Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2016 “L’equivoco” di Lidia Bianchini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

   Per qualche istante fu il diversivo delle anime annoiate che vegetavano nella sala d’aspetto del Centro Unico delle Prenotazioni dell’Ospedale Civile. Visibilmente di fretta, la donna aveva rischiato un imbarazzante, quanto doloroso, schianto sulla porta scorrevole dell’entrata che, per qualche mistero dell’ingegneria meccanica o della giustizia divina, non si era aperta al suo passaggio. Al posto di fare un trionfale – e assai profumato – ingresso, aveva, dunque, presentato per primo il suo poco forbito linguaggio che si era immediatamente sbizzarrito contro il sistema che sprecava i suoi soldi per mantenere non si era ben capito chi. Per fortuna la sua bella e invidiabile presenza aveva risanato in fretta il danno fatto dalla sua – non altrettanto elegante – lingua e un uomo, poco più avanti di lei nell’età, l’aveva consolata approvandone le argomentazioni con un eloquente cenno del capo.

   Con le chiavi dell’auto ancora in mano, si era diretta stizzita verso l’eliminacode e, scorrendo velocemente le etichette di ciascun pulsante, aveva schiacciato decisa il dito laccato e ingioiellato sul “Prenotazioni – Annullamenti”. Un vero peccato che questo paese arretrato non le agevolasse l’agenda, il biglietto diceva chiaro che 21 persone attendevano da prima di lei. Si era guardata intorno, facendo quasi una piroetta, e poi aveva cavalcato veloce sugli stivali di pelle nera fino all’angolo che precedeva il corridoio dove una sedia libera l’aspettava vicino a due ragazze modaiole probabilmente addormentate dietro i grandi occhiali da sole. Una volta seduta – e solo dopo aver sospirato almeno un paio di volte – aveva posato la capiente borsa griffata sulle ginocchia e ne aveva estratto una cartellina argentata che era rimasta straordinariamente ferma per tutta l’attesa, tra il suo abbondante seno e la sopracitata borsa, nonostante il suo teatrale gesticolare.

   Inizialmente anche lei aveva mantenuto una decorosa immobilità, ma l’inesorabile scorrere dei secondi, prima, e dei minuti, poi, – aggravato da un ipnotico orologio digitale che dominava sulla colonna centrale del salone – aveva cominciato presto a spazientirla. Le prime a tradire il suo contegno erano state le gambe che, accavallate e allungate su un lato, avevano cominciato a muoversi sul ritmo dei piedi nervosi seguite, nel giro di poco, dalle dita che si erano esibite in un rumoroso schioccare di ossa impossibile da ammutolire. Mentre calcolava il tempo che ciascun utente le faceva perdere, con lo sguardo, protetto da lenti scure, divagava sulle figure opache – e mal distribuite nello spazio – che non facevano altro che incalzare i suoi pensieri facendole trovare l’ennesima conferma di tutto quel che credeva. Nessuno dei presenti meritava di fruire della sanità pubblica, ovvero di quel servizio che lei contribuiva a mantenere sebbene lo usasse assai di rado. Questa globalizzazione avrebbe portato solamente alla disfatta del suo popolo. A causa della Chiesa non avrebbero potuto chiudere i confini, cosa che invece i Paesi più all’avanguardia e meno bigotti avevano fatto. E via dicendo, perdendo a poco a poco la finta diplomazia che ne caratterizzava l’intera persona e lasciando libero sfogo al suo io tormentato dal profondo senso di ingiustizia che la vedeva lavorare tanto per non avere niente, se non qualche piccola proprietà super tassata che neanche se la godeva e sporadici sfizi che meritava più di ogni altro visto che provenivano dal sudore della sua fronte (anche se questa, paradossalmente, non riusciva a imperlarsi nemmeno coi vapori delle spa che frequentava settimanalmente).

