Premio Racconti nella Rete 2016 “Il Cormorano” di Lorenzo Garzarelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016“Siamo rinchiusi nel faro dell’Isola di Sjel. Codice rosso! Ripeto, Codice Rosso!”.
Le parole berciate dal Guardiano nel ricetrasmettitore sottrassero il Cormorano alle grinfie dell’oblio.
Ammanettato ad una pacchiana scranna, il Cormorano si destò dolorante per via di una pallottola piantata nel bicipite femorale. Il piombo mordeva le fasce muscolari con la perseveranza di un picchio che scava la tana in un pino. Tutt’intorno imponenti finestre gravide di unto, grattando la groppa di un alto soffitto annerito, costringevano la stanza nella morsa di un perimetro circolare. Il livido scorcio del Mare di Norvegia, acerbo di febbraio, invadeva l’ambiente malmesso, poggiando i gomiti sulle sghimbesce assi che componevano l’usurato pavimento. Il grezzo cemento di un modesto divisorio interrompeva a tre quarti di circonferenza il susseguirsi di lastre di vetro, separando l’abbozzo di atrio dalla cabina di controllo del faro. Oltre il confine segnato dalla barricata in malta, il Guardiano confabulava con le autorità portuali di Austvågøy.
Il Ragazzo Cieco, bulbi oculari sbarbati di fresco, languiva semicosciente su un’ottomana masticata dalle blatte. L’indice destro ciondolava senza peso a pochi centimetri dall’assito, scandendo a mo’ di pendolo le ore, forse i minuti, che rimanevano da vivere allo sciagurato. Nudo come verme, fasciato da un mesto mantello di sudore, egli mugolava miseramente. Talvolta sussultava dibattendo il bacino con vigore, come percorso da una generosa scarica elettrica.
Il Cormorano, vorace predatore, contemplò il lavoro svolto di recente: lo giudicò magistrale, eccelso, difficilmente perfettibile. Passò in rassegna mentale il secco schiocco di cinghia che accompagna lo strappo dei nervi ottici ed il fetore che promana una rudimentale mutilazione domestica. Maledisse gli Dei per avergli negato il tempo di ultimare l’opera, di marchiare indelebilmente l’ennesimo capolavoro partorito. Uno sfregio di daga a profanare l’indole sacra di un affresco Vasariano.
La camminata del Guardiano, riemerso dalla stanza dei bottoni, solcò l’alone salmastro che appestava il locale. Munito di una coppa di latta ed una raggrinzita coperta in poliestere, si diresse all’indirizzo del Ragazzo Cieco. Curò l’adesione dei fianchi alle pieghe della trapunta e parlò compassionevole: “bevi, ti aiuterà. Purtroppo ho solo questo schifo di whiskey. Stanno venendo a prenderti: non ti addormentare”. Accostò le labbra del giovane all’economica tazza, facendo perno contro la base della nuca e dirigendo il capo con gentilezza. Ricevette in risposta un paio di sorsate, persino piuttosto corpose, ed un viscerale, liberatorio gemito di gratitudine.
“Il tuo cuore batte all’impazzata. Boom, boom, boom. Lo sento martellare. Sei nervoso, pressato, insicuro. Sai che ne uscirai sconfitto”, si intromise furtivo il Cormorano. La lapalissiana condizione di inferiorità in cui versava, pompando adrenalina in eccesso nelle arterie di una già esorbitante alienazione, lo eccitava.
“Zitto Cormorano”. Il Guardiano non pareva intimorito. L’esatto contrario.
“Mi conosci dunque”, rimbeccò celebrativo, orgoglioso il carnefice.
“Diciotto cadaveri sparsi per l’Arcipelago delle Lofoten negli ultimi trentasei mesi. Omicidi che si ripetono con cadenza ritualmente bimestrale, ognuno dei quali suggellato da una sigla inconfondibile: vittime sgozzate, occhi strappati dalle orbite e piume di cormorano innestate nelle vuote cavità oculari. Un modo di operare che è valso l’appellativo di cui tanto ti fregi, oltre che l’interesse e l’inchiostro delle prime pagine di tutte le testate norvegesi”.
