Premio Racconti nella Rete 2015 “Il bivio” di Bruno Del Savio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Era bianca, era così bianca! Non so dire cosa questo significasse per me in quel momento, ma era così bianca… La nostra vecchiettina (avrebbe presto compiuto ottantacinque anni) giaceva sdraiata minuscola e serena; ed era così piccola… Ora era assolutamente tranquilla (non che fosse mai stata veramente agitata).
Nell’ultimo decennio da cardiopatica medicalizzata, s’era via via come asciugata, a partire da quel giorno che, per la prima volta, s’è trovata davanti al grande bivio e, per un niente, non è morta nella macchina che sfidava il traffico con una fretta insieme controllata e disperata.
Ma poi, dopo qualche giorno con flebo in vena e maschera d’ossigeno, è come rinata – ed io (uscito ventenne da un incidente incredibile, sparato fuori da una scatoletta chiamata 500 familiare che sobbalzava lungo una scarpata, infine atterrato di faccia su erba e terra zuppe di pioggia anziché su una dura pietra) so bene il significato sorprendente di rinascere uscendo per caso dalla parte giusta di quel bivio.
Da allora però, nonostante le progressive riduzioni delle somministrazioni, s’era smagrita sempre più. Ma intanto si tirava avanti, e lei sembrava ancora reggere le piccole passeggiate domenicali ai laghi. Poi sopravvenne come un’inedia, un calo di energia insostenibile; carezzandole la schiena, sentivo che, tra spina e pelle, poco o niente più c’era e la sfottevo benevolmente: “sei un piccolo dinosauro, il nostro piccolo dinosauro bianco”. Finché…
Guardavo mia moglie, ora madre e figlia insieme, che sfiorava astratta e compulsiva quello stesso biancore che mi straniava: aveva l’espressione assente di chi con la mente è altrove, un altrove che non è altro ma, letteralmente, appena un altro luogo.
Riandava certo a luoghi ben diversi da quello che ora ci ospitava, ma tutti sempre vissuti insieme. Insomma, provavo a credere che pensassimo davvero le stesse cose.
Per esempio, che ricordassimo entrambi di quando la vedevamo alterarsi, nonostante lei amasse le acque del mare e del lago, se noi, scherzando, tentavamo di spingervela un po’ dentro.
Sì, lei ci resisteva: era molto consapevole e indipendente, capace anche di imporsi, la nostra Berta; sì, un po’ persino ci comandava – sebbene fosse così piccola: poco più di quattro chili di cane quand’era in piena forma – e sempre tirava il guinzaglio se (…ogni volta che) passavamo accanto ai nostri posticini, quelli in cui eravamo soliti fermarci e sedere per mangiare qualcosa o per un caffè.
Ma era una di famiglia. Come un’altra figlia. Tant’è che mangiava anche con noi. Non proprio a tavola (mancava una buona soluzione tecnica!) ma sempre alle stesse ore di pranzo e cena; e anche, nonostante avesse il suo specifico menù, divorando proprio le stesse nostre cose (o quasi, perché mondate dei condimenti): se avevamo i nodini, il filetto era per lei, e se si cenava col pesce… allora festa!, nemmeno fosse un gatto.
Così, uscendo di casa da soli, le parlavamo anche; qualsiasi fosse la nostra meta avevamo sempre la stessa frase rituale, circa “fai la brava eh, che noi andiamo a comprare la pappa…”.
Per tutto questo, fatalmente, avevamo preso il vezzo di calcolarle gli anni, i mesi e i giorni umani equivalenti; per questo l’abbiamo osservata sorpassarci in età, e dunque in esigenza di rispetto.
E più Berta cedeva con gran dignità ai malanni della vecchiaia, più noi ripensavamo a tutta la nostra storia con lei, a partire dal bieco ricatto che l’aveva fatta giungere tra noi.