   Oltre a nutrire il flusso dei suoi pensieri guardando con la coda dell’occhio di qua e di là, teneva il conto dell’avanzamento del suo turno e stimava la velocità dei suoi conterranei impareggiabile rispetto alla lentezza dei tanti – troppi – stranieri che non erano in grado di spiegarsi e mettevano a dura prova la calma degli operatori di sportello, oltre che la sua. In fin dei conti quello era un ospedale e non un’Opera Caritatevole e c’era chi non aveva tempo da perdere, ma sembrava che chi teneva le redini della faccenda non avesse chiara la situazione e non avesse ancora deciso di prendere seri provvedimenti. Fortunatamente alcuni numeri erano mancati all’appello e il suo turno era sembrato tutt’a un tratto più vicino non fosse stato per un africano che aveva inceppato di nuovo la coda. Pronta quasi ad alzarsi, le era toccato fermare il suo impeto di efficienza davanti al plico di incartamenti sui quali il tizio cercava – senza ovviamente trovare – chissà che cosa e ritornare ad accontentarsi di poter solo sbuffare incessantemente. Se fino a quel momento la ragazza che le sedeva a fianco le era rimasta indifferente, all’occasione avevano sospirato all’unisono e lei aveva colto l’attimo per condividere i suoi pensieri prendendo sotto l’ala la giovane alleata che sicuramente soffriva alla stessa maniera.

   La donna si era girata con un gran sorriso e aveva esordito con un bel “E ti pareva!” pronunciato a bassa voce, ma con un’enfasi e una mimica inconfutabili, e poi aveva abbassato il capo per far vedere gli occhi che, definiti dall’eyeliner nero, chiedevano enigmatici se fosse mai possibile una cosa del genere. Per tutta risposta, la ragazza le aveva fatto un sorriso tardando a rigirare il capo quell’infinitesimo di secondo di troppo che l’aveva agganciata a una conversazione nella quale non poté entrare. Prima di attaccare il discorso, la donna aveva fatto nuovamente un sorriso – questa volta di visibile disprezzo – e aveva lasciato che una torsione del volto abbracciasse l’intera platea così da non escludere nessuno dal suo impietoso giudizio e poi aveva cominciato quello che fu, a tutti gli effetti, un monologo. “Non se ne può più, vero? Vengono qui perché questo è il paese dei balocchi. Dove lo trovi un altro posto come questo? Qui a loro danno casa e assistenza in cambio di niente e a noi invece danno tasse e contributi da pagare per mantenere loro! Ma si può? Vorrei vedere se io andassi là quale benvenuto riceverei … altro che benvenuto, il benservito mi darebbero! Vengono qui, hanno tutto e ancora fanno i delinquenti. Noi apriamo loro le case e loro le svaligiano; diamo loro lavoro e loro cercano di farsi mantenere; accogliamo i loro figli e loro portano i pidocchi. Ah, ma non può andare avanti così, no, no di certo! Qualcuno deve far qualcosa. Guarda, anche se qualcuno tenta di assomigliarci in realtà lo vedi subito che non è dei nostri, io me ne accorgo e me ne sto alla larga” e proprio mentre il flusso di parole s’intensificava e prendeva le sembianze di un fiume in piena, improvvisamente sul display si era illuminato il numero 37 facendola sobbalzare.

   Immancabilmente pronta, si era alzata tenendo borsa e cartellina su un braccio lasciando così libera l’altra mano per salutare la sua nuova temporanea amica. “Arrivederci cara e buona fortuna. Speriamo cambi qualcosa per tutti noi!” e aveva sfoggiato l’ennesimo sorriso – stavolta pregno di sogni e speranze – che l’aveva tenuta lontana per un attimo da questo strampalato mondo. Si era girata diffondendo una gradevole folata della sua fragranza preferita e aveva allungato il passo in direzione dello sportello. Alzando appena la testa, la ragazza le aveva risposto, sollevando di poco la mano, un asettico quanto enigmatico “ciao” e e si era girata subito verso l’amica. Mentre le due si guardavano, l’eco del saluto aveva raggiunto la donna provocandole un brivido che era partito lungo la schiena e si era propagato su tutto il corpo. Cercando di non lasciar trasparire nulla, aveva continuato ad avanzare ripetendosi che sicuramente aveva capito male visto il silenzio che ora percepiva, ma d’un tratto di nuovo qualcosa di incomprensibile l’aveva destata. Finalmente al sicuro di fronte alla cordiale operatrice dall’infinito numero di matricola, aveva teso l’orecchio ritardando l’estrazione del necessario dalla cartellina e aveva divagato con la mente sui suoni minacciosi che era sicura di aver percepito.

   Dall’altro lato della sala, nessuno si era accorto di niente e così come alle sue orecchie giungevano indistinti malefici, al medio intelletto dei più quella tra le due ragazze somigliava maggiormente a una conversazione iniziata con un ” Despre cine forbeste?”1 al quale era seguito un vago “Eu cred ca nu stie nici ea2 pronunciato aprendo le braccia al cielo. Di chi stesse parlando era chiaro che non lo sapesse nemmeno lei.

1Ma di chi sta parlando?

2Credo non lo sappia nemmeno lei.

