Premio Racconti nella Rete 2016 “Il geografo cieco” di Carlo Nardi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016Fu nel sonno dei suoi occhi che maestro Eliel finalmente comprese che il mondo era uno, chiuso. Comprese che doveva iniziare e finire senza però alcun punto dove poter dire che cominciasse o uno dove finisse e che le isole lontane sul mare erano segretamente tenute insieme da una grande terra nascosta dalle acque.
Solo il buio nei suoi occhi lo portò a comprendere che la terra era sferica come il sole e la luna, come la pietra levigata che può prendere ogni direzione.
Solo nell’ombra vide che, sì, salendo più in alto se ne ampliano gli orizzonti, ma che solo percorrendola in basso la si sarebbe potuta comprendere.
Maestro Eliel perse la vista nell’età in cui avrebbe potuto avere un figlio da suo figlio se il mare non l’avesse preso ancora giovane. L’allargarsi delle macchie sui suoi occhi, a chiudere inesorabilmente la vista, resero più attento il suo acume.
Pur nella cecità maestro Eliel rimase geografo. Con due mani sulla pergamena misurava lo spazio e con le triangolazioni delle sue dita trovava l’ordine per tracciare margini, linee di costa, alvei di fiumi e creste di monti, con lo stilo. Nessuno vede la terra come fosse stesa su una pelle se non, per approssimazione, gli uccelli del cielo che volando la srotolano. Allora l’uomo astrae e non con la vista, con la mente. La pergamena che Eliel misurava era poi colorata a pennello dai suoi apprendisti con le tonalità dei loro occhi, le tonalità che sempre cambiano per la luce del sole. I loro occhi avevano le tonalità del freddo. L’azzurro dell’acqua specchiata dalla luce, del blu profondo, del viola della pelle gelata, del grigio. Questi colori bastavano per dipingere il mare, le rocce affioranti, le terre sassose e fitte nel nero dei tronchi. Maestro Eliel aveva invece negli occhi il bianco del ghiaccio.
Quando le onde non lasciavano andare per mare gli uomini Maestro Eliel ascoltava i resoconti dei navigatori e poi li rinarrava e tracciava le sue carte. L’anno in cui il gelo morse il fiordo prese a dettare nuove parole, a tracciare altre mappe e ad indicare ai suoi apprendisti colori nuovi per campirle. Chiese di mescolare alle polveri il pigmento verde degli aghi d’abete alla luce piena del giorno, chiese di preparare il colore del midollo della betulla nelle gradazioni che viravano ai colori del fuoco, verso i toni del rosso e del giallo , e chiese di preparare il bruno del legno arso.
I navigatori presero a sostare presso la sua bottega non per riportare i loro resoconti ma per ascoltare le descrizioni di Eliel:
“A sud vi era una terra che dall’ocra muoveva al verde e che volgeva al bianco nelle sue cime e si chiudeva attorno ad un grande lago d’acqua calda. Ultimamente le sponde vivevano di violente ondate di genti in armi e genti in mendicanza. Secoli addietro i popoli della sponda che volge al tramonto erano in lotta con le genti della sponda dell’alba finché un condottiero salito da sud non le unì credendo che quello fosse tutto il mondo. Al mancar delle forze cedette poi ad un reggente designato il peso del regno.
Il regno non ebbe mai una capitale. Ne ebbe sei, le sei maggiori città sul lago. Da una all’altra la distanza era di circa dieci giorni a cavallo. Ogni anno, nel giorno in cui la luce durava quanto il buio ed buio si faceva sempre più piccolo, la capitale cambiava. Dignitari e corte caricavano grandi carri e con le tende al seguito si spostavano.
Il carro in testa portava il reggente del regno e custodiva le mappe di ogni città e di tutto il loro mondo, le chiavi di ogni porta del re e la cassa con le leggi. Ogni volta che la capitale si spostava le mappe venivano aggiornate e arricchite perché nulla sfuggisse al reggente.
