Premio Racconti nella Rete 2016 “L’inganno delle formiche” di Angelo Chiafari
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016O forse sono morto, sicuro sono morto/
oppure sono nato e non mi sono accorto.
D. SILVESTRI, Il dado
Ero sicuro di averla uccisa. E invece è ancora lì. O qui. O comunque sia esatto dire.
È lei, è proprio lei. Anche se da qui non la vedo, se ne sente il solito irritabile rumoreggiare tra i tegami. Ne percepisco la presenza, nella luce opaca al di là del confine scuro, oscuro, oltre la soglia che pare una bocca infernale. Dove sia l’inferno, di qua o di là da essa, non è affatto facile da appurare.
Eppure credevo di avercela fatta, l’avevo ammazzata stavolta, ne ero sicuro.
Credevo di esserne sicuro.E invece anche questa volta è ancora lì. Di nuovo, senza ritegno, lei e la sua mania dell’ordine.
E quella voce: stridula, sconsiderata, vandalica. Spero che non si metta anche a cantare adesso.
Sarebbe insopportabile, insostenibile. Impedisce di pensare, imprigiona la mente, inibisce le sinapsi, addormenta, narcotizza…Ora mi chiama. Non le rispondo. Faccio finta di non aver sentito. Sto dormendo, fingo di non essere cosciente. L’alternativa sarebbe fingere di esserlo.
Non le rispondo, ma questo non le basta. Continua, non si arrende. Reitera il mio nome come il proclama di una condanna. È come un boia, è senza pietà, senza clemenza alcuna. La sua voce è una scure, i suoi accenti sono aghi…
Dio santo, smettila…Smettila!!
“Sono qui!”
Dannazione. Ho dovuto risponderle, per farla smettere. Santo cielo, detesto quando pronuncia il mio nome, detesto tutto quello che fa; tutto quello che è. Quando tutto questo è cominciato? Quando tutto questo è successo? Forse nemmeno sta succedendo, forse nemmeno è reale.
Io l’ho uccisa, lo so. L’ho liquidata, eliminata, lo so. Ho sentito lo sparo questa volta, l’odore della polvere che brucia. Ho visto nella penombra la sua testa esplodere, la sua essenza tenebrosa spruzzarsi sulle pareti.
Oppure l’ho sognato, ancora.
Nella mia memoria c’è la reminiscenza di tutte le volte che l’ho uccisa, di tutti i modi in cui l’ho fatta fuori. Eppure è ancora lì, oltre il buio, oltre i contorni rettangolari che squarciano regolari questa oscurità. Mi arriva la sua tossica presenza, con quella voce invadente, acuta, che sembra squittire e spappolarmi le meningi.
Eppure ne ero certo; ne ho eco, rievocazione, ne conservo la coscienza, di nuovo.
L’ho già uccisa cento, duecento volte. Mille, forse. Innumerevoli. Me lo ricordo…Oppure l’ho sognato…
Erano sogni, illusioni; io stesso, magari, non sono reale.
Oppure il sogno è questo. Forse sto già dormendo e l’incubo continua a persistere nella mia coscienza.
Oppure è la mia coscienza la vera illusione.
Io sono reale, lo so. Non sono matto. No, non sono matto. Lo so.
Il problema è che sono sano. Un sano che sa di non essere pazzo, consapevole che tutti i pazzi credono di essere sani.
Sto delirando. Si, sto farneticando, sono in pieno delirio.
Oppure semplicemente esisto…
«Tesoro?! Ma che fai, dormi?». L’ombra di Samantha comparve sull’uscio del soggiorno buio e vi sconfinò. La sagoma invadente del suo corpo si disegnò nera dentro la luce alle sue spalle, che abbagliava gli stipiti immoti.
«Amore?!», gracidò e strepitò di nuovo, avanzando repentina di qualche passo.
La mano scosse le membra composte, affondate nel conforto della morbida poltrona color carbone. «Dai, apri gli occhi!», ordinò poi, implorando.
