Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Entanglement” di Marco Montanari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

Al telefono capì che non si sarebbero rivisti. Fu un momento di stupore assoluto, come quando si accetta per la prima volta un fatto ovvio e oltre ad un sospiro o a poche parole, misteriosamente esatte, non si sa più che cosa dire.

“Allora non ci vedremo più”.

Nella stanza vibrava il ronzio da insetto dell’ossigeno. Dalla finestra il pomeriggio filtrava sotto forma di luce verdognola, impastata del legno della serranda; il grande mobile era sempre al suo posto, carico di vestiti  diventati inutili, i cassetti contrassegnati da etichette: biancheria, pigiami, canottiere. Molti quadri avevano visto passare gli ultimi quarant’anni ed erano ancora lì, a suggerire un paesaggio, a perseverare nella memoria di un volto.

“Allora non ci vedremo più”.

Lorenzo, il fratello, era ancora al telefono. Da quando l’immobilità dei loro novant’anni aveva trasformato la vita in percorsi dentro casa, e questi percorsi in costellazioni precise, così costanti da contarne i passi a memoria, la distanza tra i quartieri di Milano dove abitavano si era dilatata fino a diventare incolmabile. Nessuno dei due poteva spostarsi: era chiaro che non si sarebbero più incontrati di persona.

Era chiaro, ma nessuno dei due informò il cuore di questo fatto.

Però iniziarono a telefonarsi ogni giorno, alle sei in punto.

Senza mai dirselo, fissarono un decalogo implicito che comprendeva: puntualità; obbligo di farsi sentire sempre, anche in caso di febbre o altri malanni; alternanza magistrale di lamentele e notizie poco rassicuranti; buone notizie su figli e nipoti; sopra ogni altra cosa, l’impegno a non interrompere mai il filo della conversazione. Erano costretti alle parole perché al telefono, quando si è vecchi, lo spazio vuoto fa paura e temevano di smarrirsi l’un l’altro in quel deserto,  più che nella morte.

Quando si rese veramente conto che non avrebbe più visto il fratello, Ottavio si arrese al silenzio.

Poi si riprese. Scrollò la tristezza di dosso e andò avanti, come si fa dopo le guerre. Parlò dei capelli troppo lunghi, della barba di due giorni che grattava contro il cucino. Parlò di cose lontane: rammentò persone mai viste, altre sfumate in mitologia, come il barbiere del paese o Armida la bottegaia; l’uomo che passava con il carretto del ghiaccio ogni mercoledì, di cui non aveva mai saputo il nome; lei, che li aveva resi tutti adulti, il cui vero nome si custodiva come la formula di un incantesimo.

Quando si salutarono dandosi appuntamento al giorno dopo, si chiese se Lorenzo avesse capito la portata di quel silenzio. Ormai era tardi per pensarci.

 

Qualcuno aprì la porta della cucina. Due correnti d’aria si incontrarono a metà strada: una sapeva di calore e di minestra in brodo; l’altra portava con sé l’odore inconfondibile della camera dei malati. Dalla porta uscì una ragazza alta, con capelli nerissimi raccolti in una coda approssimativa; il vestito di cotone copriva gambe forti, attente a muoversi con circospezione per non far cadere un vassoio in precario equilibrio

Entrò gettando uno sguardo contrariato alla penombra e andò con decisione ad aprire la finestra.

– No, si sta bene così! Perché apri?

Ottavio sembrò svegliarsi da un lungo letargo.

– Forse perché siamo in piena estate, e qui si muore di caldo?

Non sembrava badare molto alle sue proteste.

– Ma sono sudato, così ci si ammala..

– Infatti vengo a cambiarti. Sei sporco? Hai bisogno di andare in bagno?

– No!

– È l’ora della frutta.

– Non la voglio.

– Va mangiata, lo sai. Vieni, un cucchiaio per volta.

Dopo il primo boccone ne seguì un altro, e un altro ancora, alternato ogni volta ad un “basta così”, fino a quando il piatto fu vuoto e soddisfatta lei gli fece notare che non era stato poi così terribile.

Nella stanza qualcosa ricordava il vento.

