Premio Racconti nella Rete 2016 “Nero e i Tre Fanti: una novella sbagliata” di Lorenzo Garzarelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016I notiziari vomitano l’epilogo da minuti. Si susseguono frenetici i fotogrammi del cadavere di Nero, del ghigno dei Tre Fanti, del marcio di un’assoluzione per legittima difesa. Abbracci di bigotti e conferenze stampa di avvocati. Osservo costernato dalla mia roccaforte in pietra. Magari potessi farmi uno scotch; dicono serva a rilassarsi. Riavvolgo il nastro, ricucio i fili strappati da uno scaltro mangiafuoco. Adesso viene il difficile: percorrere in controsenso i vicoli sconnessi di una novella sbagliata. Un sospiro, un sussulto, un accenno di lacrima. Sono pronto.
Mi imbattei in Nero dopo decenni di onorata carriera alle dipendenze dello Stato.
Una quiete da cinema all’aperto galleggiava nel consueto acquitrino di volti scarni e filari di divise a strisce, alleggerendo gli strascichi conclusivi dell’ora d’aria. Sullo schermo di un cielo cobalto, ora stormi di gazze, ora brandelli di nuvole multiformi, ora svogliate scie di biplano scorrevano in dissolvenza come titoli di coda di una pellicola in technicolor. Recinzioni ispide di filo spinato vigilavano sul convulso andirivieni di condannati, che rimbalzava incontrollato tra i vertici del cortile come una colonia di formiche rinchiusa in una scatola.
Appena i quattro cilindri in linea della pantera di servizio smisero di brontolare ed il nuovo detenuto fece capolino dallo sportello, il popolo di Orcaia trasalì incredulo. Che San Leonardo Abate mi trafigga se mento! Persino il Direttore farfugliò durante tutto il discorso che il protocollo accoglienza impone in certe occasioni. Non per via delle forme spigolose, dell’andatura dinoccolata o della mandibola equina dello spilungone che svettava tra la folla come uno spaventapasseri nel giallo del grano. Il colorito, lì stava il cruccio: il tipo era nero, nero tosto. Nero pece bollente. Nero Senegal, pigolava il pettegolezzo dei beninformati. Nero ricettazione, aveva sentenziato la stilografica di un giudice. NE-RO: un rintocco di sillabe per battezzare l’unico inquilino di colore del Braccio A.
Col trascorrere dei mesi imparai ad apprezzare il distacco che Nero manteneva dalla routine di galera. Mai una zuffa da mensa, una soffiata traditrice per ingraziarsi i piantoni o un sigaro di contrabbando spillato a suon di favori sessuali. Preferiva di gran lunga bighellonare coi piccioni, rimpinzarsi da bufalo e coricarsi all’imbrunire come un poppante. Conversava a stento per di più. Se mal padroneggiasse il dialetto o prediligesse un cauto silenzio al chiasso di ciarle galeotte non lo ricordano neppure le mie sessanta estati scavate nella roccia. Il mascalzone di Barabba sosteneva di conoscere il suo segreto: “Gli hanno insegnato così: se tieni ai denti adoperali per frenare la lingua”. Inusuale e lampante modello di buona condotta, avrebbe chiosato un anonimo rapporto della magistratura di sorveglianza.
E i Tre Fanti? Sbircio gli editoriali e leggo di pilastri dell’ordinamento penitenziario scagionati per una difesa mai tanto legittima. Da tutori di un ordine colluso ad eroi nazionali: meraviglie del diritto di cronaca. L’assunzione dei Tre Fanti venne vivamente caldeggiata dall’On. Ratti, membro di spicco della Commissione Permanente sulle Carceri. Uniformi lustre, distintivi da secondini appuntati sul petto e quei topi di fogna presero a squittire per i corridoi di Orcaia. Gironzolavano tronfi come pavoni in amore, sfollagente in bella vista su braghe inamidate, alla costante ricerca di un pretesto per infiammare gli animi e menar le mani, consapevoli che il seggio parlamentare del loro santo in paradiso avrebbe reso ogni sopruso impunito, ogni angheria tollerata, ogni regola inapplicabile. Intoccabili, violenti, codardi e bacia piedi. Uomini della peggior stirpe, se di uomini si può parlare. Come i fanti delle carte insomma: scollata la consistente protezione in plastica anche Picche il moro, Fiori il bruno e Quadri il biondo erano null’altro che un patetico schizzo di inchiostro.