Gabriele sollevò stancamente le palpebre, rianimato da quella voce, intemperante e stucchevole al pari del patinato profumo dolciastro di zenzero e vaniglia che la precedeva. Gli occhi gli si socchiusero pigri, reclinò vagamente la testa. Sembrava un gioco, un’amorevole canzonatura.
Con un balzo lezioso e irriverente Samantha sollevò le tibie depilate e lucide per lievitare nel buio. Con planare di piuma, atterrò grave nel tonfo soffice che fece la poltrona di pelle scura sotto il corpo impreparato di Gabriele.
«Uhmf..» emise lui, espirando nell’ammortizzare il cadere di lei pesante e dolce sul bacino.
«Allora? Sei sveglio?», indagò la donna, teneramente molesta. E lo abbracciò, avvolgendolo al collo virile prima di accostare le labbra verniciate al viso glabro e conforme. Il rosso vermiglio glitterò nella densa penombra schioccando un caldo bacio, sonoro come un premuroso e appassionato colpo di frusta. Quindi, la testa di lei si adagiò, sognante, sulla spalla solida.
Si godevano il matrimonio da sette anni. Una coppia regolare, perfetta, senza sbavature. Tutto era sempre stato per loro, ed era, come doveva essere, come il buon senso comune si aspettava che fosse: dorato, invidiabile, secondo le regole. Ne andavano fieri. Anche se a tanta perfezione, come da precetto, mancava il coronamento, la sintesi che avrebbe reso intoccabile ogni tassello di quel meraviglioso e predefinito mosaico che erano le loro vite. Nessun problema, comunque; presto si sarebbe rimediato, era sicuro. Ci si stava rimediando.
In effetti, la voglia di postare le foto su facebook c’era già. Mancava solo il figlio.
«Non vedo l’ora che sia domani», riprese poi Samantha, quasi sussurrando. Alzò la testa e lo guardò, mentre i muscoli facciali dell’uomo tracciavano un viso animato nel mantenere un riservato silenzio.
«E dai! Un po’ di entusiasmo! -continuò lei- Vedrai, faremo una marea di cose divertenti. Il centro commerciale è così grande!»
«E se invece ti portassi al mare?», propose incerto Gabriele, premurandosi di mascherare la smorfia e il conato che la prospettiva del giorno seguente gli provocavano.
«Oh, uffa –si accigliò subito lei– Che noia! Il mare. Ecco che ricominci…»
«Ma no, non ricomincio –Gabriele mostrò senza indugio la bandiera bianca– Magari poteva essere piacevole starsene un po’ all’aperto, invece che tutto il giorno tra le pareti dei negozi affollati. Non so, magari una passeggiata…»
«Eh, no! -si irrigidì la donna, puntandogli l’indice minaccioso dritto sotto il naso– Eravamo d’accordo che domani avremmo passato tutta la domenica al centro commerciale!».
«Appunto, non sarebbe meglio se…»
Samantha non lo ascoltò neppure, stroncando con decisa indifferenza quel vano tentativo di una flebile arringa. «Allora, voglio comprare un po’ di cose per il salotto, lì in quel negozio carino che, aspetta, come si chiama?…»
«Non lo so, non ne ho idea. Ma…»
«E poi ci servono delle tendine carine per la cucina, queste che abbiamo sono così, come dire, tristi…»
«Tristi?»
«Sì, tristi. Ne voglio prendere di più colorate!»
«Più colorate…»
«Esatto!…Uh, tesoro, sapessi! Ne ho viste un paio! Carinissime, tutte a fiorellini!»
«Ssi…»
«Poi voglio entrare da, come è che si chiama? L’outlet che ha quei bei vestiti, quello enorme. Ne ha di stupendi. Voglio sceglerli con cura, con tutta la calma. E anche per te, guardo io un paio di camicie per te. Vuoi che ti compri anche qualche maglioncino? Fra non molto arriverà il freddo. Vediamo, stavolta voglio provare come ti sta il rosa…»
«Rosa…», deglutì Gabriele, senza avere altra forma di dissenso per controbbattere.
