva opposta, ma abbastanza a tiro di voce e d’orecchio, proferì, non senza l’aria di uno che avrebbe avuto da aggiungere di più, che una volta nel vedere il valoroso Fabio o el bel Fabieto come lo soprannominavano divertite le incallite ammiratrici, così allegro e spensierato, aveva quasi provato un  contrastato senso di invidia e di oscuro presentimento.

   Ora, dandosi quasi un tono d’importanza, ne intuiva l’arcano motivo; tirava dentro il fiato pesantemente e, stringendo pensieroso le labbra, ciondolava leggermente la testa come in preda a più sinistri presagi mentre lo sguardo desolato seguiva la corrente.

   Il Comandante Paisse aveva lasciato un grosso vuoto anche tra i suoi fedeli soldati e tutti erano convinti che la condanna fosse stata abilmente complottata per giustificare l’ennesimo fallimento di Cangrande Secondo nei confronti del popolo veronese ormai portato allo stremo e pronto ad insorgere.

   Puntualmente, infatti, fu aumentato il dazio per le granaglie a favore dell’opera di fortificazione della cinta magistrale.

   Paisse era stato uno dei primi militari a schierarsi contro questa sciagurata decisione sapendo quali conseguenze tragiche avrebbe comportato per la gente comune.

   A questo punto non ci misero molto ad accendersi i primi tumulti popolari.

   Gli sgherri di Canrabbioso, notando la presunta poca tempestività del Comandante nel sedare i rivoltosi, lo presero di mira e lo denunciarono al tribunale dei traditori incolpandolo prima velatamente, poi implacabilmente di essere il responsabile della sommossa.

   Paisse cercò di difendersi dall’ingiuria scrivendo una lettera ad un cugino molto influente presso la Signoria Mantovana e nella quale spiegava le sue motivazioni chiedendo, in fine, asilo politico alla città dei Gonzaga.

   Gli scagnozzi di Cangrande Secondo, per disgrazia del Comandante Fabio, intercettarono la lettera e la consegnarono al loro Signore che con un sommario processo fece condannare Paisse per alto tradimento.

   Egli seppe dapprima tenere testa alle accuse dimostrando la sua innocenza, ma non fu poi in grado di difendersi fino in fondo poiché cedette sotto le strazianti torture della ruota, un macabro marchingegno con il quale o si parlava o si moriva dopo lente agonie.

 Questo metodo d’interrogatorio era scientificamente infallibile e altamente praticato a quel tempo per stabilire la verità.

   L’unico essere al mondo che avrebbe potuto scagionare l’innocente Paisse era un bellissimo cavallo, un purosangue pezzato dal pelo lungo e lucido, la muscolatura agile e possente, che neanche sottoposto alle più atroci sevizie avrebbe tradito il padrone… e non solo per la mancanza della parola.

   Per sfortuna del Comandante, e per fortuna del destriero, considerato che era solo una bestia, fu risparmiato da tale barbarico sadismo.

  Ma Krous era così intelligente che quando Paisse lo chiamava per nome o con un fischio lui rispondeva con un nitrito agitando la testa su e giù due o tre volte e scrollando la folta criniera a guisa di un cane che scodinzola alla vista del padrone amato.

 

  

L’antefatto dellantefatto

 

   Trascorsa qualche settimana la Corte Scaligera in due e due quattro archiviò la pratica Paisse che, fungendo da capro espiatorio, lasciò nell’animo dei più accesi rivoltosi un senso di imbarazzante disorientamento in quanto qualcuno degli stessi cominciò ad insinuare la possibilità che Paisse avesse potuto veramente compiere un atto tanto vile che malelingue ben addestrate avevano iniziato a fatto circolare.

   Dopo la sommaria condanna, spicciata alla chetichella da un giudice prezzolato, infatti, fu sistematicamente messa in giro ad arte la voce che il Comandante, durante un acceso combattimento con dei briganti in un agguato notturno, fosse vigliaccamente fuggito defilandosi all’interno dell’oscura boscaglia e lasciando i suoi sottoposti alla mercè dei banditi.