La prima volta di Nero e i Tre Fanti si consumò tra gli ululati di un ventoso San Silvestro. Prelevarono il prigioniero in tarda serata e lo scaraventarono tra le lenzuola della lavanderia deserta, che sfiorate dal pastello della luna restituivano alla stanza una cera smorta, di teschio. La squadraccia fremeva per l’eccitazione. Picche brandiva un tozzo randello. Fiori indossava un tirapugni. Quadri giocherellava con una cintura da cowboy. I festeggiamenti non tardarono.
“Buon anno negraccio!”
Una mazzata da far vacillare un bisonte.
“Ma io…”
“Vuoi farmi gli auguri?”
Un gancio a fracassare lo zigomo.
“Vi prego…”, piangendo.
“E a me niente, merda?”
Raffiche di cinghia a striare il costato.
Picchiarono sodo, sporco, senza sosta. Fiori immobilizzava Nero da dietro mentre i complici, a turno, macinavano legnate pesanti come macigni. Di quando in quando lasciavano che la preda scivolasse sulle ginocchia, così da aver buon gioco per soffocarla con buste trasparenti o cacciarle in gola stracci luridi. Interrompevano solo per impedire che svenisse. Ai Tre Fanti premeva che il malcapitato non perdesse i sensi, che assaporasse appieno gli innumerevoli retrogusti della sofferenza. Una scrosciata di acqua gelida e si ripartiva con impeto e rabbia rinnovati. Ancora ed ancora. Finché il manzo non fu battuto a puntino, come una costata al mercato generale. La massima confidata a Barabba si dimostrò un catastrofico fiasco: nonostante la lingua frenata, i denti non si trovavano al loro posto.
Ben presto il guardia e ladri al massacro appassionò i Tre Fanti, che trasferirono i linciaggi nel reparto di isolamento: con il caldo torrido nella “cella estiva”, priva di finestre e condotti di ventilazione; con i freddi rigidi nella “cella invernale”, dai vetri sfondati e l’umidità tropicale. Affinarono addirittura la tecnica di pestaggio, i miserabili, accorgendosi che la carnagione di Nero si prestava ad occultare le malefatte. I lividi, estese paludi sulle lande di una figura bitorzoluta, si annacquavano con l’ebano della pelle, confondendosi tra dozzine di gradazioni di nero che tenevano a distanza la curiosità degli impiccioni. Decisero quindi di colpire dal mento in giù per scongiurare vistosi sfregi o squarci, terreno fertile per i nasoni occhialuti dei medici.
Nero, da par suo, abbandonò gli amati piccioni per rifugiarsi nella solitudine. Incrociarlo divenne impossibile, tranne per gli infermieri a cui propinava inverosimili spiegazioni sulle lesioni che abitualmente riportava. Non proferì verbo con anima viva. Al tramonto, sgranocchiata qualche briciola controvoglia, sgattaiolava in cella, accendeva una candela e si sdraiava supino. Scrutava il serpeggiare della danza di ombre sul soffitto, che ai suoi occhi gonfi di angoscia pareva tratteggiasse profili di mostro ed artigli di bestia. L’inquietudine ammazzava il sonno: regolarmente sveglio, attendeva abulico l’inevitabile. Giorno dopo giorno. Fino al timbro grave di quel “Barabba, mi rimedi un coltello?”. Amen.
La notte, la Sua Notte, fu gravida di aspre disillusioni ed albe mancate. Il sordo tamburellio della grandine copriva il respiro dell’uomo acquattato nel buio della cella. Fiori, il primo ad entrare, non ebbe neanche il tempo di fiutare l’aria vizza. Braccato alle spalle, venne bloccato da una serrata presa al collo e trascinato lontano da Picche e Quadri. Nero racimolò coraggio sbandierando il serramanico a scatto che Barabba gli aveva procurato.
“Chiamate il Direttore! Subito!”. Il sudore scrosciava sul bavero slabbrato della camicia.
“Altrimenti leone?”. Quadri masticava tabacco. Impassibile.
“Altrimenti lo faccio secco!”. Premette con convinzione il pulsante sul manico del coltello per azionare il sistema a molla e liberare la lama. Non udì alcun clack. Tentò nuovamente in balìa del panico. Una, due, dieci volte. Niente. Il meccanismo di apertura era irrimediabilmente inceppato.
