Premio Racconti nella Rete 2016 “Il fiume in casa” di Lorenzo Ratisti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016
Ricordo bene la mia città. Ci ho vissuto gli anni più belli della mia vita.
Nel quartiere dove sono cresciuto non c’era angolo che non avessi esplorato con i miei amici.
Correvamo felici per le strade polverose impersonando feroci pirati, banditi dal grilletto facile, cavalieri erranti in cerca di belle dame da salvare dalle grinfie di draghi a due teste.
Amavamo giocare nei campi che si estendevano a perdita d’occhio subito dietro le abitazioni periferiche. Quelle che chiamavamo “le cantine”.
Il nostro gioco preferito era naturalmente dare calci ad uno sdrucito pallone, ma ogni giorno ci inventavamo qualcosa di nuovo. Le arrampicate sugli alberi, la ricerca di nascondigli segreti, le caccie al tesoro.
Uno dei posti dove andavamo più spesso era il carro abbandonato. Si trattava in realtà di un vecchio camion adibito al trasporto della paglia destinata agli allevamenti locali. Riccamente decorato e dai colori sgargianti fra cui predominavano il rosso, il verde ed il blu, si raccontava che arrivasse dal lontano Pakistan. Dopo un grave incidente in cui si era ribaltato, essendo ormai troppo usurato, non era più stato rimesso in uso e ora giaceva ai margini di un campo incolto pieno di erbacce e di bisce. Noi ci salivamo sopra credendo di respirare lontani e misteriosi sapori d’oriente. Se avessimo potuto ci saremmo andati anche di notte, quando si diceva che si aggirasse il fantasma di uno dei guidatori rimasto ucciso nell’incidente. Era facile pensarlo sotto i raggi del sole, madidi di sudore e rossi in faccia per lo stupore dell’infanzia. Più difficile sarebbe stato andarci davvero con nient’altro che il fioco chiarore della luna a farci compagnia.
Più di ogni altra cosa ci sarebbe comunque piaciuto frequentare i due bar che delimitavano idealmente il nostro quartiere, ma eravamo troppo piccoli. Però ci passavamo davanti spesso cercando di immaginare cosa mai facessero i ragazzi più grandi una volta varcata la soglia.
Prima del piede avevo appena cinque anni e mi ponevo spesso domande su come sarebbe stato andare a scuola l’anno successivo. Ero convinto, non so perché, che il tempo dei giochi sarebbe finito e che sarei dovuto entrare nel mondo degli adulti. In un certo senso fu così, ma non certo per via della scuola.
Durante la settimana rimanevo a casa con mia madre fino a dopo pranzo. In realtà non stavamo quasi per niente insieme perché lei lavorava dai vicini. Però se avevo bisogno di qualcosa bastava chiamarla e arrivava subito. Non che succedesse spesso. Anche da bambino sono sempre stato molto autonomo. In ogni caso, questa situazione di solitudine controllata, rappresentava, dal mio punto di vista, una grandissima fortuna. Mi sentivo privilegiato rispetto a tutti i miei amici perché godevo della libertà di volar via, cosa che loro non soltanto non avevano, ma non erano neppure in grado di comprendere.
Di pomeriggio andavo quasi sempre a casa loro perché mia madre lavorava da un’altra famiglia che stava più lontano e non poteva pensare a me. Quindi le loro mamme mi conoscevano molto bene e tutte mi adoravano indistintamente.
Al tempo pensavo che lo facessero per una sorta di compassione, visto che la mia era assente. Invece ho poi capito che per loro rappresentavo una sorta di talismano per i figli. Erano inconsciamente convinte che se fossero stati con me avrebbero evitato pericoli e persone poco raccomandabili, e che sarebbero stati al sicuro da brutti incidenti. Il momento che amavo di più erano la merende. Seduti su lunghe panche di legno mangiavamo di gusto pane e marmellata oppure i dolci che ci preparavano con tanto amore. Prima che l’ultima briciola si sciogliesse in bocca, quando il tempo lo permetteva, fuggivamo fuori a fare le nostre scorribande, inseguiti dall’eco delle loro raccomandazioni.
A casa mia invece non sono mai venuti, ed io naturalmente ero contento così. Sapevo che il mio segreto non sarebbe stato in pericolo, però preferivo evitare che potesse venire a crearsi un eventuale contagio.