Le iridi del Cormorano albeggiarono carminio vanità. Un proselito, un adepto si prostrava di fronte a lui. Avrebbe potuto designarlo protetto, istruirlo scientemente, affinarne le doti, così da far tamburellare l’eco del suo messaggio ancor più nitida per le zigrinature dei fiordi: “Affiliati a me. Ti insegnerò ciò che conosco. I segreti della vita, gli arcani anfratti della morte. Uniti plasmeremo il Cormorano: tu guiderai il becco che punge, io le ali che sbattono sopra la brulla pianura del quotidiano. Sarò un maestro”.
“Un maestro di idiozia: ecco cosa sei”, replicò sarcastico, ghigno strafottente, il Guardiano. “Ti ha colto in flagrante uno sprovveduto guardiano del faro. Sono bastati un colpo di fucile ed il cardine di rugginose manette per annacquare le tue velleità. Deglutite dal mare grosso della monotonia. Non potremmo mai condividere niente, stupido”.
Il siero venefico dell’offesa irrorò rapido le vene dell’interlocutore. Imbevve ogni microscopico capillare, irrigidì anche il più sottile dei legamenti, cristallizzandone l’elasticità. Paonazzo di rabbia, il Cormorano ficcò il pollice nel profondo della ferita da arma da fuoco. Filamenti di saliva e bestemmie unsero le maglie di una rete da pesca dimenticata a terra: “Ti ucciderò verme! Oggi, domani o tra migliaia di secoli! Morirai bastardo!”.
“Sicuramente. Intanto sei sotto scacco” sentenziò il Guardiano puntando dito ed orecchie verso i vocaboli traghettati dalle onde sonore provenienti dalla cabina di controllo: “Guardia Costiera di Austvågøy. E’ stato segnalato un Codice Rosso. Abbiamo appena attraccato al porticciolo dell’Isola di Sjel. Qualcuno risponda”.
“Scendiamo”, biascicò il Guardiano una volta afferrata la cornetta che penzolava dal corpo della postazione radio.
“Dammi un attimo – proseguì rivolgendosi al Ragazzo Cieco -, consegno la canaglia alla polizia e torno a prenderti. Sei quasi salvo: uno sforzo finale”.
Il Guardiano, avorio di probità, ed il Cormorano, bruno di collera, vennero inghiottiti dal vortice di scale a chiocciola che conduceva al piano inferiore. L’incandescente lampada appollaiata sul dorso del faro, mal manutenuta, sputava anemici cilindri di luce isofase e gracchiava mosci segnali acustici, castigando entrambi ad infrangersi contro la coltre di nebbia che ormai sovrastava un principio di maelstrom. Inutili alla bassa forza di vedetta ed al mondo intero.
Inutili come il Ragazzo Cieco, che rimase da sé nel cupo vano. Nell’universo a lampioni spenti che lo aveva fagocitato. Impiegò minuti, decine, ad affinare il rapporto coi sensi che ancora possedeva. Tatto ed olfatto rispondevano bene; del pari l’udito, che raccolse il calpestio appiccicaticcio degli stivali del Guardiano: “sono pronto a partire”, farfugliò speranzoso il mutilato.
“Non andiamo da nessuna parte figliolo”. La voce suonò lapidaria, funerea.
Il Ragazzo Cieco trasalì, preda della scarsa abitudine alla menomazione visiva e della nota di tabacco che il fiato dell’altro gli inalava nelle narici. Il racconto del Guardiano ebbe inizio: “al di là dell’orizzonte, dove le fattezze dei lineamenti perdono precisione e le figure abbandonano le forme, si staglia solitaria l’isola di Utrøst. Lì, tra ocarine e corone di conchiglie, dimorano per l’eternità le inconsolabili anime dei caduti in mare. Leggenda vuole che al riparo di quel suolo antico i defunti assumano le sembianze di cormorani”.
Il caritatevole velo olivastro della cecità risparmiò al Ragazzo Cieco l’angosciante avvicendarsi degli eventi. Il Guardiano sfilò una tavola del pavimento ed estrasse dall’intercapedine un consumato astuccio in radica. Un duplice, ermetico clack diede respiro ad un rasoio a mano libera e ad una saccoccia strabordante centinaia di piume. Piume nero pece di cormorano.