 

Ottavio era rimasto vedovo presto, e non aveva voluto risposarsi. Il fratello, al contrario, aveva interpretato l’amore come una partita a carte: due vittorie per il banco e la terza, iniziata per gioco, l’aveva vinta lui. Comunque, nel tempo Ottavio imparò a cavarsela da solo e a sopportare la compagnia difficile della solitudine, fino a quando la vista cattiva, la debolezza del passo e tutto quanto iniziava a cedere nel corpo, convinsero suo figlio a suggerirgli una presenza fissa accanto. La parola badante non uscì mai dalla loro bocca. Ci pensò un po’, protestò più per forma che per convinzione, poi accettò. Era stufo di parlare da solo fino alle sei del pomeriggio.

Per oltre sei anni furono quasi nonno e nipote: lei lo accompagnò con ferma dolcezza nelle progressive riduzioni di autonomia, fino al carcere del letto. Lui a volte si mostrava burbero, incontentabile, e Sole lo addolciva con una sorridente grazia sudamericana. Lei soffriva spesso di male d’amore; in quei giorni dimenticava orari e medicine e Ottavio le ricordava al posto suo. In un certo senso, si erano trovati.

E poi c’era quel nome: Soledad, per tutti Sole. Come il monte dietro al paese natale di Ottavio, il monte dove lui e suo fratello nacquero per la seconda volta.

Sole sentì raccontare quella storia infinite volte. Cominciava invariabilmente ad ottobre, nel 1944: erano saliti in montagna per unirsi alla Resistenza. Un pomeriggio si trovavano disarmati nel bosco vicino alla chiesa di Santa Maria Assunta; scorsero i nazisti e fecero appena in tempo a nascondersi nell’avvallamento sotto un grande castagno. Sentirono spari, urla, qualche altro sparo isolato. Poi silenzio. Non ebbero la forza di muoversi: passarono lì la notte, stringendosi come animali feriti, battendo i denti per il freddo. Non furono mai così vicini ad un altro essere umano: neanche nell’amore, neanche quando tennero per la prima volta i figli in braccio.

Quando finì la guerra, decisero di andarsene. Scelsero Milano perché un cugino del padre poteva dar loro una stanza. In quegli anni di ricostruzione, chiunque sapesse fare qualcosa trovava facilmente un impiego. Iniziarono a lavorare ad ore per un falegname amico del cugino; tre anni dopo aprirono una loro attività e presero una casa in affitto esattamente sopra la bottega.

La stanza dove adesso consumava le sue giornate era la stessa che dividevano molto tempo prima.

Ad Ottavio dispiaceva non poter guardare più dalla finestra, seguire il viavai, immaginare le vite di chi aspetta il tram. Appena arrivato a Milano, lo avevano colpito quei fili tesi da un capo all’altro della città; Lorenzo trovava che avessero qualcosa della ragnatela, e questo lo disturbava: il ragno che spezza il volo della mosca gli era sempre sembrato un farabutto, bravo solo a nutrirsi dell’ingenuità di chi vola. A lui, invece, sembravano corde in attesa del funambolo, occasioni di leggerezza. Forse per questo era rimasto lì, mentre il fratello, dopo qualche esitazione, continuò il viaggio verso Le Havre: città di porto, di nafta e partenze. Segretamente sperava di arrivare in America, ma non fece mai l’ultimo passo. Trovò lavoro in una ditta di spedizioni postali che inviava la corrispondenza dall’altra parte dell’Atlantico, prima chi iniziassero a far viaggiare le lettere con gli aerei. Tornò a Milano già vecchio e vedovo.

 

Erano le sette, ormai. Sole, seduta accanto, lo aggiornava su notizie di cronaca a cui fingeva di essere interessato. Sapeva che a breve si sarebbe alzata per scaldargli una minestra che non voleva, e subito dopo avrebbe misurato la pressione, lavato la dentiera, sciacquato il viso con acqua tiepida; lo avrebbe cambiato e sarebbe andata a dormire, salutandolo come sempre con una bacio sulla fronte. Restavano l’armadio, i quadri, le foto, e dopo una notte quasi insonne sarebbe arrivato domani.