Il sabato era dedicato a mio padre. Finalmente potevo stare un po’ con lui visto che gli altri giorni tornava la sera per cena e dopo era troppo stanco per avere la forza di giocare.
Spesso mi portava a pescare e aveva addirittura costruito una canna tutta per me. Non di rado riuscivo a prendere delle alborelle e non riesco a descrivervi la felicità. Amavo da morire pescare ma ancor di più amavo le risate di mio padre, gli schizzi d’acqua sul suo viso che inondati dal sole del primo mattino diventavano d’oro. Il tutto respirando a pieni polmoni l’odore dolciastro del fiume.
Domenica mattina andavamo nella chiesetta di San Bartolomeo e non dovevamo camminare troppo perché era quasi dietro casa nostra. Lì rivedevo i miei amici con i loro genitori, tutti più seri e ben vestiti. Mentre il prete parlava non ascoltavamo una sola parola di quel che diceva ma ci lanciavamo messaggi telepatici cercando di assegnarci in anticipo i personaggi per i giochi dell’indomani. Dopo pranzo ne approfittavamo per fare delle lunghe passeggiate tutti insieme. I miei genitori non erano di tante parole quindi capitavano interi minuti di silenzio. E io me li godevo appieno. Perché in certi momenti si poteva anche fare a meno delle parole. Eravamo felici e tranquilli e contenti di essere insieme, e tanto bastava.
La domenica sera ero pervaso da sentimenti contrastanti. Da un lato avevo già nostalgia di mio padre e di mio padre e mia madre insieme. Dall’altro iniziavo già a fremere nell’attesa di riammirare il fiume il mattino successivo.
Già il fiume, il mio segreto, il mio rifugio.
Non è facile parlarne e non è facile estrapolarlo dai contorni che sembrano quelli di una fiaba. Eppure era lì, ogni giorno incessante, ogni giorno saturo di pura energia.
Il fiume Renna scendeva da monte San Saverio e attraversava da cima a fondo la città.
Non solo, attraversava pure casa mia.
In quello che oggi si potrebbe chiamare salotto scorrevano placide le sue fresche acque, così limpide che riuscivo a vederne ogni singolo granello del fondale ghiaioso. Da quello che ricordo c’è sempre stato. O almeno da quando sono nato io.
Penso che addirittura sia cresciuto insieme a me. Ovviamente non sto parlando del fiume Renna che esiste chissà da quanti secoli, ma di quella particolare deviazione che per qualche arcano mistero ha fatto si che un suo piccolissimo tratto attraversasse la mia casa e la mia mente.
Non ne ho mai parlato con nessuno perché avevo paura che scomparisse. Infatti quando ero con i miei genitori rimpiccioliva fino a diventare piccolissimo, un fiume in miniatura di pochi centimetri. Se loro ci camminavano sopra, scompariva quasi del tutto. Non ne rimaneva che una specie di balbettante trasparenza, intuita a malapena attraverso i loro stessi corpi, i quali per pochi istanti diventavano traslucenti, simili a fantasmi di contadini erranti.
Quando poi rimanevo da solo in casa, riacquistava tutta la sua ampiezza.
A volte credo che i miei genitori in realtà ne conoscessero benissimo l’esistenza ma facessero finta di non vederlo. Volevano che il fiume fosse il mio compagno di giochi per quando ero da solo in casa. E questo accadeva spesso.
Passò diverso tempo prima che trovassi il coraggio di immergermi. Ancora non sapevo nuotare ma non avevo paura di affogare, questo lo escludevo perché sapevo che il fiume non lo avrebbe mai permesso. Però temevo che la corrente mi avrebbe trasportato lontano in un’altra città dove sarei stato costretto a vivere da orfanello.
Sicuramente sarei finito prigioniero di qualche famiglia senza cuore il cui unico scopo sarebbe stato quello di farmi lavorare nei campi da mattina a sera.
Poi un giorno ruppi gli indugi e mi tuffai. L’acqua era gelida, impossibile da sopportare e per qualche secondo persi conoscenza. La mia mente ebbe una breve battuta d’arresto perché non era pronta a tradurre in emozioni l’inebriante sensazione dell’acqua tutt’intorno e dentro di me. Fui catturato all’interno di un vortice di luci e di suoni, con frammenti di ricordi a rincorrersi per emergere dal pozzo della memoria. Visioni appena accennate mi avvolsero come in un sogno prolungato e accelerato che ti trattiene inchiodato al letto senza permetterti di svegliarti. Vi ho già parlato dei sorrisi di mio padre quando andavamo a pescare.