«Ah! E un profumo! Sai quella bella profumeria, quella grande? Ne hanno di buonissimi!»
«Ssi…ottimi..»
«E c’è bisogno di riempire un pochino la dispensa, sai tesoro? Voglio girare tutti gli scaffali del supermercato, ci sono delle offerte, ho letto, favolose!..Ouch!!…», s’interruppe di colpo Samantha. Come in un dolore improvviso, sfilò da sotto la schiena qualcosa di spigoloso, un oggetto davvero scomodo su cui le si erano appollaiate le natiche tese.
Rigirò il parallelepipedo con aria palesemente seccata sotto il naso allarmato di Gabriele.
«E questo?», intimò quindi.
«Cosa?», si difese flebilmente lui.
«Cosa è?», iterò la donna, con una cera di sconforto e delusione.
Gabriele la guardò, conoscendone i pensieri. Infine, quello che emise parve quasi il tono di una giustifica: «Sono i Nove Racconti di Salinger», balbettò.
«Di chi?», disse lei soppesando incerta il volume, che appariva come un mattone scuro tra i giochi della penombra ferita dalle lampadine accese nel tinello.
«Niente… -si arrese lui– È solo un libro…»
«Uff, ma non ti stanchi mai? Sei sempre con questi cosi tra le mani…»
«Libri…», puntualizzò egli.
«Libri! – fece treno lei-. Leggi sempre! Continuamente a leggere! Che noia…»
«In realtà, -tentò l’uomo- saresti tu che non leggi mai…».
«Uffa, che noioso. Ho altro da fare che perdere tempo io, sai? E poi leggere non mi piace…Preferisco il centro commerciale», concluse, appoggiando nuovamente la testa sul corpo del marito. Ovviamente, nel contempo, con fare incurante si liberava del fastidioso insieme di pagine, gettandoselo alle spalle come un nero frusciante pipistrello.
Gabriele deglutì. Il buio custodì ciò che gli occhi sgranati nascosero. Contrasse le dita sui braccioli morbidi della poltrona. Si irrigidì, in silenzio.
Samantha lo avvolse dolcemente, sdraiata su di lui con la testa sul torace levigato. «Noi non litigheremo mai, tesoro mio, vero?», civettò.
Egli si fece forza. «Certo che no», volle rassicurarla.
Samantha lo abbracciò più forte. «Ti amo», gli sussurrò leggera, sfregando la punta del naso sul suo collo pulsante e inerte.
Era calda Samantha, adesso quasi invitante. Chissà quali pensieri lascivi prometteva sotto la pelle mentre gli mordicchiava voluttuosa l’orecchio.
Gabriele si lasciò masticare, senza opporsi ma senza trasporto.
Il fastidioso piacere si accompagnava alle mani di lei lungo i pettorali distesi sotto la camicia. Avvertiva la vibrazione, il tatto di velluto che le dita aperte producevano sugli addominali contratti dalla pulsione irruenta e selvaggia, animale.
La cascata di carezze terminava sull’inguine irrorato dall’intensa eccitazione fluida che il sangue modellava sodo e consistente sotto i pantaloni di cotone levigato grigio cenere.
Sorridendo soffusamente, Samantha emise compiaciuti versi di soddisfazione felina nell’orecchio del marito. Lo baciò, sensuale, sulla guancia rasata e odorosa. La vernice rossa delle labbra lucide lampeggiò nel buio del salotto assopito, lasciando una ovale traccia glamour. Lentamente lasciava la presa per ritrarsi, come l’onda placida si ritira sul bagnasciuga e, riverberando una scia di carezze, si alzava davanti alla statua eccitata ed inquieta di Gabriele. Infine, gli si piegò ancora una volta sul viso, protendendogli il collo sinuoso, irresistibile, invitante, oltre gli zigomi, nel rosso di un sussurrare suadente.