Da molto – troppo! – tempo nostra figlia premeva per il motorino. Poi un giorno conobbe la cagnetta di una sua cugina, venuta a trovarci mentre eravamo in ferie in un appartamento nelle valli lecchesi. Alla vista dei suoi numeri circensi, come quello stare ritta sui posteriori per protendersi verso una mano tesa, se ne innamorò; e quando seppe dell’esistenza di una sua sorellina, non poté che abboccare alla mia trappola; consapevole dei rischi con le due ruote, dissi secco: o lei (“ha il pedigree, sai, costa un botto!”) o il motorino.
E dunque andammo a prenderla: un bianco batuffolo morbido nelle mani a coppa di mia figlia; a loro (a lei) la mamma lasciò subito il posto davanti in macchina; e Berta sopportò i circa trecento chilometri di viaggio, in parte anche notturno, senza il minimo problema, anzi, allungando curiosa il musetto verso la mia mano ogni volta che essa manovrava il cambio.
Così per molti anni non lasciammo più l’appartamento in valle: avremmo solo potuto cambiarlo con un altro, magari al mare. Ma lei – nonostante la fola del maltese cane degli egizi e immancabile compagnia di Cleopatra – sembrava soffrire più il caldo che non il freddo. Anzi, amava la neve, e quando vi zampettava dentro felice sembrava una citazione di Malevi?: bianco su fondo bianco.
Del resto anche la prova dei bagni riservati si dimostrò deleteria: decine di cani in un fazzoletto di sabbia! Troppi tutti insieme perché quelli meno curati non mettessero gli altri a rischio di infezione – cosa che capitò a Berta, e che fu molto difficile da decifrare prima e poi debellare tentativamente.
Là per là fu come una tragedia: perdeva il pelo! La nostra Berta – la più bella delle maltesine, quella che in molti, famigliari e amici, ci spingevano a portare nei concorsi per far man bassa di premi (e ci sembrò una cosa davvero possibile quando andammo a vedere un paio di volte per farci un’idea) – la nostra Berta perdeva il suo pelo, quella vera meraviglia, bianco splendente, folto e morbidamente ondulato, che solo lei aveva. Oggi possiamo anche sentirci ridicoli a quel terrore ma… Berta era davvero unica, almeno per noi.
E non eravamo affatto preoccupati per i concorsi: rifiutammo subito l’idea di farle sopportare i bigodini, il talco e tutte le altre torture preparatorie cui avevamo assistito. Ma eravamo ugualmente disperati, per lei stessa… come se una Bellucci, improvvisamente, potesse diventare calva!
Certo, la sentivamo bellissima, una vera star… ma era un fatto intimo, tutto e solo nostro, per niente esibizionista; l’avevamo anche ribattezzata: dalla “Melody del Minuetto” (che avevamo acquisito) alla più terrestre Berta, appunto.
Del resto, rinunciando un po’ alle meraviglie, quello stesso pelo infine salvato era tenuto, contro caldo e intrusi, molto più corto dello standard da expo; ma assolutamente candido! Insomma, le abbiamo sempre voluto bene solo volendo il suo bene.
E ora eravamo lì, a guardarla senza più parole, e avevamo gli stessi pensieri senza un pensiero, senza più argomenti fuori dai ricordi, soli con le nostre emozioni, raffreddate un po’ dall’autocontrollo.
Nell’attesa di veder completare la procedura dopo la prima endovena sedativa, scorrevamo entrambi, ne sono certo, anzi ci scorreva davanti automaticamente, tutta la photo-gallery della nostra vecchia bimba.
Per esempio, il bianco e nero con occhiali scuri e bibita; e poi, a colori: la famiglia completa con lo stesso cappuccio rosso di capodanno, i diversi abbigliamenti più o meno astrusi che le imponevamo magari solo per immortalarli (…lei si lasciava fare di tutto), gli incontri con i conigli che oggi nostra figlia tiene in casa.