Ancora non poteva rinunciare a dire “domani”, ma quella notte, cambiando spesso fianco nel letto per non sentire il dolore della pelle piagata, pensava al giorno dell’addio: anche quello verrà domani, pensava, tra stagioni misurate in rughe, come l’ultimo anello di un albero.  Sarà con il respiro che si arresta. Sarà la fine che è dentro la vita come un nocciolo nel frutto, il momento in cui non sarà che un ricordo quello che abbiamo amato, e mai abbastanza.

Domani, sempre domani.

Domani sarebbe stato martedì, o mercoledì: un altro giorno di letto e medicine, di “come state oggi” e “non c’è male”. Quel domani che un tempo era il paese, fiori strappati per sbaglio insieme ai rami secchi, il fucile di legno, la scuola; poi il lavoro, una casa, mamma e papà che non ci sono più, i figli cresciuti e andati via, gli amici trovati e gli amici perduti, Lorenzo, Sole, e poi ancora la noia o la bellezza che spacca il cuore.

Quell’indefinito domani che coincide con il nostro essere qui.

Domani avrebbe chiamato Lorenzo alle sei, e sarebbe stato mercoledì.

Ora lo ricordava con certezza.

 

***

 

Lo trovò nel letto la mattina dopo, nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato: la testa sollevata, i piedi più alti del cuore, le braccia distese lungo il corpo. Solo gli occhi erano aperti, troppo aperti per guardare qualcosa, e il naso sembrava affilato come mai in precedenza. In salotto, la televisione era già accesa. Sole si svegliava alle sette: aveva scaldato l’acqua, riempito il catino, messo i guanti.

Appena entrata in camera, il catino le cadde a terra.

Chiamò il figlio di Ottavio singhiozzando. Lui e la moglie arrivarono in mezz’ora, nel frattempo lo aveva coperto con un telo bianco: “per far andare via del tutto la sua anima”, disse. Vennero i professionisti del lutto, vestiti di condoglianze, fintamente eleganti, con la valigia piena di oggetti da medico e da sarto. Il vestito era pronto nell’armadio: fu Sole ad aiutarli, voleva congedarsi da lui preparandolo per l’ultima volta.

Mentre la porta della camera restava chiusa, il figlio percorreva il salotto a grandi passi. Si chiamava Folco, come il bisnonno; la moglie, Sofia,con gli occhi lucidi, lo lasciava vagare. A vederlo da fuori chiunque lo avrebbe detto preso più dall’ansia che dal dolore. Ad un certo punto si sorprese a terra, vicino alla finestra; ricordò che da bambino sedeva lì a leggere fumetti nelle giornate peggiori, soprattutto d’inverno, quando tubature invisibili lo scaldavano da sotto il pavimento.

 

La porta si aprì e furono invitati ad entrare. Ottavio era sdraiato sul letto, con gli occhi finalmente chiusi, i lineamenti distesi; sembrava avesse vent’anni di meno; indossava il vestito blu comprato per un battesimo. Sole aveva voluto stirare la camicia bianca e ora aggiustava i capelli con un paio di forbici sottili.

Non potevano portarlo subito via, per ragioni di precedenza che non risparmiano neanche la morte. Sarebbero venuti alle sette; nel frattempo Folco e Sofia li seguirono per sbrigare l’ordinaria burocrazia. Ci vollero due ore. Tornati a casa, iniziarono a chiamare amici e parenti, un telefono a testa, ripetendo quasi le stesse parole.

Chiamarono tutti, ma non Lorenzo. Non sapevano come avrebbe reagito. Ma se gli avessero mentito? Se avessero raccontato, per esempio, che si trovava all’ospedale, vivo ma incapace di parlare? E se invece avesse preferito saperlo?

Alle sei, il telefono squillò cogliendoli di sorpresa. Nessuno rispose. Dopo pochi minuti, lo stesso suono li chiamò ad una scelta.

Sofia decise per tutti: si alzò e andò a rispondere.

– Pronto. Alberto, ma sei tu?”

Il figlio di Lorenzo.