Un boato di grasse risate scosse le pareti: i Tre Fanti nascondevano nella manica il quinto asso, quello vincente.
“Dovremmo fare un regalo al buonanima di Barabba. E’ un maestro nel manomettere armi!”. Sì, proprio lui. Barabba la spia, Barabba il Giuda, Barabba la marchetta delle guardie. Che sia dannato.
“Idiota, pensavi di fotterci?”.
“Ti costerà cara scimmia”, inveirono per un’ultima volta.
Prima di cavargli la luce dalle pupille.
Il Direttore varcò la soglia dell’improvvisato mattatoio con glaciale indifferenza. Un penetrante odore di ferro lo distrasse abbastanza da non avvedersi della pozza che tinteggiava di sangue il pavimento.
“Potevate fare meno casino”. Scese col fazzoletto a ripulire il camoscio di costosi mocassini.
“Ci siamo divertiti un po’”, rispose Fiori a trentadue denti.
I quattro accerchiarono il corpo esanime, che per le fratture scomposte assomigliava ad un burattino spezzato dalle bizze di un bimbo irrequieto.
“Finite il lavoro”.
Due fanti, bravi cagnolini, uscirono dal cerchio zampettando. Quadri si appostò sull’uscio a gambe divaricate; Picche si piantò sul versante opposto in compagnia di un revolver. Mirò la coscia e sparò.
“Cazzo dovevi beccarmi di striscio!”, imprecò il ferito.
La rivoltella finì nei pressi di Fiori, che si curò di racchiuderne il calcio nel palmo destro del cadavere di Nero. Nel punto esatto dove l’indomani fu rinvenuto dalla polizia.
Il mosaico andava componendosi; mancava solamente il tassello finale: una Corte d’Assise compiacente. Il cellulare squillò tra le imprecazioni deliranti di Quadri.
“Salve On. Ratti, qui tutto come da accordi. Chiami pure il Presidente del Tribunale. A risentirci”.
II Direttore schiarì la voce allentando il nodo della cravatta: “trovate il dottore per il coglione bianco ed il cappellano per il coglione nero”.
La legittima difesa era servita.
Pendo dallo scodinzolio di un reporter che idolatra il Guardasigilli. Quanti altri Picche, Fiori, Quadri, Barabba e Direttori ostruiranno le mie budella in calcestruzzo e silicone? Talmente tanti da rallentare la digestione. In barba alla scritta tatuata sopra la mia bocca, che per il mondo è un cancello di ingresso arrugginito: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Gli umani la chiamano Costituzione. Uno smilzo manualetto, asfissiato nelle borse di un plotone di On. Ratti. Boccheggio nell’impotenza. Se fossi in carne scalcerei, se potessi contestare alzerei educatamente il dito. Racconterei di dignità calpestata, rispetto negato, compassione sperduta per i vicoli sconnessi di una miriade di novelle sbagliate. Ma non mi ascolterebbero comunque; per la gente valgo meno di un soldo bucato. In fin dei conti sono soltanto un fatiscente carcere di periferia.
Bel racconto di una brutta storia.Di tante, in realtà. Bello il punto di vista di chi sa ma non può parlare, e suggestiva la scelta dei nomi: due cose che fanno riflettere sul fatto che a volte le storie vere hanno bisogno di fantasia per essere raccontate come si “deve”. In certi casi, fantasia “sbagliata”, purtroppo. L’ho visto come un racconto che sa parlare per contrasti e di contrasti.
Maurizio, hai colto pienamente il messaggio che avrei avuto piacere passasse. E, ti dirò, hai commentato con molta più competenza e sensibilità di quanto sarei stato capace di fare io ????. Sono lusingato, grazie davvero.
Gli smile sono stati magicamente tramutati in punti interrogativi. Come si nota, non sono laureato in ingegneria informatica 🙂
Complimenti Lorenzo per il racconto.
La tua capacità descrittiva (mai banale) dei luoghi e ancor più dei personaggi è stupefacente!!
Davvero bravo.
Elle, mi fa piacere che tu abbia apprezzato. Soprattutto la parte descrittiva, che, almeno per me, è sempre la più ostica da scrivere. Grazie mille 🙂
Complimenti Lorenzo, il tuo racconto scivola via bene, lasciando dietro di se la sua schifosa bava di ingiustizia e forzata omertà. Forse il vero protagonista di questo racconto è proprio il carcere, mastodontico, imponente, eppure spettatore impotente di scomode verità piegato al silenzio di un pugno di violenti. Ma non gli poteva crollare addosso ad un certo punto? Ah già, ma questa sarebbe stata giustizia…
Come darti torto Patrizia? Voglio fare un passo in più: prima delle carceri dovrebbero crollare le “cupole”. Ma, come giustamente osservi, questa sarebbe giustizia :-). Grazie per aver apprezzato il racconto.