«Io vado a prepararmi per la notte. Ti aspetto sotto le lenzuola -disse. E chiosò ammiccante- Non fare tardi…»
Gabriele ne avvertì il sorriso dimesso, l’affascinante distendersi delle labbra carnose e vivaci e il trasparire di perle perfette. Ne percepì lo sguardo allettante nell’allontanarsi verso le scale. Attese la musica dei passi ascendenti e cadenzati, l’armonia dei movimenti di braccia nude, flessuose nell’evanescenza della penombra come ali di falena.
La luce del tinello emanava adesso un alone freddo, neutro, pallido, quasi ospedaliero. Adesso le pareti si spegnevano nella mancanza del fastidioso piacere di ospitare la bellezza di Samantha; un’assenza che feriva, la carne e l’anima.
Il ticchettio regolare della goccia che precipitava nel lavandino, oltre il confine tra la luce e il buio, il battito del cuore di Gabriele che aveva preso a solfeggiare in sincope, i passi inudibili e leggeri, ovattati dal piano superiore, tutto sembrava modellarsi nei meandri auricolari con una cadenza crescente e inesorabile, come il paralizzante parossismo del Bolero di Ravel.
Ansia, rancore, frustrazione, desiderio, pulsione, tranquillità, ipocrisia, finzione, senso, verità: Gabriele strinse le dita rigide sui braccioli soffici della poltrona liscia, accogliente come un utero nero.
Respirò, cercò di riannodare la respirazione, inspirò lento ed espirò piano. Respirò nuovamente, calmandosi, rallentando il gonfiarsi e l’affievolirsi del torace. Espirò ancora, cercando un appiglio che lo preservasse ancora una volta dal gorgo, dall’abisso latente sotto la superficie delle cose.
Allungò il braccio sul mobiletto traslucido di fianco al suo trono gelatinoso e scricchiolante, prese il telecomando, esaminò i tasti con le dita cieche. Puntò verso l’occhio rosso, mefistofelico, dell’apparecchio a riposo. Lo schermo si illuminò, mentre distendeva la schiena.
Restò così, invaso da silenziose immagini catodiche, con l’anima spezzettata in pixel che evaporavano adagio come uno sciame di lucciole nella notte, abbandonandosi al franare deframmentato della coscienza.
Dio Santo, pensavo se ne fosse accorta. Quando è trasalita, ho creduto che avesse fatto caso alla pistola nascosta sotto il cuscino sul fondo della poltrona. E invece la letteratura mi ha salvato.
Ce li ho sotto le dita tutti i miei libri, disposti tra le mensole del mobile qui a fianco. Forse potrei ucciderla usando uno di questi volumi. Sì, sarebbe una soluzione brillante. Magari con i racconti di Poe; magari con Proust. No, cara, no, ho deciso: forse stasera ti ucciderò con Dostoevskij…
Smettila…falla finita…È tutto inutile…
La goccia nel lavandino continua a cadere. L’acqua continua a rivolare dalla lavastoviglie. Questa casa mi inquieta. È la mia mente che la produce? O è una reale prigione? Forse, cara, ti ho già ucciso, in una realtà che non è questa, in una realtà che è davvero reale, mentre questa è solo la proiezione della mia mente malsana. Forse mi hanno internato, mi hanno punito per il mio delitto, che la mia coscienza continua a rivivere.
Eppure la voglia di possederti era reale. Le tue dita sul mio corpo erano vere.
Quando, quando ho cominciato ad odiarti così, amore mio?