E poi i vari week-end nei borghi, castelli, piazze, sagre, fiere e feste, natalizie o pasquali, estive o invernali, tutte – a posteriori – incredibilmente monotone nonostante la varietà: sempre noi, vecchia coppia, con la nostra immancabile Berta.
E infine, di sicuro, tutte le altre immagini più serene, mentre lei dorme ed è come un flash bianco nelle cucce o sui letti.
Lo stesso flash che ci sequestra lo sguardo ora, al centro di questa stanza spoglia, dove forse è anche il niente circostante ad esaltare il momento, nella foto che non ci sarà ma che ci resterà dentro. Come siamo giunti a questo?
Per un percorso progressivo e intrecciato – credo – a quello declinante della cagnetta; dimagrisce velocemente, e noi riduciamo il numero di pillole, sciroppi e aerosol; è sempre più inappetente, e mia moglie scatena la sua fantasia da chef per combinarle delle pappe sperate più gradevoli; nel peregrinare da una cuccia all’altra della casa, Berta ondeggia, struscia contro gli spigoli, è sempre più incerta, e i nostri occhi lasciano sempre più spesso la tavola o la tv per controllarla, afflitti da sordi presentimenti.
Così cominciamo pian piano, non proprio a parlarne, ma solo enigmaticamente ad alluderne, come per una scaramanzia (in realtà per non voler accettare né il fatto né il fato): poverina, è ancora così buona – come dimenticare che alcuni condomini la sospettavano muta! – non si lamenta mai e cerca di proseguire come sempre – sì, però, lo vedi no?…
In seguito Berta assume una posizione più drastica: il rifiuto del cibo. Così, mentre si arriva ad imboccarle persino gli omogeneizzati, si passa anche ad interrogarci sempre di più: dove ci conduce tutto questo?
Da allora, tra noi, e in ciascuno di noi, cuore e cervello si sono alternati confusamente nella valutazione onesta delle pene del corpo, senza fughe metafisiche, e nella compassione per la realtà di quelle pene e di chi le soffre – io più agnostico ma più astrattamente filosofeggiante (quali diritti abbiamo… anche quello di sbagliare? in fondo davvero molto pericoloso è il non bere, ma… non mangiare…), mentre mia moglie, pur incline a un qualche credo, ha dalla sua la praticità della donne che si sono sempre preso il mondo sulle spalle (ma non la vedi? e giù le lacrime).
Infine, abbastanza in fretta il tracollo: quel non bere da me appena evocato come funesto, rifiutando persino la pompetta con cui le si spingeva l’acqua in bocca, fino all’immagine più devastante, quella che ha deciso per noi, quella che, dolorosa come una stilettata, mi ricordava la mucca pazza, quel divaricare i posteriori, allargando tremula la base d’appoggio per restare in piedi, per non rovinare a terra.
Allora ho capito, allora abbiamo concordato: il bivio che ci impegna non è quasi mai (salvo che per pochi eroi) quello tra vivere e morire; vivere e morire ci tocca e basta, sono progetti di natura; ad ogni persona il bivio più arduo e decisivo lo pone sempre il come e la nostra libera scelta a riguardo – come vivere e come morire.
Insomma: “che la morte mi colga vivo” (per dirla con Marcello Marchesi) o, capovolto, che la vita non mi veda morto, che la vita non sia una lunga morte.
Dunque, non più Berta era sfidata, ma noi; a noi, per noi, era la scelta, di fatto ancora reversibile: noi eravamo al bivio. E quel voler star lì accanto a lei – aspettando, un po’ determinati e un po’ contriti, gli ulteriori step della procedura, senza un pensiero vero in testa, o forse schivandolo – era per l’intimo sospetto di poter avere ecceduto nel volerle bene per il suo bene.
Però lei stava lì serena, abbandonata sul fianco come se dormisse; e magari davvero dormiva, come ormai faceva quasi tutto il giorno negli ultimi tempi, per non consumare le poche e declinanti forze residue.
