Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “Davanti alla televisione” di Paola Ciregia

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Oggi segna la conclusione di una settimana molto impegnativa, fisicamente ed emotivamente parlando.
I piedi gonfi e le braccia indolenzite reclamano a gran voce un po’ di riposo: è come sei miei arti mi stessero presentando il conto per i troppi sforzi cui li ho sottoposti negli ultimi giorni, per i troppi gradini percorsi, più e più volte, in su e in giù dal quarto piano, per i troppi scatoloni imballati e caricati su una macchina troppo piccola per trasportarli.
Ma la stanchezza che sento prevalere è quella mentale: tra tutti i muscoli del corpo, è soprattutto il cervello che chiede di essere messo in stand-by per qualche ora, giusto il tempo per ricaricare un po’ le batterie.
La cosa più sensata, forse, sarebbe dormire. Poi però penso che, se mi abbandonassi al sonno, domani arriverebbe troppo in fretta e io non voglio che questo accada: nelle ultime settimane la vita mi è scivolata via tra le mani talmente velocemente che vorrei solo avere un nastro per riavvolgerla e cullarmi nell’illusione di un epilogo diverso da questo.
Mi guardo intorno, priva di appigli: l’appartamento è vuoto e silenzioso. Mi è totalmente estraneo, e in questo mi rispecchia perfettamente, perché nemmeno io so più chi sono, né chi sarò a partire da domani. I muri dovranno essere imbiancati, i vetri delle finestre puliti, le mensole nel corridoio arredate: e anche io, in qualche modo, dovrò darmi una sistemata e ricominciare.
Ma a tutto questo penserò domani: oggi non ho né la voglia né le energie per cominciare niente, figuriamoci la mia nuova vita.
Continuo a guardarmi intorno disorientata, fino a che non vedo l’unica cosa che in qualche modo mi è familiare: un grande tubo catodico, segno tangibile dell’anziana signora che prima di me ha abitato questa casa.
Ecco, finalmente decido cosa voglio fare oggi. Semplicemente, voglio abbandonarmi alla televisione: ascoltare cosa ha da raccontarmi senza chiedermi niente in cambio, come un amico fedele e remissivo che non osa contraddirti, né farti domande inopportune. E’ a lei che, in questa domenica di transizione, voglio dedicare il mio tempo e il mio spazio.
Ammetto che mi capita abbastanza spesso di guardare la tv, soprattutto nella fascia pre e post-telegiornale; ma la guardo a piccole dosi e, soprattutto, in maniera essenzialmente distratta: di solito, la televisione mi fa da sbiadito sottofondo mentre preparo la cena o carico la lavastoviglie (o, almeno, era il sottofondo di me che facevo queste cose, perché, da domani, chissà quali nuovi ritmi scandiranno le mie giornate…).
Oggi, invece, di televisione me ne inietto una lucida overdose e, inaspettati, gli effetti collaterali non tardano a farsi sentire.
Fino a stamattina, se mi avessero chiesto di descrivere con un aggettivo qualificativo il mese appena trascorso, non avrei usato un aggettivo di grado positivo; avrei usato un comparativo.
Avrei risposto: la mia vita, recentemente, non è stato brutta, o tragica, o terribile. Semplicemente, è stata peggiore: peggiore di qualsiasi altro momento pescato a caso nel mazzo dei miei trentadue anni vissuti prima di venerdì 17 novembre 2015.
Ma adesso devo ricredermi. Qualcosa di peggiore esiste: lo sto vivendo proprio adesso, anzi, lo sto guardando proprio adesso.
Guardo la falsa modestia di quelli che, ogni sera, non perdono l’occasione di autocelebrarsi davanti ai loro dodici milioni di spettatori per aver battuto la concorrenza nella spietata guerra dell’audience; guardo la reciproca e autoreferenziale pubblicità che, senza alcun ritegno, i padri fanno ai figli e i mariti fanno alle mogli e pure alle amanti, alla faccia di quella meritocrazia che, in slanci di falso buonismo, tutti caldeggiano; guardo l’ostentazione con cui crocifissi tempestati di diamanti spiccano su scollature plastificate che di castigato e intimista hanno ben poco.
Guardo l’ipocrisia di politici onnipresenti, quelli che si sciacquano la bocca e la coscienza con slogan e ricette preconfezionate per combattere i germi di una crisi da cui, però, loro si sono cautamente immunizzati grazie a privilegi e clientelismi ai quali non vogliono rinunciare; guardo la svilente smania di facile notorietà di giovani e meno giovani alla ricerca di un posto nell’agognato mondo dello spettacolo, sconosciuti della porta accanto che, pur di conquistarsi la simpatia del pubblico, si cuciono addosso la maschera di personaggi stereotipati e caricaturali con cui andare in scena.