“Ma il Grande Blu è perfido, guitto, ingannevole – riprese -. Un fetente kraken che si annida tra coralli e gorgoglii dell’abisso. Aggirati per le osterie dei moli e scoprirai un bizzarro lazzeretto: comandanti con stinchi segati dal crollo di un pennone o dal cannone di un bucaniere; condottieri dalla sanità mentale smarrita sulla rotta di galeoni fantasma; nostromi imbullettati a sedie a rotelle dallo schiaffo di una bufera. Una pletora di genti, di valorosi, di prodi, condannata alla pena capitale ed inappellabile dell’esilio sulla terraferma. Stormi di uccelli con ali spezzate. E’ su costoro che si riversa la clemenza della mia spada, per loro beneficio che ne brandisco l’elsa: non massacro quei benedetti martiri, li libero dall’agonia. Restituisco ai cormorani l’incanto del cielo di Utrøst, tra i cui comignoli, altrimenti, non sarebbe concesso volteggiare”.
La carezza di una piuma soffiata dal Guardiano sdrucciolò delicata sull’irrigidito profilo del Ragazzo Cieco. Per un istante egli apprezzò il garbo, il tepore, la grazia della discesa sulle curvature del volto. Agitò alla rinfusa gli arti superiori nel tentativo di afferrarla; una pacca alla spalliera ruvida lo ricondusse nei meandri dell’incubo. “Ma io cosa c’entro?”, gemette disperato.
“Nulla. Assolutamente nulla. Pensati come il primo attore di un beffardo destino, adescato da una carogna di emulatore che pedinavo da settimane. Meriti di scegliere la tua sorte: vivere o morire? Prigionia o liberazione?”.
La consapevolezza di quanto aveva perduto rispose per il Ragazzo Cieco: “liberami”.
Preludio di sangue e silenzio. Agì con decisione. Con fermezza. Con rispetto assoluto. “Ci vediamo a Utrøst compare”: un fendente di lama, lesto come serpe marina, incise nella carotide un geyser color porpora. Bollente. Casto. Risolutivo.
Seguì il silenzio del sangue.
Il Cormorano, quello vero, contemplò il lavoro svolto di recente: reputò la missione portata a termine con successo. La finestra centrale accolse lo sguardo dell’uomo che le si parava dinanzi: il panorama in cartapesta, increspato dalle unghie della foschia artica, nascondeva la pallida sagoma di Utrøst. Il Ragazzo Cieco, ali cartilaginee di volatile sbocciate dalle scapole, planava spedito in direzione dei promontori dell’isolotto. Era tempo di raggiungerlo. L’allora Guardiano estirpò l’occhio artificiale dall’orbita sinistra come malerba, frantumò con sprezzo la biglia ed inserì nel canale una piuma madida di rimorso. Mentre le papille gustative assaporavano il salino delle canne mozze, ripensò a quando, da bambino, si divertiva a custodire gli spruzzi delle onde nella convinzione che fossero lacrime degli abitanti di Utrøst. Chissà se qualcuno avrebbe custodito le sue. Di certo non quelle che gli stavano graffiando le guance.
Il cranio esplose e la saccoccia di piume finì scaraventata per aria. Materia grigia e piumaggio fuliggine parvero roteare in un goffo giro di walzer, che si spense sull’oro di una medaglia scivolata dal gilet del Cormorano opacizzandone il luccichio: al valore e merito dell’Ammiraglio J. Larsson. A.N.I.M.: Associazione Norvegese Invalidi di Mare.
Credo si inserisca a pieno titolo tra le leggende popolari norvegesi popolate da esseri soprannaturali. Hai scritto una storia avvincente e ricca di avvenimenti, con una proprietà di linguaggio eccellente e un vocabolario vastissimo. I personaggi, inseriti nel contesto fiabesco che hai sapientemente costruito, sono assolutamente credibili Molto bella! L’unico appunto che mi sentirei di muoverti è legato agli aggettivi, che io metterei dopo i sostantivi e non prima. Per es: “il grezzo cemento” – il cemento grezzo; “sghimbesce assi”- assi sghimbesce, e così via. La lettura in questo modo mi appare più fluida. Bada bene, è solo una mia personalissima quanto più che modesta opinione, che non toglie nulla alla bellezza del tuo racconto. Complimenti
Ottavio,
ti ringrazio non solo per le bellissime parole che mi hai riservato, ma anche per aver apprezzato un testo che, mi rendo conto, si caratterizza per una prosa piuttosto “barocca” e “ricamata”.
L’intenzione era quella di ricostruire, anche sotto il profilo della scelta linguistica, le gelide e pittoresche atmosfere che contraddistinguono le leggende popolari scandinave.
Sono felice che il messaggio ti sia arrivato.
Grazie davvero, lusingato :-).