Eccole di nuovo, non me ne libererò mai. Sono dappertutto, invadono questo pavimento bianco come la tua pelle profumata di fiori d’arancio. Sono milioni, miliardi di formiche. Sono dappertutto, vengono fuori dai mobili, dalle porte dalle pareti. Si affollano sotto i miei piedi come un’informe massa brulicante. Un’infinità di insignificanti microscopiche vite che ora si assimilano l’una all’altra. Oh, mio Dio, ancora. Ora diventano una sola, una sola piccola formica, che viaggia incurante accanto ai miei piedi.
La calpesto, ci provo. L’ho calpestata milioni di volte, ma non funziona. Fa finta di morire.
Hai mai provato a calpestare una formica, tesoro? Ah, già. Dimenticavo che non hai tempo per queste sciocchezze. Ti odio quando pensi di essere viva. Se tu provassi a calpestare una formica mi capiresti, forse. Sembra inerte. E invece si muove ancora. Si muove di nuovo.
Le formiche ingannano, amore mio. Ne uccidi una, ne vivono diecimila.
Non sono matto, devi credermi. Tutte queste formiche, non sono che un inganno…
Non sapeva quando si fosse addormentato. Non credeva nemmeno di stare dormendo, ma si destò. Aprì gli occhi, prima come sfocate fessure liquide, poi sgranandoli. Riemerse; ma di quando fosse sprofondato non si ricordava.
Il televisore muto crepitava di luce grigia e silente senza immagini, una bianca statica dimensione invasa da milioni di minuscole formiche nere.
La goccia impietosa precipitava incurante e ritmica dal rubinetto difettoso, squillante nel morire insieme alle compagne già morte nella bacinella ripiena sul fondo del lavandino.
Un rivolo impercettibile dal portello della lavastoviglie manifestava la sua umida presenza fino al pavimento bianco floreale, inzuppando il tappetino folto accuratamente scelto in rosa pesca.
Erano giorni che gli si rimproverava di risolvere il problema.
“Sarà la guarnizione, bisognerà cambiarla”.
“E allora perché non lo fai?”.
“Io? Ci vuole un tecnico, cara”.
“E allora chiama il tecnico, caro”.
“Va bene, lo farò”, si chiudeva ogni volta la conversazione. Ma poi non lo faceva.
Consciamente o inconsciamente, non aveva intenzione di aggiustare quella imperfezione. A volte, quell’incrinatura nel mondo definito e incorruttibile sembrava rappresentare l’unico spiraglio nel meccanismo inaccessibile dell’esistenza. Una sbavatura necessitante, la falla su cui crollava il sistema, la patina scrostata che suggerisse un senso alla realtà.
Si sentiva indeciso, inerte, improvvisamente stanco di lottare, di duellare con ogni cosa, con sé stesso, con il mondo, con l’illusione della vita. Con l’amore. Con l’odio.
Non ce l’avrebbe fatta nemmeno questa volta, non l’avrebbe spuntata. La sua intima folle rivoluzione era inutile, destinata forse a fallire, continuamente.
Eppure nient’altro valeva che tentare. Nient’altro sembrò avere senso, ancora una volta.
Infilò la mano tremante lungo il lato del cuscino spesso sotto di sé. Estrasse l’arma fredda, luccicante nel chiarore algido emanato dallo schermo. La rigirò davanti agli occhi, poi se la depose in grembo, tenendola in pugno.
Pochi infiniti istanti dopo si decise. Si sollevò nel buio, come un’ombra infernale, sbiadito e ansimante come uno spettro disumano. I suoi passi furono lenti, fluttuanti senza rumore. La goccia dal rubinetto cadde ancora indifferente e precisa nel tacere dell’oscurità. Il rivolo della lavastoviglie riverberava fatale sul candore del pavimento.
Mentre saliva le scale, Gabriele si fermò, fu solo un istante, una breve indecisione, un increscioso punto interrogativo su ciò che ancora stava per fare. Osservò nevrotico l’arma nella sua mano. Poi successe qualcosa. Qualcosa che mancava, un segno, una spinta.