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13 commenti »

  1. Il racconto è simpatico. Ho qualche riserva sullo stile. La scrittura è un po’ prolissa e la sintassi pesante, con frasi molto lunghe e infarcite da incisi non indispensabili.
    L’apice si ha con una frase di una settantina di parole. Direi troppe.
    Può sembrare bizzarra questa ‘contabilità’ un po’ matematica, ma la narrativa, a mio parere, è anche equilibrio, geometria.
    Insisti a scrivere. Confrontati. Rileggi a distanza di mesi i tuoi racconti, vedrai così come migliorarli. Buon lavoro.

  2. Grazie Gino per aver letto il racconto e aver lasciato questo commento critico che non può essere altro che costruttivo.

  3. Sarà che anche io sono prolissa di frasi e tremendamente descrittiva, ma trovo invece il tuo stile “lungo” molto accattivante e invoglia, continuamente, alla lettura, fino alla fine del racconto.
    Forse potrebbero essere più marcate delle pause e alcuni parti di punteggiature, per trovare un equilibro maggiore di narrazione, ma sono pareri e ipotesi, in quanto ognuno ha il suo stile e il fulcro del racconto deve manifestatasi in esso, oltre che nella trama. E tu mantieni con una certa fedeltà il tuo ritmo narrativo. Brava!

  4. Grazie Marta, effettivamente vale il fatto che ognuno ha il proprio stile tanto quanto vale il classico de gustibus ma c’è chi magari è del mestiere o ha un occhio più attento e può dare un consiglio costruttivo. Democraticamente, valuto tutte le posizioni! L’importante è poi che piaccia e che passi un certo messaggio. Ci sentiamo ai prossimi commenti!

  5. Anche questo, come l’altro tuo bel racconto in concorso, è molto ben scritto. La lettura è scorrevole, il racconto, trascinato da un’ironia elegante, scivola velocemente verso il finale che, seppure un po’ scontato, stappa un sorriso, suscitando nel lettore un moto di soddisfazione per la magra figura rimediata da questa “pretesa donna in carriera”. Complimenti

  6. Grazie Ottavio, sono contenta che ti sia piaciuto. Aspettavo un tuo racconto e ora me l’andrò a leggere!

  7. Molto carino davvero. Sembrava di esserci 🙂 (a me capita di esserci.. 🙂 )..
    Non è vero, Lidia: i tuoi periodi non sono prolissi…e scrivere non è chimica, ma alchimia.. Se la musica fosse equilibrare le sette note in matematiche armonie, Jimi Hendrix non avrebbe senso…e invece ne ha eccome.. 😉
    Complimenti.

  8. Forse qui e là c’è davvero qualche aggettivo di troppo, ma non sono poi molti. E il racconto è bello, ben scritto e, soprattutto, fa pensare, e questo è un valore importante.

  9. In genere sono a favore di una scrittura un po’ più “spartana” , ma nel caso specifico devo ammettere che la prolissità citata in un commento precedente ci sta tutta. A mio vedere è stato il modo migliore per descrivere la signora dotata di ben poca pazienza , nel suo sproloquio dei soliti luoghi comuni che rendono l’accoglienza ancora una sorta di tabù , e qualcosa da combattere o da cui prendere le distanze
    Mi e’ piaciuto molto; quando un lettore riesce a vedere la scena come fosse davanti ad uno schermo della tv e non di un pc, lo scrittore a mio vedere ha colto nel segno.
    Brava! E in bocca al lupo, naturalmente 🙂

  10. Grazie Maurizio e Carla per aver colto il pensiero che c’è dietro il racconto. Sebbene la mia scrittura sia comunque in questo stile, qui ho volontariamente infarcito tutto di descrizioni eccessive per riprodurre la noia di starsene in sala d’aspetto senza aver null’altro da fare se non guardarsi intorno e far passare il tempo. In bocca al lupo anche ai vostri bei racconti!

  11. Mi è piaciuto molto, non annoia e le descrizioni particolareggiate incontrano il mio gusto 😉

  12. Necessariamente dettagliato, ti fa sentire di avere familiarità con queste situazioni!

  13. Il fatto che la scrittura sia prolissa l’ho notato solo dopo aver letto i commenti e tornando a leggere. Leggendo mi era sembrato abbastanza scorrevole quindi a me sembra che vada bene così. Il tema è attuale e la comicità ridicola della donna in carriera è molto divertente sì da soddisfazione al lettore.
    Un bel racconto!
    In bocca al lupo
    Orsola

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