Tutto poi è andato come non avremmo mai sperato; e ringraziamo di essere stati invitati ad assistere, e complimentiamo noi stessi per aver trovato la forza di essere presenti, di restarle vicini e – ricacciando in gola lacrime e singhiozzi – darle fiducia fino all’ultimo. Perché così… abbiamo visto.
Completatosi l’effetto sedativo, ancora un ago in vena e, in successione abbastanza stretta, una inoculazione di anestetico ed una – quella finale, quella temuta, quella indicibile se non in linguaggio tecnico – di composto letale.
Tutto qui: una decisione definitiva, eterna, realizzata in un lasso di tempo misurabile in secondi. Un niente e tutto era finito, Berta era finita (…salvo nei nostri e altrui immortali ricordi). Pentiti?
No, il pensiero nemmeno ci ha sfiorato, non poteva. Perché eravamo pervasi da una magari inqualificabile (vigliacca, egoista?) serenità: avevamo visto, sofferenza zero!
Il passaggio per le tre fasi non ha prodotto nella nostra amata cagnetta il benché minimo segno di percezione-reazione: con la stessa immota serenità con cui giaceva sedata, senza che nemmeno le vibrasse un solo pelo, ha attraversato tutta la procedura fino alla fase estrema; era come se non ci fosse già più quando all’inizio la accarezzavamo ancora un po’ incerti e incoraggianti.
Questo, questa sua assoluta serenità, ci autorizza a pensare che Berta abbia davvero capito che, fino all’ultimo, anche in questa estrema crisi, le abbiamo voluto bene volendo davvero il suo bene.
Così ho anche capito, infine, cos’era la suggestione di quel bianco, la sua malìa sottile: era il segno (la comunicazione) di una dolce resa – una resa, non una sconfitta.
Una resa che ci perdonava, che ci diceva: sono d’accordo. Perché anche l’amore è una resa: s’era arresa ancora a noi, s’era fidata ancora un’ultima volta, messa nelle nostre sicure mani; perché sapeva che avevamo intravisto, nel rifiutare il cibo e l’acqua, il suo voler arrendersi alla malattia come unico modo per vincerla.
Perché – Cristo! – infine non era nemmeno troppo chiaro, nell’immutata, magica e stordente fanìa di quell’innocenza bianca, chi aveva convinto chi, e come e perché, dell’umana irragionevolezza d’una incombente sofferenza senza vie d’uscita.
Perciò deve pur aver contato qualcosa tutto il nostro amore per lei. Perché l’amore, quando è gratuito, non può sbagliare; perché un tale amore ha sempre ragione, persino quando potrebbe sbagliare.
(finito di scrivere il due luglio duemiladieci, giorno del quindicesimo compleanno mancato di Berta)
Cagnolina amatissima sempre presente nei vostri cuori. Bravo.
Non credo possano capire tutti
Possono capire solo quelli che hanno avuto un cane.
Il mio Willy morì poche ore dopo la nascita della mia primogenita… E la cosa che rimpiango di più è di non essergli stato accanto nel momento in cui è accaduto
Si è vero ci si sente degli sciocchi a versare lacrime per un cane. Ci si ripete in continuazione, come un mantra, le parole di cauto rimprovero che ci ripetono gli altri “era solo un cane… solo un cane… un cane…”. Sì, è vero era solo un cane e… e noi siamo solo uomini. Complimenti
Ulteriore nota di merito, aver coniato un aforisma che andrebbe insegnato a tutti i proprietari di cani ( e a tutti quelli che vorrebbero prenderne uno ): “vogliategli bene solo volendo il suo bene”. Bellissimo. Complimenti. Sarei curioso di conoscere il tuo parere sul mio racconto “La Torretta di Guardia” del 27 maggio
L’amore per gli animali, nostri compagni di vita, è simile all’amore tra famigliari. E’ commovente e toccante, forse sbaglio, ma sfrondato di alcuni passaggi potrebbre essere più coinvolgente. Ciao B Flora.
Emanuele