Un piccolo e sonoro schiocco, remoto nello spazio, e lo schermo al piano di sotto si era spento all’improvviso. La luce nel tinello non invadeva più i confini della sala sotto di lui.
Era saltata la corrente. Gabriele comprese, con la sua folle insana lucidità: il rivolo della lavastoviglie aveva raggiunto il suo scopo, aveva toccato qualche cavo ed era saltato il salvavita (salvavita, pensò, che ironia…)
Erano le acque del caos che invadevano l’ordine delle cose, che stavano forse per vincere l’ennesima eterna battaglia.
Il cuore, da impazzito, si fece tenue. Una sicurezza nuova, un brivido, una scarica di vita gli riscaldò il cervello. E fu l’unica cosa che gli sembrò davvero reale.
Distolse quindi gli occhi dalla pistola e riprese a salire, fino a raggiungere il pianerottolo di fronte alla porta socchiusa della camera da letto.
Ora sapeva cosa fare, l’aveva già recitato cento, mille, innumerevoli volte quel copione irrisolto.
Il corpo di Samantha riposava nudo nella seta cremisi delle lenzuola, rivolto di spalle, disegnato dal chiarore della notte che filtrava dalle tende ferme. La stanza arricchita di mobili raffinati e fiori sembrò ricolma di mostri neri, frementi nelle tenebre.
Gabriele oltrepassò l’uscio in silenzio, impassibile come un automa privo del sentire umano. Oramai non aveva più sudore, né altra emozione. Aveva solo sete, sete di verità.
Il braccio gli si tese, conosceva la direzione.
Puntò l’arma.
Lo sparo durò per milioni di istanti, improvviso e rallentato, rimbombando di una cosmica eco. Sulla parete ampia al di sopra del letto, la materia grigia di Samantha, spruzzata insieme alla vita estinta, produceva l’estetica di un quadro astratto.
Gabriele abbassò il braccio, restò a contemplare la sua opera senza calore nelle vene. Cosa sarebbe stato adesso? Cosa sarebbe avvenuto? L’aveva davvero uccisa questa volta? O era l’ennesimo ripetersi di un incubo imparziale?
Allungò le dita sull’interruttore, forse avrebbe potuto guardare meglio con la stanza illuminata, convincersi di cosa fosse realtà, di cosa fosse illusione. Spinse la chiavetta con i polpastrelli decisi. Ma nulla avvenne, nulla cambiò. L’alcova di morte rimase buia.
La corrente, pensò. Il salvavita…
Ma non fu quel concetto sardonico che lo fece finalmente sorridere. Fu invece l’idea che lo aveva pervaso subito dopo, l’apparenza forse della soluzione a tutta quel folle flusso di inconsistenze.
Era lì, forse, la risposta. Ce l’aveva sempre avuta tra le mani senza mai accorgersi.
“Che stupido -si disse sogghignando di sarcasmo-, sei davvero uno stupido…” ; finché l’accenno divenne un consapevole sorriso.
Analizzò con ossequio la pistola che ora si era portato davanti al viso. Era nera, lucida, bellissima, rassicurante. Meccanica e fredda nella sua realtà.
La rigirò verso di sé. La canna sembrò un lungo tunnel, una via di fuga oltre il quale non si intravedeva luce, ma solo la possibilità di essa. Eppure, era quanto gli bastava.
Alzò il braccio al lato di sé, puntandosi la pistola alla tempia. Guardò il corpo inerte di Samantha, la sua amata, odiata, bellissima Samantha che inzuppava le calde lenzuola del suo denso sangue nero.
Sorrise, non di gioia, ma di attesa, mentre tastava con cura e trepidazione il grilletto con l’indice fremente, ancora indeciso ma pronto.
Avrebbe avuto finalmente la sua risposta. Sì, era quella, forse, la soluzione. Era un pensiero assurdo la morte, così assurdo da non avere nulla di insensato. Avvertì la metallica bocca dell’arma accarezzargli la tempia. Ora la sua sete sarebbe stata estinta. O estinto sarebbe stato egli stesso, insieme alla sua sete.
