Premio Racconti nella Rete 2016 “Tango di un uomo inutile” di Angelo Chiafari
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016“…l’alba dentro l’imbrunire.”
F.Battiato, Prospettiva Nevsky
Non pensava di essere tagliato per la felicità, qualunque cosa fosse.
L’opaco giorno morente scantonava su auto e occhiali da sole, schermi superflui di una calca irregolare.
L’aria ferma trafugava colori senza restituirli e lasciava invece odori penetranti e gravi, densi, che esalavano dai bar e dalle tavole calde.
Lui non era bello, non era neanche ricco, la casa gli puzzava di muffa al pari della vita e, sinceramente, si sentiva leggermente anche un pò incazzato.
Colpa della crisi o di un perduto senso di rivoluzione. In realtà, ognuno seguiva la corrente.
Il mucchio teneva caldi ed egli ci scompariva alla grande, come un istinto, senza troppa lucidità o costernazione. Camminava nella giacca di pelle consumata su gomiti e bordi, unico elemento a ostentare al mondo il significato della dignità umana.
Di tanto in tanto lanciava sguardi sopra i palazzi, lungo i freddi contorni di cemento che sezionavano il cielo e s’incastonavano nell’infinito.
Avrebbe voluto essere un supereroe. Starsene là, su quei tetti, svettare mascherato sopra i confini labili tra il bene e il male. O almeno sopra la banalità, che già sarebbe stato qualcosa.
D’un tratto avvertì le Converse pigiare su una materia flaccida e vagamente cremosa. Intuì, non senza un che di ineluttabile. Solo dopo, con certa impotenza, quasi con rassegnazione, si analizzò le suole.
“Si, proprio un supereroe”, considerò nel tip-tap sul bordo ruvido del marciapiede, scrollandosi dall’aspetto meno elegante di una digestione.
Un supereroe non pesta le merde. Casomai le combatte.
Passava il giorno bighellonando per le strade a caccia di lavoro. Gli sarebbe andato bene qualsiasi cosa, anche il classico e ascetico lustrare i cessi, pur di rimpolpare gli sgoccioli di un portafogli deserto. Anzi arido, per mancanza di liquidi.
Invidiando la paga di un operaio cinese, pranzava a cappuccino e brioches, neanche fosse un turista tedesco.
“Un’altra giornata sprecata”, pensò, mentre il sole soffocava tra ciuffi di nuvole sparse come batuffoli intrisi di luce amaranto. Le campane avevano suoni grevi, i passi attutivano svogliati sui marciapiedi dei vicoli del centro.
Lo sguardo gli si sollevò al comparire del proprio spettro nelle vetrine lucide di una libreria. Si fermò, lasciando transitare il mondo indifferente.
La camicia bianca dissonava con la ruvidezza della barba non curata. Quando si guardò negli occhi, ci vide l’assenza, ci vide il disincanto masticato dalla vita.
Campeggiava dietro al suo riflesso una faccia entusiasta tra manicaretti e zucchero filato.
Sorrise con una certa amarezza, ciondolando leggermente la testa al pensiero di avere sbagliato tutto. Avrebbe dovuto scrivere libri di cucina invece di studiare musica.
Il fatto era che Lui s’era votato all’inutile. Non faceva che riempirsi le sinapsi di poetiche ed armonie. Tra spartiti mai venduti disordinava decine di libri.
Svanì la propria immagine incolore dribblando signore vestite in rosa pesca, scartò quarantenni acconciate alla mohicana e si lasciò fagocitare nuovamente dalla folla multianonima.
Allo sbocco del vicolo poco oltre vide gente accumularsi in un irregolare semicerchio. Quando svoltò nella piazza ampia e iridescente si accorse di un andirivieni insolito, un brulicare sommesso ma evidente.
Il crepuscolo divenne un invasore silente, rallentava le palpebre, calmava le cose ma le caricava nel medesimo tempo, sfumando di netto i contorni e il confine. Quel fremere sospeso gli entrò dalle narici e lo incuriosì. C’era nell’aria qualcosa. Qualcosa che doveva accadere ed egli era l’unico, forse, ad ignorarlo.
S’addentrò nella folla stanziale, infilandosi nelle intercapedini sottili che allontanavano vite sconosciute. Si sporse, indagò lo spazio semicircolare lasciato incompiuto. Ma non vide che altra gente, tutto lì. Uomini e donne tirati a lucido civettavano con aperitivi colore dell’ambra. E sé, giusto in mezzo. Nient’altro.