Ha già detto tutto Maurizio. Aggiungo che mi ha ricordato un po’ “Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank” di Stephen King (se non lo hai letto te lo consiglio, forse uno dei migliori racconti di King, lo trovi nell’antologia Stagioni Diverse) da cui fu tratto anche un bellissimo film con Tim Robbins e Morgan Freeman “Le Ali della Libertà” che di certo ricorderai.
Il senso di ineluttabilità di un destino già segnato, l’impotenza, lo smarrimento, persino un certo modo di raccontare le persone ridotte ormai a miseri figuri, ombre di sé stessi, burattini, tutte cose che mi hanno rimandato con la memoria a Shawshank. Solo che nel racconto di King c’era una componente che nel tuo manca: la speranza appunto. Il racconto di King si conclude in redenzione, il tuo in dannazione… Una differenza non da poco. L’unica cosa che proprio non mi torna sono le ‘ragioni’ del primo attacco dei tre fanti … Provo a spiegarmi meglio, in questo in genere di storie c’è sempre un ‘evento’ che scatena il branco, una cosa non necessariamente eclatante, intendiamoci, magari sarebbe bastato anche un accenno di reazione a una provocazione, loro invece la prima volta pestano il povero ‘Nero’ senza il benché minimo motivo apparente… Perché arrivano a tanto? E perché proprio Nero? Sono ubriachi e in vena di sfogarsi? E’ per rimarcare il fatto che la violenza a volte non ha ragioni? O c’è dell’altro?
Luigi, che piacere confrontarsi con un lettore tanto attento!
In primo luogo, ti ringrazio per il suggerimento di lettura: da fanatico di King, ho già avuto modo di apprezzare “Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank”, anche se – dammi del nostalgico – sono particolarmente legato all’inflazionatissimo (per ovvie motivazioni cinematografiche) “Il Corpo”, anch’esso figlio di Stagioni Diverse.
Provo a fornirti il mio personale ed assolutamente opinabile punto di vista in merito alle tue osservazioni.
Anzitutto, l’assenza di “nesso causale”, la mancanza di concatenazione “causa-effetto”.
Una delle tematiche affrontate nello scritto è la strumentalizzazione del potere costituito, che si manifesta tanto ai vertici della “catena alimentare” (il politico, il presidente del Tribunale, il Direttore) quanto tra gli “insetti” che ne popolano le fondamenta (le guardie carcerarie ed il detenuto traditore).
Questi ultimi, nella maggior parte dei casi, sono individui vuoti, abietti, deplorevoli, che abusano della propria posizione dominante per nascondere al mondo le infinite debolezze che li affliggono.
Il nomignolo “Tre Fanti” non è casuale: si tratta delle minori tra le figure, prepotenti e proterve con i numeri delle carte, docili e mansuete al cospetto della voce grossa di Re e Regine.
Tali specie adottano linguaggi inumani, tra cui quello della violenza gratuita; un’idioma spesso indirizzato contro coloro che non riescono a comprendere a pieno, i “diversi” per sembianza fisica (“unico inquilino di colore del Braccio A”; “Buon anno negraccio!”) o i “diversi” anche solo per stile di vita (“inusuale e lampante modello di buona condotta”; “imparai ad apprezzare il distacco che Nero manteneva dalla routine di galera”).
Per risponderti, l’intento consta nel rimarcare come talvolta la violenza non necessiti di stimoli esterni per esplodere, affondando le radici nei terreni più infetti ed incolti dell’indole umana: l’insicurezza, l’ignoranza, la stupidità e la paura di ciò che non si è in grado – o, ancor peggio, che a propri non si vuole – imparare a conoscere.
Seconda domanda, “il messaggio, la morale del racconto”.
Hai colto esattamente nel segno, non sono tipo da “happy ending”. Non me ne vogliate :-).
A mia parziale discolpa, il titolo (“una novella sbagliata”) elimina alla fonte qualsiasi aspettativa di lieto fine, al contrario del titolo dell’opera di King (“Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank”), improntato su un’innegabile ed evidente vena ottimistica.