Quella fu l’immagine che più di ogni altra ricordai. Ed ancora oggi mi chiedo quanto mi sono mancate in tutti questi anni le sue rughe, quanto le avrei volute accarezzare ancora una volta prima che tutto crollasse.
Quando finalmente riemersi in superficie, dopo un periodo che mi sembrò breve ed infinito allo stesso tempo, indossai nuovamente i panni della realtà e mi accorsi con sorpresa che, pur non sapendo nuotare, il fiume mi sosteneva a galla senza che dovessi fare il minimo sforzo.
Da quel giorno appena potevo mi tuffavo per un bagno rigenerante e non dovevo temere di essere colto di sorpresa dal ritorno dei miei genitori perché non appena varcavano il vialetto d’ingresso del giardino il fiume cominciava a ritrarsi. Ed io con lui. Era come se decine di mani invisibili premessero sul mio corpo per farlo rimpicciolire ed io avvertivo la spiacevole sensazione di un inizio di soffocamento. Perciò balzavo immediatamente fuori e in due minuti ero già completamente vestito. L’acqua scivolava sulla mia pelle e sui miei capelli come se fossi stato impermeabile, cancellando così ogni prova del bagno appena fatto.
Se il primo bagno dentro il fiume fu un’esperienza di un’ebrezza unica, il momento più emozionante, quello che mi fece quasi scappare il cuore dal petto, fu quando per la prima volta ci vidi nuotare un pesciolino.
Come facevo spesso, ero seduto sulla riva con i piedi a mollo a lasciar la mia mente vagare libera. All’improvviso captai un movimento impercettibile alla mia destra. Mi voltai sovrappensiero e vidi l’acqua incresparsi a più riprese. Poi una forma scura che avanzava verso di me. Infine riconobbi perfettamente i contorni di un piccolo pesciolino non più grande di un mignolo. Rallentò la sua corsa e i suoi occhi per un istante mi guardarono, ne sono certo. Poi ripartì ed in un secondo svanì. Per me fu come una rivelazione. Non avrei mai pensato di vedere nel mio fiume una qualsiasi forma di vita. Ed invece da quel momento fu un continuo proliferare della natura. Non solo pesci ma anche insetti e rane. Addirittura sul fondale iniziarono a crescere delle piante. Il fiume prendeva sempre più vita. Una volta provai persino a pescare con la canna che aveva costruito mio padre. Ma non ci riuscii e non ci riprovai mai più perché stetti male per diversi giorni. Era come se avessi provato a violarlo, ad ucciderne l’anima immacolata.
Poi un giorno la magia svanì all’improvviso in maniera brutale e dolorosissima.
Era un pomeriggio d’inverno cupo e freddo ed io ero da solo in casa. Il fiume già da qualche giorno era stranamente cupo, dalla superficie si levava una sottilissima nebbia grigia e l’acqua non era più limpida, si vedeva a malapena il fondale. Nessun pesciolino era più venuto a farmi visita.
All’improvviso vidi scorrere, trasportato dalla corrente, un piede nudo.
E insanguinato.
Un groppo mi risalì su per la gola soffocando un grido che me l’avrebbe squarciata. Una paura selvaggia mi scosse le ossa e scappai in camera mia ad infilarmi sotto le coperte. In lontananza ululava il vento e potenti tuoni cominciarono a rimbombare sempre più vicini.
I miei genitori rincasarono insieme ed erano stranamente trafelati. Non mi trovarono a giocare in salotto e mi cercarono in ogni stanza. Correvano e mia madre mi chiamava quasi urlando. Io non capendo cosa stesse succedendo emersi timidamente dalle coperte, il volto rigato dalle lacrime e per la prima volta parlai loro del fiume.
“Mamma, papà, oggi ero seduto sulla sponda del fiume ed ho visto una cosa orribile scorrere nell’acqua”.
“Cosa hai visto che ti ha così sconvolto Bruno?”
“Il piede di un uomo, era tutto insanguinato”.
“E’ la guerra Bruno, è la guerra”.