E tuttavia s’avvertiva un silenzio frizzante, vivido ma assopito che parve dolcemente cosmico. Tanto che la solitudine dello sguardo lasciò con disperazione le linee orizzontali, si ritrovò nel cielo sconfitto pacatamente da fiochi lampioni di aloni pastello.
Le stelle gli sembrarono miriadi, morbide spirali addormentate, ci si perse: così fondamentali e vere. E inutilizzate.
Non desiderò altro, nient’altro che un pò di bellezza.
Sarebbe rimasta la resa, forse, di fronte a quel nulla che divorava, se non fosse nata la musica giusto in tempo, se non avesse avuto l’universo un’anima, tra i fotoni e le onde, nascosta, celata, invisibile.
La sera palpitò all’improvviso, si marcò in quattro quarti, sgranò come tra corde e gemiti.
Ora gli occhi spalancati tracimavano su gravitazioni di corpi, di accordi e melodie: attrazioni, meccaniche immateriali, virtuali reiterati amplessi.
Dovunque voltasse lo sguardo, spirali danzanti a decine vibravano, sostavano, viravano, slegavano le forme, ricomponevano gli abbracci, le pieghe, le strette, riafferrandosi sfuggivano, vorticavano confusi a sfiorarsi l’ardore dei visi, compassati d’impassibile passione.
Danzavano come stelle, tutto intorno, ballavano il tango. Uomini e donne, silenzi eleganti danzavano in ellissi.
Lo stupore divenne meraviglia quando ripuntò lo sguardo di fronte a sé, verso la figura che gli si appressava. Occhi grandi e neri luccicavano sulla pelle bruna di miele, tra capelli corvini raccolti e sensualmente disciolti sulla nuca, lungo il collo sinuoso lasciato scoperto, come fosse un avamposto sguarnito sul confine del petto ansimante. Una dea primordiale, un’ancestrale pulsazione, un demone dal candido sorriso d’angelo gli si faceva incontro o forse gli precipitava addosso e lo veniva a rapire.
Solo che un altro le giunse a pochi passi e la danza stessa la portò con sé.
Lui rimase fermo a guardarla volteggiare via.
Lei era bellissima, semplicemente, sconcertante e sensuale nelle sue movenze di femmina.
La contemplò, con la vertigine e l’incanto a scuotergli ogni fibra, finché una voce vivace lo richiamò in una dimensione rude.
«Ehi tu, scusa -diceva un tipo dall’ostentata gaiezza- Se non balli togliti di mezzo».
«Si, -annuì timido– ma che succede?».
«Si chiama flash-mob, carino. La gente si da’ appuntamento su un social e balla. Sveglia tesoro!».
Accidenti. Sottratto nel breve dialogo, aveva perso di vista lei.
«Vieni –lo abbracciava ora quella sorta di fata turchina sottintesa in un grillo parlante– ti offro qualcosa da bere».
Ma egli rifiutò con sincera cortesia e si allontanò, fermandosi al di fuori dei perimetri disegnati dall’erotismo della danza.
Quando tutto ebbe compimento, l’aveva cercata invano, rubata dal manto opaco della sera e dal tramestio della folla.
Si incamminò, tornandosene da dove era venuto, ma con il cuore sfavillante in subbuglio.
La notte passò; gli si specchiò negli occhi, ospite silenziosa tra i sentori di muffa della casa e della vita. Ma fu una notte nuova. Erano, forse, occhi nuovi.
I giorni che seguirono somigliarono alla follia. Risparmiò sui cappuccini il necessario a una necessaria spesa. L’inutile stavolta ebbe le dita di Astor Piazzolla.
Si trafisse mille volte il sole e mille volte s’acquietò la luna, prima che le note gli diventassero cellule.
Sporadiche occupazioni e qualche euro da sprecare in internet videro le giunture di legno articolarsi in ali ad ogni passo.
Trascorsero le settimane, che si abbracciarono e divennero mesi.
E aveva sognato, sperato per tutto quel tempo.
Quando finalmente si ripresentò l’occasione, la piazza si gremiva ancora di esistenze e di lucciole. L’armonia gravitazionale dei corpi rese densa la notte e scintillante. Questa volta fu Lui a cercare gli occhi di lei tra la gente.