Per concludere, ti saluto con una citazione cinematografica (visto che mi sembri un amante) che si addice all’argomento: “non ti aspettare un lieto fine. Non è una storia Americana questa… è una storia Irlandese” (Rory Devaney, “L’ombra del diavolo”).
Grazie per avermi dedicato il tuo tempo e la tua attenzione.
P.s.: proporrò al Direttore di Orcaia l’adozione obbligatoria di misure di alcool test; sia mai che riusciamo ad evitare qualche linciaggio :-).
Mi accorgo solo ora che mi sono partiti due refusi:
i) un imperdonabile apostrofo di troppo (un’idioma);
ii) un “che non si è in grado DI – o, ancor peggio, che a PRIORI non si vuole –”.
Chiedo venia agli amanti della penna rossa: questa cosa di non poter modificare i commenti inviati è una spada di Damocle!!! 🙂 🙂 🙂
Ho appena finito di leggere il tuo racconto.La mia prima sensazione è quella di un grande sollievo. Evidentemente è ancora possibile raccontare, e bene, storie autentiche lontane dalle solite atmosfere (una volta si sarebbe detto dal mondo piccolo-borghese). Grazie Lorenzo, e non preoccuparti degli errori.
La storia è bella. Trama interessante, personaggi azzeccati. Non sempre la forma è di mio gradimento: a volte ci si inceppa in una lettura altrimenti scorrevole e di buon ritmo. Avrei evitato il prembolo iniziale e sarei partito da: “Mi imbattei in Nero…”.
Ho letto volentieri e mi è piaciuto. Complimenti.
Marco,
le tue parole mi imbarazzano per quanto sono belle.
Non so come ringraziarti, davvero.
Costantino,
ma ci credi se ti dico che sono stato combattuto fino all’ultimo sull’inserire o meno l’incipit?
Forse una scelta “sbagliata”; nel caso, ironia della sorte, in linea con il tema di fondo della storia :-).
Scherzi a parte, grazie per i complimenti e le osservazioni: seguirò il tuo suggerimento, cercando di migliorare la prosa dei prossimi lavori.
Lorenzo,
una bruttissima storia, scritta meravigliosamente. Sono di quelle storie che mi riempiono di rabbia e mi fanno venir voglia di ribellarmi seduta stante a tutte le ingiustizie del mondo… una lotta contro i mulini a vento per la maggior parte delle volte, ma sicuramente meglio che quella voglia abbia ancora la forza di nascere e non si addormenti del tutto nella rassegnazione quotidiana.
Stimolare pensieri che permangono una volta chiusa la pagina, credo sia uno dei ruoli più importanti della scrittura,
quindi complimenti per questo racconto.
Orsola
Mi fa piacere che il mio commento sia azzaccato. Il tuo dubbio mi fa capire che non era una sensazione del tutto sbagliata. Grazie.
Orsola,
Il tuo è un complimento meraviglioso ed inatteso.
Grazie mille 🙂
Costantino,
più che azzeccato, direi sostenibile.
Difficile trovare verità assolute quando si tratta di stile e gusto personale.
Per chiarezza, non me la sono assolutamente presa anzi ho apprezzato ed apprezzo molto le tue acute e sempre ragionevolmente argomentate osservazioni.
Grazie per avermi dedicato la tua passione e la tua competenza 🙂 🙂 :-).
Ciao Lorenzo e complimenti per il tuo lavoro. Una storia tragicamente vera e ben scritta . Trovo anch’io che la scelta dei nomi sia azzeccata e geniale il finale. Non avrei mai immaginato chi è la voce narrante!
Arian,
grazie per quel “piccolo fiore” che è ai miei occhi il tuo commento :-).
Ciao Lorenzo, io non sono molto loquace e non mi dilungo in complimenti. Ti dico solo mi è piaciuto.
Agghiacciante la storia, stupendo il modo in cui l”hai scritta. Complimenti, resto dell’opinione che tu sia un artista.
Grazie Elvira e Consuelo!
@Elvira: sono felice che tu abbia rispolverato un mio racconto della scorsa edizione, a cui, per di più, sono molto legato. Non preoccuparti per la loquacità: hai detto ciò che mi rende più felice :-). Grazie!
@Consuelo: che dire? Se resti dell’opinione che io sia un artista vorrà dire che continuerò ad esserti infinitamente grato! 🙂