Ora avrebbe avuto finalmente la sua risposta. Era quella la vita? O solo la sua follia? Era la realtà quella in cui, fingendo, si crogiolava in una simmetrica beatitudine? O era solo illusione, l’illusione di esistere?
E ora? Doveva essere felice? Non lo sapeva. Ma si sentiva finalmente vivo.
Pose gli occhi sul cadavere inerte della moglie, respirò deciso, accarezzò il grilletto. Sorrise.
E sparò.
Non amo particolarmente il genere, ma devo farti i complimenti, Angelo: una scruttura perfetta, senza sbavature, efficace. Riesci molto bene a coinvolgere il lettore nella follia apparente del protagonista e nei disordinati moti del suo animo. Molto molto bravo.
Grazie ancora, Maria 🙂 .
Volevo comunque dire che ho proposto anche un altro racconto, di genere differente. Non so se magari incontra maggiormente i tuoi gusti abituali.
Ciao 🙂
Complimenti davvero Angelo! Hai uno stile impeccabile e denso di dettagli, il racconto fa trapelare il senso di follia e di confusione 🙂
Grazie mille. Troppo buona. ????
(”)
Angelo… il tuo è un commento fantasma o è pura ironia, immagino. In ogni caso ne approfitto per farti complimenti, entrambi i racconti sono ben scritti e costruiti, con un alone di mistero e inganno.
No, nessun commento fantasma e nessuna ironia (non stavolta). E’ solo maldestrezza digitale. (a questo punto avrei voluto mettere una faccina sorridente come nei commenti precedenti, ma per evitare che venga fuori qualche carattere cuneiforme sumerico, lo descrivo invece di digitarlo: FACCINA SORRIDENTE).
Dunque, scusandomi per l’involontaria incomprensibilità dei primi due commenti, volevo semplicemente ringraziare tutti.
(FACCINA SORRIDENTE,…..ovviamente)
Grazie Maria. (FACCINA SUPER-SORRIDENTE)
Come Maria non amo il genere. Ma, certo, poco importano i gusti personali. La scrittura però ha una coerenza dall’inizio alla fine che, gusti a parte, accompagna in maniera efficace nella follia. Non so se è pertinente ma all’inizio mi è venuto in mente quando cominciai a leggere Oblio di Foster Wallace con l’attenzione ai dettagli e alla descrizione di tutto ciò che con i sensi arriva alla voce narrante.
Grazie Carlo. La pertinenza evocata intimorisce prima che lusingare. (sorry..sono abbastanza timido in certe cose 🙂 ).
In realtà, più che ispirazione o idea o somiglianza, deve essere la voglia di scrivere che mi suscita spesso leggere i grandi autori. Nel caso specifico, ricordo il fascino di un racconto di Philip K. Dick (..non è ancora Avantpop come Foster Wallace..ma ne semina i germi..e non solo dell’Avantpop.. Va beh.. 🙂 ) che si chiama Sindrome Regressiva (Retreat Syndrome nell’originale) in cui il protagonista non sa se la realtà in cui vive e agisce é reale o indotta o virtuale o addirittura un prodotto della sua coscienza.
In maniera molto diversa, il personaggio del mio racconto sperimenta la stessa condizione. Ma, oltre a questo, niente altro mi ha spinto a modellare in questo modo la vicenda, se non decine di cose, personali o esterne, in maniera carsica (ma questo credo avvenga per chiunque si voglia misurare con l’arte dello scrivere..In fondo, dico, non è così per tutti noi?).
Comunque, non posso che ringraziarti ancora 🙂
PS: Ho proposto un altro racconto, di genere differente. Non so se possa quello rientrare di più nei tuoi abituali gusti. 🙂
Bel racconto, mi piace anche senza la parte “onirica” ( così come mi piace anche quella senza la narrazione dei fatti). Strano come la morte sembri spesso l’unica via di fuga e curioso come il delirio sia così presente nei racconti di questa edizione… Complimenti, leggerò anche l’altro!
