Premio Racconti nella Rete 2016 “Lunedì blu” di Elisabetta Neri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016E pensare che lo chiamano “Blue Monday”, il giorno più malinconico e triste dell’anno… oggi, 20 gennaio 2031, si festeggia questa “ricorrenza”.
Dall’inizio degli anni 2000 pare che l’umanità intera abbia iniziato ad avvertire l’impellente necessità di rendere “speciale” ogni giorno: non bastavano le feste comandate, più la festa della mamma, del papà… e se le mamme e i papà avevano un giorno a loro dedicato, perché non i nonni? Perché non i fratelli e le sorelle? E perché non il gatto di casa?
Si è via via cercato un buon motivo per rendere “unico” ogni giorno dell’anno, fino ad arrivare a consacrare e a festeggiare le più insignificanti banalità, come questa del lunedì blu, che tra l’altro è il mio colore preferito.
Blu come il cielo di montagna puro e terso, che alto e solitario risplende ben al di sopra del grigio smog prodotto da un’umanità vorace e fulminea predatrice di ogni attimo della propria vita; un’umanità costantemente protesa verso orizzonti comodi e vicini da raggiungere, indifferente a tutto ciò che la circonda, incurante delle tragiche conseguenze alle quali questo vivere con i paraocchi può dare lentamente quanto inesorabilmente forma.
Sì, io ne so qualcosa delle conseguenze di questa mentalità piccola, meschina e crudele, ma del resto la prima a non considerare gli effetti delle proprie azioni sono stata io, tanti anni fa, dunque non mi sento neppure autorizzata a lapidare chi, quando ero appena un’adolescente, mi ha causato una ferita così dolorosa e profonda da imprimere un segno indelebile sulla mia acerba esistenza.
Allora per me il cielo non era blu, e non erano blu nè il lunedì, né il sabato e né la domenica.
Tutto cominciò alle medie, quando, bella e spavalda, ero convinta di sapere tutto della vita. Io e mamma sembravamo due sorelle; con papà avevo pochi contatti, quanto bastava per ottenere i soldi necessari per esaudire ogni mio “desiderio”. Mamma si era sempre data da fare per non farmi mancare niente, soprattutto il suo sostegno e il suo affetto in ogni momento difficile. Ma si è trovata a dovermi crescere completamente da sola, perciò il tempo che trascorrevo con lei ha sempre rappresentato un’esigua parte di ogni mia giornata. Fortunatamente sono nata in un’epoca che mi permette di connettermi immediatamente con voci, frasi e volti dispensatori di affetto.
Ecco, in questo lunedì blu io e Martina siamo qui sedute a goderci serenamente questo insolito tepore invernale, inebriate dal sole che ci accarezza la pelle e dalle risa delle nostre bimbe, così assorte nei loro giochi, beatamente ignare di tempi passati e futuri. In un istante intercetto lo sguardo di mia figlia: occhi scuri e profondi che paiono possedere la forza gravitazionale di un buco nero: carichi di affamata curiosità che tutto ingurgita, attrazione irresistibile per chi li osserva…ma anche cavità così profonde e buie nelle quali si può precipitare e dalle quali è quasi impossibile riemergere.
Sono quegli occhi che mi hanno tradita, sguardo di donna (bambina) che scrutava il mondo dal profilo di un social network, occhieggiante tra le onde impetuose ed indomabili dell’azzurro mare di internet; un mare dall’irresistibile sapore di infinito e di inesplorato, maestosa ed affascinante attrazione che in un istante può trasformarsi in una minacciosa quanto incontrollabile tempesta. Un immenso blu che si è convinti di poter affrontare e dominare grazie alle proprie capacità, ma che in un battibaleno può rivelarsi in tutta la sua sublime potenza, ricordandoci che ogni battaglia tra noi e lui sarebbe persa in partenza. Sballottati e storditi dalle onde della gigantesca massa d’acqua, corriamo costantemente il rischio di incappare in una rete, rimanendo intrappolati tra le sue maglie.
Ed è proprio lì che la mia adolescenza ha subito una brusca battuta d’arresto: tra quelle insidiose maglie.
Chi ha teso la trappola è stato un bel pescatore dall’aria vissuta, un marinaio esperto e senza scrupoli che conosceva tutti i segreti del mare, anche quelli di cui ignoravo completamente l’esistenza. Tra le sue amicizie figuravano parecchi volti famosi, eppure aveva scelto proprio me, una ragazza bella ma normale. Sì, perché ero davvero bella, anche se non l’ho mai ostentato: mai una scollatura che lasciasse immaginare il turgore di una rosa che sta per sbocciare, elegante, misurata e perfetta. Ma anche la rosa più forte, compatta e profumata, in poco tempo può divenire così fragile da perdere tutti i suoi petali quando la si sfiora, o anche soltanto soffiandoci su.
Ci siamo incontrati nel buio spazio senza dimensione e senza tempo di una chat, territorio nel quale si può intraprendere qualsiasi tipo di cammino e provare ogni genere di esperienza, chiusi nella propria stanza al riparo da occhi indiscreti e giudicanti; al riparo persino dallo sguardo della mamma, considerata troppo lontana da questo mondo virtuale monopolio esclusivo degli adolescenti.