   Prova schiacciante e inconfutabile ne era l’armatura di Paisse ritrovata abbandonata e ben nascosta dietro un folto cespuglio.

Secondo un contadino di passaggio, che a suo dire era stato involontario testimone dell’intera scena, il Comandante si sarebbe liberato dell’armatura per fuggire più agiatamente in mezzo ai rovi..

   La vicenda era stata minuziosamente descritta in un’anonima lettera ritrovata all’alba dell’accaduto dalle guardie di corte nella famigerata bocca di un leone di pietra, l’unico riconosciuto detentore, allora, di inappellabile giustizia.

   Di certo fu che ebbe più peso quella denuncia, scritta in ottima calligrafia da un contadino senza nome ma con occhi di falco che vagava per l’inospitale bosco sul far della notte, che la parola del valoroso combattente.

   Dei soldati a servizio del Comandante non fu più trovata traccia e qualcuno mormorò che la sera dell’episodio fossero stati visti a bere in una locanda per festeggiare la licenza premio prima del loro trasferimento in un altro possedimento della Signoria Veronese. 
Giunto il giorno dell’esecuzione alcune guardie di corte mimetizzate tra la gente comune al passaggio del condannato proferirono insulti e accuse di vigliaccheria e la folla cominciò a dividersi tra colpevolisti ed innocentisti.

   Per l’occasione fu allestito un baldacchino di legno alto più di dieci metri, al quale fu affissa un’enorme scala a pioli per potervi salire in cima e che, da quell’infausto giorno, divenne il simbolo della Signoria Veronese in segno di alterità e potenza.

   La base del baldacchino fu ben consolidata sul terrazzamento del Cavaliere di S. Giuseppe sopraelevato rispetto agli orecchioni.

   La Corte Scaligera, all’alba, si accomodò sul trono riposto sul baldacchino e da quella posizione panoramica si preparò ad assistere l’esecuzione.

 Per testimoniare il profondo disprezzo per il condannato a morte, Cangrande Secondo ostentava noia e sonnolenza alternando qualche lancio di ossa ai possenti mastini con qualche plateale sbadiglio.

   Per umiliare ancora di più Paisse ed essere quindi di monito alle truppe fu allestito all’interno dell’orecchione sinistro del bastione di S. Spirito un palco sul quale fu montata la forca: un patibolo di legno a forma di grossa fionda.

   Quella piazza militare, infatti, era il luogo dove in tempo di guerra si radunavano cavalli e cavalieri pronti a varcare la porta di sortita, ad un cenno dello stesso Comandante Paisse sferrando in tal modo un inaspettato contrattacco al nemico che avanzava.

   Krous, in quelle occasioni, era sempre il primo destriero ad uscire e a guidare le azioni di battaglia scalpitando con gli zoccoli sul duro legno del ponte levatoio, che calando apriva la bocca della porta, in fremente attesa dell’ordine del padrone; ma il destino gli aveva riservato una fine poco dignitosa per un cavallo della sua razza e solo per la sua innocuità gli venne risparmiata la vita e mandato nelle stalle di corte come stallone da riproduzione e più raramente per sfilare in qualche corteo pubblico con un vivace pennacchio gialloblu sulla fronte.

 

 

L’antefatto

 

Ad impiccagione avvenuta, il boia si affrettò a togliere l’inerme corpo del condannato, ancora dondolante, mentre la testa invece restava ben bloccata nell’angolo della forca in quanto il bel Comandante non ne voleva proprio sapere di morire così ingiustamente e dovette il boia stesso aggrapparsi di forza alle gambe del moribondo per dare l’ultimo il colpo di grazia.

   Poi il defunto fu riposto sbrigativamente in un’umile bara di legno grezzo, caricata su un carro senza molta cura e portata via di fretta.

   All’ultimo straziante grido, soffocato nella gola del Comandante, accadde qualcosa di inspiegabile.