– Meno male che hai chiamato, lo avrei fatto io. Qui è successa una cosa..sì.. come? Non è possibile. Alberto, non è possibile..quand’è successo? Anche lui stanotte..sì, per questo ti avrei chiamato, non sapevamo cosa fare. Folco è qui. Oddio, non ci credo…

 

Il salotto era immerso nel torpore del pomeriggio. Sole entrava e usciva dalla camera di Ottavio, metteva in squadra le sedie, toglieva la polvere da un soprammobile, ma quando sentì la voce di Sofia si fermò al centro della stanza, immobile, e sussurrò qualcosa in spagnolo. Folco era seduto sul divano, con le mani sul viso. Non pensava ad Ottavio come padre, in quel momento. Immaginava un paese, Milano, le Havre; tutti gli oggetti che erano stati un mondo a cui nessuno darà più valore: gli occhiali, una penna, un paio di ciabatte. Immaginava chi veramente è stato in contatto con qualcuno, anche una sola volta. Immaginava una montagna, due fratelli sotto un castagno per sopravvivere alla notte; i sentieri inesplicabili che conducono alla stessa conclusione.

Quando Sofia posò il telefono non ebbe il coraggio di girarsi subito. Prese un respiro, trattenne le lacrime. La stanza alle sue spalle restituiva una pace surreale. Vide Sole, vicina alla finestra, che continuava il suo dialogo solitario. Guardò Folco, così simile al padre nei lineamenti eppure in quel momento così profondamente diverso. La mano destra  copriva appena metà del viso.

L’altra metà, nascondeva un sorriso.

 

 

 

[Entlanglement è  un termine usato in fisica quantistica: tradotto in italiano significa letteralmente “intreccio”. Denota un fenomeno verificato più volte e molto misterioso: il legame indissolubile tra due particelle elementari (ad esempio due elettroni o due fotoni) tale che, se sono state in contatto almeno una volta, al variare dello stato fisico di una varierà istantaneamente lo stato dell’altra, anche se venissero trasportate agli estremi opposti dell’universo.]

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17 commenti »

  1. Straordinario. Mi hai lasciato davvero sena parole. Una storia che procede parallela verso un finale tristemente inevitabile. Legami indissolubili nella vita come nella morte… Entlagment (geniale la scelta del titolo). Complimento davvero. Oltretutto è scritto benissimo. Ti invito a leggere il mio ” La Torretta di Guardia”. Sono curioso di conoscere il tuo parere

  2. meraviglioso!

  3. Bello, bello, bello!!!
    Alla fine mi sono sorpresa a sentire gli occhi pungere.
    Mi è piaciuta molto l’idea degli oggetti di casa visti come paesaggio orami immutabile.
    Ancora complimenti!

  4. Molto bello, avvincente e scritto bene. Ben costruita l’intensità che sale attraverso descrizioni molto indovinate.
    Un appunto però mi tocca fartelo, sul titolo: La parola corretta è: entanglement. Le lettere di questa parola, che si uò anche tradurre come ‘garbuglio’, sono in effetti facili a ingarbugliarsi…
    in bocca al lupo

  5. Proprio un bel racconto.
    E’ la storia dello scomparire poco a poco, l’esperienza della contrazione di una vita: si contrae lo spazio, con i percorsi dentro casa capaci di dilatare all’infinito la distanza tra i quartieri della stessa città; si contrae il futuro, in un ‘domani’ che finisce col coincidere con il ‘qui’, e l’adesso; e, alla fine, si contrae il corpo, disteso sul letto, col naso che d’improvviso diventa affilato come mai.
    E tutto questo l‘autore riesce a raccontarlo con attenzione e con pudore, con tatto, riserbo quasi. E qui, secondo me, sta il merito più importante di questo racconto: non c’è la drammatizzazione della fine, non c’è disperazione, non c’è nemmeno spazio per Dio, o l’ombra d’ipotesi di vita dopo la morte. Ciò che resiste è la ‘comunione’ tra due esseri umani che, tradotta in fisica quantistica, diventa l’entlagment: un legame ‘inseparabile’. E, su questo legame, mi pare che l’autore apra le porte all’’invisibile…
    Se ci si commuove, non è un caso, secondo me, perché il tutto è molto bello.
    Di una bellezza che sa parlare a bassa voce.
    Complimenti.