Fico, un racconto IKEA: smontabile… 🙂
Al di là della mia cialtroneria.. Ti ringrazio molto, Lidia, per l’attenzione e l’apprezzamento. 🙂
In verità, a mio avviso (o meglio, nelle mie intenzioni, se così posso dire) le due prospettive che si alternano non sarebbero separabili, ma funzionali l’una all’altra e parti di un “unicum”, che tuttavia è sempre il soggetto protagonista; solo che una volta si è spettatori dall’interno e una volta dall’esterno.
Confesso un certo nichilismo nei contenuti (mea culpa, mea culpa… 🙂 ), ma in fondo non è sul nichilismo che abbiamo creato il mondo in cui sguazziamo sorridenti? (ok..ora finisce che mi abbandono pure al cinismo e siamo a cavallo.. 🙂 ).
La domanda di fondo è: che cosa è reale? Il protagonista è cosciente di questa sorta di “rivelazione” a cui nessuna delle sue facoltà è davvero capace di rispondere. E’ vero, assistiamo al suo delirio, all’esplodere delle piccole cose sedimentate nel suo animo divorato dalle microscopiche mascelle delle cosiddette cose insignificanti; assistiamo al compiersi del suo atto uxoricida, fino a sentire lo sparo che gli attraversa la tempia. ma la domanda è (come lo è quella del protagonista): tutto quello, l’azione intendo, succede davvero? è reale? O è l’ennesima illusione, l’ennesima virtualità di una coscienza priva di appigli? Sin dall’inizio del racconto si evince che quell’azione, almeno per il protagonista, è già avvenuta più e più volte. E anche quando noi assistiamo al suo ennesimo perpetrarsi leggendo il racconto, in verità non sappiamo se è reale..o virtuale… Il solo modo che egli può avere per giungere ad una risposta VERA e REALE è quella di mettere alla prova l’unica fonte certa di tutto ciò che ACCADE, cioè sè stesso, il suo “io”, insomma la propria reale esistenza (..in fondo, il punto di partenza è il “cogito, ergo sum”…).
Egli, il protagonista, si prende la sua risposta (se tutto era reale, egli inevitabilmente muore; se reale non era, il delirio continua, magari ridestandosi…).
Ma noi? Noi che assistiamo? 🙂 …noi siamo al di qua, figli inevitabili del dubbio,..ci fermiamo allo sparo… 🙂
PS: E tuttavia, non appena la mia lunga giornata potrà avere tregua e riposo, non vedo l’ora di godermi il tuo racconto 😉 (..grazie ancora).
Non ho letto i commenti degli altri, lo faccio sempre a posteriori. E’ come per i film al cinema: se so che andrò a vederlo, preferisco astenermi dall’ascoltarli per non crearmi subito delle aspettative. Così ho fatto per il tuo racconto. Mi sembra di vedere un cameraman che riprende e fotografa ogni singolo attimo della mente dell’uomo. La mente e la sua folle musica prevarica il corpo e la fisicità. Ogni immagine è piena di altre immagini e colori attraverso un uso dei vocaboli molto preciso e allusivo. Avverto precisione emotiva e contemporaneamente instabilità folle: il personaggio maschile vive ogni singola pulsione in maniera puntuale (e tu usi dei termini accurati) sottolineando una psiche che non si dà pace. Un’altalena di emozioni. Complimenti, racconto denso di rimandi sia letterari che sociali.
In bocca al lupo, Angelo!
Stimolante questa corsa vorticosa sulle montagne russe delle circonvoluzioni celebrali di Gabriele. Gustoso e assai adeguato il linguaggio, carico di vivide immagini e incline agli ossimori. Complimenti.
Ti ringrazio molto, Roberto.