 Durante l’intero tragitto, che collega l’orecchione con la poterna, le ruote di legno dell’improvvisato carro funebre, che solitamente sbattevano rumorosamente sul duro acciottolato, divennero silenziose come piume e il lento risveglio della natura delle prime luci dell’alba di colpo ammutolì: i passeri smisero di cinguettare, la leggera brezza mattutina si placò e il buio, per un attimo, ritornò sovrano.

   Al passaggio del povero feretro, per qualche interminabile istante, dominò un assoluto silenzio accompagnato da un profondo senso di angoscia e cordoglio.

 

 

E l’armatura?

 

Qualche tempo dopo l’esecuzione qualcuno raccolse la voce che l’armatura del Comandante, una volta rinvenuta nella boscaglia, fosse stata fusa e dalla sua colata fossero stati fabbricati dei lunghi chiodi da legno di modico valore che uno scaltro mercante avrebbe acquistato in un lotto unico e rivenduto, poi, ad un prezzo raddoppiato.

Dal guadagno ottenuto avrebbe in seguito avviato una fortunata attività di forgiatura di spade e spadoni.

 

  

Un curioso accidente

 

   Il 3 aprile dell’anno successivo, il 1313 d.C., durante una fresca giornata primaverile, accadde una cosa alquanto insolita, come un noto archivista del nostro secolo ebbe modo di scoprire in seguito ad accurate indagini.

   Il racconto, dell’inconsueto episodio, fu ben presto censurato dalle autorità giudiziarie su ordine dalla Signoria Veronese la quale impose multe salate a chi, bontempon sfaccendà, avesse messo in giro busie e fandonie per mettere in ridicolo la corte.

   Durante una parata, lungo la via principale che collega l’attuale Piazza Bra con Piazza Erbe, Krous, che era alla guida del corteo, malgrado avesse il muso coperto da un robusto paraocchi di cuoio all’improvviso s’impennò e cominciò a nitrire freneticamente creando scompiglio tra la folla impaurita.

   Qualcuno giurò che si fosse imbizzarrito proprio davanti ad un’armatura posta all’inizio di un vicolo chiuso che tagliava a metà la via.

   Ci vollero sei soldati e due grosse corde da imbarcazione per domare la furia dello stallone e riportarlo all’ordine.

   Da quel giorno Krous si rifiutò di mangiare e lentamente deperì sino a quando lo stalliere di corte lo dovette abbattere per porre fine alla lenta agonia.

   Le cronache del tempo raccontano anche che quell’armatura doveva essere sicuramente appartenuta al Comandante Paisse e prova ne era un inconfondibile ammaccatura dietro la spalla destra che l’impavido cavaliere biondo si era procurato durante un palio militare e dove, ancora una volta, aveva dato foggia del suo valore.

 

 

L’inevitabile epilogo

 

   L’armatura, anche per non dare credito all’accaduto, su ordine dei Signori di Verona rimase lì, nello stesso punto, sino ai giorni nostri e probabilmente presso il negozio degli stessi discendenti di quell’abile commerciante che avviò la fortunata attività di forgiatura di spade e spadoni.

 

L’epilogo dell’epilogo

 

   Io, quell’armatura, me la ricordo ancora, quando da piccolo, intorno agli anni 1975/80, passeggiando lungo Via Mazzini, e vedendola, fantasticavo ad occhi aperti sulle eroiche avventure del Comandante Paisse che qualcuno, forse, mi doveva avere raccontato o che più probabilmente m’inventavo da solo.

  

La fine

 

   Una cosa è certa: oggi l’armatura e la mia infanzia non ci sono più e al loro posto, invece, è rimasto l’ingresso di un locale dove il Mercoledì sera suonano musica dal vivo e chissà che non sia proprio quella stessa musica che tanto amava cantare, arrivando al galoppo sul fido Krous, il valoroso Comandante Fabio Paisse o per gli amici el bel Fabieto.

 

 

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