Lui pareva comprendere a fondo qualsiasi mio disagio ed ogni mia emozione, talvolta sapeva in anticipo cosa mi frullasse nella testa prima ancora che mi esprimessi, e ciò mi appariva come una sorta di magia, un incantesimo che univa noi e solo noi. Un feeling così forte non può che condurre dritto verso un coinvolgimento emotivo totalizzante, che tutto esclude e tutto giustifica, verso un’eccitazione che rapisce i sensi costringendoli a sottostare alle perverse regole del suo gioco.
Rovisto nella mia borsa e tiro fuori il libro che io e Martina, anime accomunate da due storie diversissime eppure così simili, abbiamo scritto a quattro mani. Sfoglio le prime pagine e mi distraggo per un attimo: il mio sguardo sembra perso nel vuoto, ma in realtà osservo la mia bambina e temo che anche lei, un giorno, possa scivolare nella voragine profonda che un tempo m’inghiottì.
Era trascorso ormai un mese da quando avevo digitato le prime parole rivolte al misterioso “uomo di mare”; esitai un istante prima di chiamarlo con il mio cellulare, temevo che la sua voce mi avrebbe deluso, che mi avrebbe rivelato qualcosa di lui che potesse improvvisamente liquefare quella montagna di panna montata così soda ed invitante nella quale non vedevo l’ora di tuffarmi, e della quale pregustavo consistenza soffice e dolcezza. Ma l’esitazione durò un attimo, poi composi il numero, convinta che niente e nessuno avrebbe potuto fermarmi. La sua voce era calda e profonda, rassicurante come l’abbraccio di un padre, quel padre che non avevo mai avuto.
Una settimana più tardi, piccoli frammenti di me incorniciati dal pizzo della biancheria che indossavo, parzialmente celati dalla penombra, avevano iniziato a viaggiare nell’etere: minuscole tessere di un puzzle che raffigurava un corpo immaginato, fantasticato; un corpo che poteva appartenere a chiunque, perciò mai riconducibile a me.
Trascorsero altri sette giorni e la sua richiesta divenne terribilmente esplicita: dovevo dimostrargli che mi fidavo di lui, mostrando il mio volto e il mio busto senza veli.
Ricordo ancora nitidamente quella sera: ero chiusa in bagno, e mamma continuava a chiamarmi perchè la cena era pronta. Non sapevo decidermi. Poi, nell’assurdo tentativo di estraniarmi il più possibile da un gesto che non mi apparteneva, chiusi gli occhi più forte che potevo e scattai quel selfie.
In fondo si trattava di un attimo.
Di un click.
Aveva detto: “è come quando ti fai un piercing: hai paura di sentire dolore ma dopo aver sopportato un leggero bruciore è tutto fatto, e non ci pensi più”.
Già, ma il giorno dopo quel piercing si infettò per trasformarsi in una ferita purulenta che mise in serio pericolo la mia vita.
Pretese altri scatti, piercing progressivamente sempre più dolorosi e pericolosi, ma una voce dal profondo del cuore mi gridava di smettere. Ascoltai quella voce e non andai oltre, incurante delle sue minacce.
Non dimenticherò mai lo sguardo delle mie amiche, espressione dell’imbarazzo e della disapprovazione che certe foto, comparse sul loro cellulare, avevano provocato. Seguirono altri ricatti, ed altrettanti rifiuti: e il selfie pareva assomigliare sempre più al virus di un’epidemia letale, inafferrabile ed impossibile da arginare.
Seguirono anni bui: ero convinta che la mia anima butterata si sarebbe portata addosso a vita i segni di quella malefica epidemia.
Cambiai taglio e colore di capelli, cambiai il modo di vestirmi… ed agli antipodi di quella fanciulla acqua e sapone prese forma una figura ribelle ed aggressiva, gli occhi perennemente nascosti da un ciuffo di capelli di colori improbabili. Sì, quegli occhi, così profondi, così riconoscibili da desiderare intensamente di cancellarli… occhi neri e veri, nei quali fortunatamente qualcuno ha scorto la semplicità e la gioia di vivere che vi erano rimaste incastrate sul fondo.
Anni bui, nei quali gli innumerevoli piercing mi hanno permesso di infliggermi una sofferenza, una punizione volta a placare almeno per un po’ quel senso di colpa che mi perseguitava, trasformando e deturpando quel corpo per il quale provavo ormai soltanto odio.
Io e Martina ci eravamo sedute vicine in quel primo giorno di scuola al Liceo Artistico, segretamente accomunate dal desiderio di mimetizzarci con l’aria che riempiva l’aula: così trasformate avremmo voluto fluttuare fino alla vicina finestra aperta per poterci dileguare nell’aria tiepida di Settembre. Avevamo un che di anacronistico: io con il mio ciuffo fuxia, apparentemente aggressiva e sicura di me, lei timida e sbiadita come un dipinto a monocromo. Sembravamo atterrate lì da due diversi pianeti appartenenti a galassie lontanissime. Ma tutte e due avevamo una storia da raccontare, una storia che solo due donne possono aver vissuto, una storia di dolore e di senso di colpa, una storia che ci ha rese forti nostro malgrado.
Una storia che non avremmo avuto il coraggio di ripercorrere se non ci fossimo mai incontrate e poi prese per mano, una storia che ora, in questo scintillante lunedì blu, è solo una sequenza di parole stampate sulla carta che giacciono ormai inerti tra le pagine di un libro.