  6. Ottimo racconto per un fatto eccezionale: l’addio alla vita terrena di due fratelli o un legame che affronta una nuova prova. Il racconto ha ritmi diversi, direi appropriati, in relazioni alle circostanze della vita. Ci fai conoscere la biografia dei due fratelli con pochi tratteggi, la sorte comune per l’allettamento e i loro sentimenti nelle varie fasi della loro esistenza. L’episodio della lotta partigiana e l’avvio dell’attività di falegnameria ci danno l’immagine di due persone coraggiose e attive
    Bravo Marco

  7. Nostalgico, malinconico, vero. Bel racconto, scritto con grande maestria. I sentimenti della vecchiaia si intrecciano con i ricordi, che poi forse sono la stessa cosa. Bellissima la metafora quantistica. Complimenti

  8. Davvero poetico. Un fenomeno così affascinante non poteva che generare uno splendido racconto. Grazie di avermeli fatti scoprire entrambi. Complimenti.

  9. Leggendo il commento di Carmen Verde mi rendo conto che tutto ciò che stavo pensando è in realtà già stato scritto. Complimenti davvero!

  10. Teneramente descrivi un legame profondo che va oltre la vita, riunendo le anime dei due fratelli nella morte. Bello e intenso. Complimenti per la vittoria. Sarà un piacere conoscerti a Lucca.

  11. Il tuo ritmo, i tuoi tempi, gli aggettivi usati… tutto mi risulta poetico, bravo davvero! E complimenti per la vittoria!
    Non vedo l’ora di conoscerti a Lucca 🙂

  12. Mio papa’ e’ il primo di cinque figli; ha 91 anni ed è, per forza di cose, in una casa di riposo. Erano cinque e sono rimasti in due , lui il primogenito e suo fratello, il piu’ piccolo di tutti. Non lo vede da almeno 5 anni; ha deciso di dimenticarsi di lui, nonostante mio padre soffra molto la sua indifferenza. Si cerca di colmare quel vuoto, ma l’assenza di un fratello ancora in vita non puo’ essere sostituito da una figlia o da una moglie. Sono affetti diversi.
    Mi ha colpita al cuore questo racconto.
    Complimenti sentiti.

  13. Parafrasando un grande musicista quale fu Brahms, mi viene da dire che ci sono tanti racconti nell’aria che bisogna stare attenti a non calpestarli e che comporre non è difficile basta saper togliere il superfluo.
    Marco ha scolpito musica assemblando le note giuste.
    Nell’accordo iniziale (“capì che non si sarebbero rivisti”) è condensato tutto il nocciolo della storia, nella chiosa finaleil’arcano della vita: un volto celato a metà da una mano che copre il pianto e lascia aperto la leggerezza di un sorriso.
    Nel mezzo penombra, odori densi di ricordi e di ronzii di insetti, trame di ragno che cattura, fili di ali per volare.
    Il tutto scandito da(l) Sole. Un astro, una luce, una donna che come è un orologio, marca le tacche dell’ inesorabile quotidianità.
    Peccato che l’hai scritto tu questo racconto Marco, altrimenti l’avrei fatto io. ù
    Il titolo “simbiosi”, “soul mathes” l’ho già usato per un altro racconto.
    Complimenti.

  14. Ciao Marco, ho riletto il tuo racconto e lo considero bellissimo, uno dei cinque o sei che, per me, meritano il podio più alto senza voler mancare di rispetto a noi secondi. Mi sia consentito questo linguaggio sportivo. Vittoria meritata, ci vediamo a Lucca.
    Emanuele.

  15. Con un linguaggio poetico, denso di immagini evocative, hai saputo tracciare un affresco dolce e suggestivo di una lunga vita e di un momento eterno, regalando sensazioni forti e insieme sfumate. Sarà un piacere incontrarti a Lucca.

  16. Un racconto che mi ha colpito molto anche perchè mi ha riportato a situazioni vissute personalmente. Un racconto anche realistico, veritiero dunque. Mi è piaciuta particolarmente la descrizione dei ricordi , il ritorno al passato attraverso rapidi flashback della vita passata, compresa quella del figlio di Ottavio, Folco.
    Davvero una bella e toccante storia.
    Complimenti per la vittoria Marco

    marco

  17. Grazie a tutti, di cuore! Auguro ad ognuno di voi buona estate e buona vita..leggerò i vostri racconti in attesa di incontrare dal vivo chi sarà presente a Lucca.
    Sono felice che esistano queste occasioni per conoscersi sul piano ideale delle cose che si amano.

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