Le si avvicinò senza essere scorto, le prese la mano lasciata da un cavaliere qualunque e nella danza si ritrovarono di fronte, viso nel viso. Le ciglia nere di lei si mossero come l’erba nel sospiro della sera, sbigottite e permissive. Le sorrise lieve, lei ricambiò. Un cenno breve d’intesa, poi fu la danza.
Ballarono un tango carnale, mescolando le pupille gravide alle scie cremisi dei pizzi aderenti sui fianchi, ballarono nell’ombra tremula del tatto, nell’ansimare di ignoti respiri.
E quando la musica si compì, le loro dita svanirono. Si persero, come fanno gli sconosciuti.
Ben presto la folla diradò vistosamente, la piazza fu sgombra in poco tempo e le pietre bianche restarono a farsi arrossire dalla sfumata lotta dei lampioni nel buio incostante.
La strada era ormai vuota, di riflessi umidi.
I passi di lei sostarono d’improvviso quando una figura snella venne fuori dalla penombra di un portone.
«Scusami –le disse- ti ho spaventata».
Lo guardò, risalendogli fino agli occhi, proteggendosi d’istinto con la mano sul petto. Ma gli sorrise, salutandolo dolcemente.
«Non ci siamo nemmeno presentati -egli continuò, tendendole la mano- Mi chiamo Gianluigi. Ma poi chiamarmi Lui».
Ella sguarnì le difese: «Io sono Leila -rispose-, ma gli amici mi chiamano Lei».
«Lui e Lei -fu ironico-. Sembriamo fatti l’uno per l’altra».
Gli occhi profondi le brillarono. Era bellissima, semplicemente. Sconcertante e sensuale in ogni tacito gesto.
«Posso accompagnarti?», chiese Lui piegando il braccio proteso.
Gli annuì. E gli si strinse al fianco.
Lei, era un incanto, aveva il nome della notte.
Si incamminarono, insieme, solitari, nei chiaroscuri slavati della strada ormai dormiente.
Se percorsero il desiderio o la voglia di non lasciarsi. Se si persero ancora. Se si ritrovarono sempre. Dove quella strada li conduceva non è dato sapere.
«Perché mi hai cercata?», gli chiese, dopo che parlando avevano taciuto.
Lui non rispose, non subito.
Si voltò, adagiando lo sguardo sul mistero vellutato di quella pelle bruna.
Passeggiando nella notte, ne respirò l’odore di scirocco, naufrago negli occhi di Lei. E due pupille nere, liquide, si specchiarono nel palpito nuovo di un uomo inutile.
Si prese ancora un istante, a labbra aperte prima di proferire.
Ora si sentiva pronto per la felicità. Qualunque cosa fosse.
Una favola in miniatura, moderna e lirica, che fa riflettere sui misteriosi moti del fragile animo umano.
Come potrei rifiutare un invito così gentile…! Ho letto volentieri anche questo tuo racconto, Angelo. Una lettura impegnativa. Ho apprezzato la ricerca delle parole e l’uso delle immagini che, al ritmo appassionato di un tango, ben delineano i tratti di un uomo inutile e profondamente solo. Confermo quanto ho scritto al precedente commento: scrivi molto molto bene. In bocca al lupo…
Oh, Maria..la gentilezza è di chi accetta 🙂 .
Grazie, te lo dice la mia timidezza. E la consapevolezza che sei elastica nel giudizio. 🙂
Ti ringrazio, Silvano, mi fa piacere il tuo apprezzamento. 🙂
(..AMOK forever! 🙂 )
Sembra prosa ma ha tutta l’aria della poesia….complesso, l’ho riletto per capire, per trovare il racconto anche se poi ho lasciato perdere e mi sono tenuta l’emozione.
Oltre ai tuoi contenuti, apprezzo tantissimo la tua scrittura, che mi coinvolge e avvolge. Complimenti!
Io non lo trovo impegnativo, anzi, ha il grande dono di riuscire a scrivere in modo scorrevole e comprensibile anche utilizzando termini a volte arcaici, a volte semplicemente desueti.
Mi piace il fatto che, anche se non conosco il significato di una parola, o lì per lì non mi viene in mente, la tua scrittura me lo fa capire subito.
Insomma, mi è piaciuto.
grazie mille 🙂 (troppo buoni)