Alla morte del primo reggente i suoi figli aspirarono all’eredità della carica. Egli non ebbe mai designato il suo successore, infatti. La guerra per la successione terminò solo quando sei dei dodici figli del reggente rimasero in vita. Ognuno scelse una capitale e sulle sue terre regnò. La tregua durò una generazione. Dalla successiva cominciarono invasioni e conflitti sempre aperti, roghi e vendette.
La città a sud da cui partì in origine la conquista, un tempo presente nelle memorie e onorata ogni sette anni con un mese di feste e riti, venne completamente dimenticata perché solo la pace e la comunione delle sei capitali poteva farla vivere.
Ancora più verso l’alba, separata da una cresta invalicabile di rocce rosse, sorgeva verde un regno dove uomini e donne vivevano in case distinte. Il regno era retto dalla legge che un profeta di quei luoghi fissò con il dono di una fonte d’acqua inesauribile dal monte.
Quattro orde di invasori a cavallo la infestarono ma mai questa terra cambiò usanze. Ogni orda da dominatrice passava sempre a dominata. Nell’opulenza della fonte si sottometteva alla legge del profeta. I consacrati del profeta avevano il tesoro più grande che potesse piegare le lame degli invasori: il controllo delle acque. Cosicché gli eserciti arrivavano ed esausti si trasformavano in ospiti e nuovi fedeli della fonte.
Più a sud vi era la terra frastagliata sulle acque. La si chiamava la Mano per le sue cinque penisole. Nel golfo tra la penisola del pollice e quella dell’indice sfociava un fiume che arrivava dalle steppe del nord. Ogni sua penisola, golfo e istmo era luogo di arti e mestieri. Dall’entroterra lì giungevano tributi e materie che venivano trasformati con maestria per poi prendere la via delle carovane per mare e per terra.
A nord vivevano fra le anse del grande fiume tribù di pastori che si riconoscevano in un antenato comune. Tra loro non avevano mai fatto scorrere il sangue. Nell’errare raccoglievano minerali e gemme che poi commerciavano con la grande città di Ad verso occidente.
Gli abitanti di Ad vivevano coltivando per metà dell’anno, quando i ghiacci delle montagne nel disgelo lasciavano scorrere l’acqua ai loro campi, e per l’altra metà dedicandosi allo stordimento nel vizio ed in rituali e sortilegi con le pietre preziose che i pastori davano loro.”
Maestro Eliel nel suo buio raccontava, senza stancarsi, di porti, scogliere, selve, città e botteghe, paesi di pescatori, tende di nomadi, pascoli, torri e fossati, navi e lunghi muri coperti di sterpaglie e muschio. Ogni luogo era sulle mappe ed infinitamente piccolo sulle mappe era il fiordo.
Il consiglio del fiordo riunitosi una volta con le ultime pergamene dipinte passò la notte turbato. Il fiordo, così piccolo sulla mappa, grigio, blu e bianco, non era niente nella vastità di acque, terre, pesci e bestiame del mondo.
Alla prima luce del mattino, quando l’ombra cominciava a dissolversi, tutto il consiglio era ormai concorde nel prendere la via del mare. Col nuovo corso della luna dieci scafi erano pronti a prendere il largo.
Alla testa, sul ponte del legno più antico, Maestro Eliel stava sentendo i colori del vento quando il capo timoniere con un rotolo di pergamene in mano chiese con reverenza: “E’ accaduto davvero tutto quello che con questa mappa ci hai narrato?”
Eliel rispose: “Se partiamo.”
Mi è’ sembrato di leggere tanti piccoli racconti rinchiusi in una unica storia: finale splendido! Complimenti al tuo modo di scrivere: originale.
Bello! Tra Borges e Calvino, con una punta di spirito d’avventura.
Ringrazio entrambi per le osservazioni. Apprezzamento a parte, molto gradito, sono gratificato dal fatto che abbiate saputo leggere molto in profondità. Aurora, hai intuito che dietro l’estrema sintesi del racconto c’è magari una grande saga da narrare. Maurizio, tu invece hai scoperto quali autori affollano di più la mia libreria.