Guardo la superficialità di autoproclamatesi testate giornalistiche che alternano penose storie di cronaca a dibattiti sulle ultime notizie di gossip, quasi come se le emozioni degli spettatori fossero simili a interruttori della luce: basta un clic ed ecco che si spegne la compassione per le vittime degli attentati in Medio Oriente e si accende la curiosità morbosa per le vicende sentimentali a orologeria tra il calciatore e la soubrette sudamericana di turno.
E, soprattutto, guardo il presenzialismo logoro e logorante dei soliti noti, quegli opinionisti senza alcun titolo o merito che di professione fanno gli ospiti nelle trasmissioni domenicali, che si ergono a giudici imparziali e inappellabili di vicende di cui hanno letto a malapena due righe prima di entrare in studio e che hanno la tendenza distorta a santificare qualsiasi persona famosa o semi-famosa morta in circostanze più o meno tragiche (per inciso: indubbiamente brave persone, per carità, ma come forse ce ne sono tante nella realtà che non trova spazio sui giornali).
Beh, guardo tutto questo e penso che la vita vera, con le delusioni che ti corrodono lo stomaco, le incazzature che ti fanno urlare fino a perdere la voce e le paure che ti accompagnano verso un domani di cui non sai niente, in fin dei conti è meglio di tutta questa finzione in scatola.
Mi viene anche in mente che, fino a qualche anno fa, i tuttologi del niente di cui sono infarciti i programmi pomeridiani si riciclavano pure in animatori del San Silvestro: incravattati e tirati a lucido, a inizio dicembre registravano una bella pubblicità patinata nella quale, a ritmo di musica e di brindisi, invitavano gli spettatori a trascorrere con gli amici l’ultima sera dell’anno.
Per fortuna, questa è una tendenza che con il tempo è andata scemando: forse qualcuno, ai piani alti, deve essersi reso conto che di amici è bene averne altri, preferibilmente in carne e ossa; e se proprio di amici non se ne hanno, forse è comunque meglio starsene soli, per quanto questo possa essere oltremodo deprimente a Capodanno.
Già, starsene soli.
Cinque ore fa, mi sono affidata alla televisione cullandomi nell’illusione che potesse essermi di conforto e compagnia, che potesse sovrastare il silenzio che mi circonda e riempire almeno un po’ il vuoto che sento dentro e vedo intorno a me.
Ma adesso, mi sento più sola e svuotata di prima. Anestetizzata e quasi derubata, anche se non so esattamente di cosa. Del mio tempo, forse.
Del resto, anche nella vita, a volte, succede così. Ti affidi con disarmante devozione a una persona con cui condividere il tuo tempo e il tuo spazio, una persona che ti sia di compagnia, di stimolo e di conforto. Ma poi questa persona ti lascia, e così ti ritrovi derubata dei tuoi anni migliori, e della felicità.
Guardo gli scatoloni ammassati alla parete, un’intera vita da spacchettare e ricollocare in nuovi armadi e nuove mensole. E guardo il biglietto da visita dell’avvocato che dovrò chiamare per avviare le pratiche della separazione: quel biglietto mi racconta di te, delle tue bugie, dei tuoi tradimenti, dei tanti progetti che avevamo e che ormai sono solo un lontano ricordo, proprio come i Capodanno di canale cinque.
Poi, do un’ultima occhiata fugace alla tv, prima di spegnerla.
Mi vengono in mente le parole di una canzone di Vasco che cantavo in motorino mentre andavo al mare, con il casco slacciato e la spensieratezza dei miei sedici anni: “e guardando la televisione, mi è venuta come l’impressione che mi stessero rubando il tempo…”
E che tu mi rubi l’amore.
Ma questa è tutta un’altra storia e non basterebbe certo un racconto breve per descriverla.

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2 commenti »

  1. L’ho letto d’un fiato trascinata dal vortice della rabbia della protagonista. Credo che scrivere sia un ottimo modo per mettere ordine e che leggere sia anche una maniera per non sentirsi soli … a dispetto della televisione …

  2. A metà tra un articolo di costume e uno sfogo. Il racconto di un pezzo di vita chiuso nelle scatole, contenenti o meno tubi catodici, ma anche di una porta che si apre sul nuovo. Mi è molto piaciuto, complimenti e auguri

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