Premio Racconti nella Rete 2015 “Nella mia città” di Ermanno Lombardo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015“Come si chiama non lo so. Tutti la chiamano signora Pina. Dicono che dorma proprio qui davanti. Di certo anche se arrivi prestissimo la trovi già al suo posto, sulla sua sedia pieghevole. E non fa sconti a nessuno: pare che una volta abbia persino minacciato e picchiato un ragazzo che non voleva pagare”. A parlare così, guardandomi rassegnato attraverso lenti grandi e spesse è un piccolo signore con baffi grigi, come i miei. È l’ultimo della fila, cui mi sono rivolto per capire perché tanta gente si affanni di fronte alla vecchia seduta accanto all’ingresso dell’ufficio postale.
La signora Pina ha occhi piccoli e vivaci, circondati da rughe profonde. I capelli sono nascosti da un pesante berretto di lana, verde come il cappotto che indossa. Dimostra almeno settant’anni, ma potrebbe averne meno. “Due euro per i bollettini e 5 per le pensioni”, dice a chi chiede. Ma i più lo sanno già. Lei tende avidamente la mano destra per prendere i soldi e consegna lentamente il bigliettino numerato con la mano sinistra.
È una mattina di inizio dicembre, di quelle fredde che anticipano l’inverno più ostinato. Poche nuvole macchiano un cielo indeciso. Io mi stringo nel mio giubbotto.
Un altro signore si avvicina e con fare cameratesco mi dice: “chi non compra i suoi biglietti non arriverà mai allo sportello prima della chiusura”. Cerco cinque euro nella mia tasca ma poi rivolgo uno sguardo di sufficienza alla folla e mi dirigo verso l’ufficio. Qui dentro l’aria è quasi irrespirabile. Mi aspetta un biglietto con il numero 191, lo prendo, poi alzo gli occhi verso il tabellone luminoso sul quale lampeggia il numero 25. Decido di uscire fuori in cerca di aria migliore.
L’ufficio postale si affaccia su una piazza grande e sbilenca che segna un confine tra la zona residenziale e i più antichi quartieri popolari. Palazzoni ipertrofici e scoloriti nascondono alla vista il resto della città.
La signora Pina sta ancora lì, ad amministrare i suoi affari di fronte alla folla in processione. Nonostante sembri molto indaffarata, mi lancia un’occhiata affilata, come di sfida.
Decido di allontanarmi infastidito. Bastano pochi metri per lasciarmi alle spalle quel mormorio confuso. Sulla mia sinistra scorre il teatro Politeama Garibaldi. Non ho una meta precisa e ho certamente del tempo prima che arrivi il mio turno alla posta, così imbocco la via Libertà, attratto dalle prime decorazioni natalizie.
Lungo la strada alberata, ormai quasi interamente presidiata da multinazionali del lusso e della moda, resistono poche palazzine Liberty. Il resto degli edifici è il frutto pietrificato degli anni cinquanta e sessanta, gli anni oscuri del cemento che si moltiplicava in sfregio alla bellezza diffondendosi come per contagio.
Io ero molto giovane, allora. Nella mia memoria sono rimaste soltanto immagini pallide e una diffusa sensazione di cupezza. Inseguendo un ricordo lontano, proseguo ancora sulla via Libertà. Poco più avanti, sulla piazza dove la statua di Francesco Crispi guarda con severità alla città sottostante, c’era una villa Liberty, demolita proprio in quel periodo. Era una delle più belle. Sorrido con amarezza vedendo che oggi al suo posto c’è un autolavaggio. Anonimo e inamovibile sta lì, come una cicatrice sbiadita e dimenticata.
Non vorrei allontanarmi troppo, così risalgo verso una strada parallela, che percorro in senso contrario. I muri imbrattati riportano scritte indecifrabili e dichiarazioni d’amore.
Ci sono molte vetrine chiuse. Alcune sono in evidente stato di abbandono, qualcun’altra, sospesa tra speranza e pudore, espone il cartello “Chiuso per rinnovo locali”. Un negozio di abbigliamento promette sconti del 50%. Comprerò qualcosa per mio figlio, che certamente tornerà per Natale.
Quando entro mi viene incontro il proprietario che mi saluta con un largo sorriso. Ha i capelli bianchi e folti, pettinati all’indietro.
“Buongiorno”.
“Buongiorno”.
“Posso aiutarla?”.
Mi tolgo il cappello e mi passo una mano sulla testa glabra. “Vorrei vedere qualche cravatta”.
“Certo. Ne abbiano di lana, di seta…”
Non me ne piace nessuna, e mi sembrano comunque troppo costose, così cerco di liberarmi: “non vorrei farle perdere troppo tempo…”. Non faccio in tempo a finire.
“Tempo? Quello davvero non mi manca. Passo ore e a volte intere giornate senza che entri nessuno. Sistemo le vetrine, attivo promozioni, mando e-mail, ma niente. Qualche volta entra qualcuno ma poi si guarda un po’ intorno e alla fine esce senza comprare. Ci devo pensare, dicono sempre così. È una città molto riflessiva!” Ride della sua battuta, ma poi torna a farsi serio: “Noi siamo ancora qui ma tutto intorno a noi scompare ogni giorno almeno un negozio. Anche di quelli storici. Se la ricorda Flaccovio, la libreria? E la cartoleria De Magistris? Hugony? E adesso anche l’Hotel delle Palme!”. Lo sa lei che lì cenava Vittorio Emanuele Orlando? E Guttuso? Pure Guttuso ci ha dormito!”.
No, non lo so. Vorrei dire qualcosa ma non mi viene in mente niente. Annuisco un po’ stordito. Decido di comprare una cravatta. Pago, saluto e vado via.
Riprendo a camminare e sto quasi per pestare una cacca di cane che giace informe sul mio percorso. Non è la sola, in questa strada che sembra un campo minato. Penso a questa mia città a questo tempo, che è anche mio, e mi lascio prendere dallo sconforto. Come è potuto accadere? Siamo stati giovani e rivoluzionari e siamo già vecchi e impotenti.
Un colpo di clacson mi distoglie da questi pensieri. Due auto si contendono un parcheggio. Sul marciapiede c’è un ragazzo di colore che si improvvisa parcheggiatore. Lo guardo e vedo i barconi strapieni di gente che spera e si dispera. Penso al sole, al sale, alla sete, al mare che geme di notte. Tutto questo per cosa? Per questo rettangolo d’asfalto strisciato di blu dove chiedere un’elemosina sottointesa? Ogni dieci metri c’è uno di questi ragazzi. Alcuni sorridono sempre, comunque. Lui no. Ora tiene gli occhi bassi come se aspettasse qualcosa: un colpo di fortuna, una via d’uscita. Decido di dargli i cinque euro che mi sono rimasti nella tasca. È troppo sorpreso per ringraziarmi. Io abbasso gli occhi imbarazzato e lo saluto con la mano.
Davanti a me, Sulla facciata di un palazzo storico c’è una freccia blu con su scritto “Ricovero”. Seguo l’indicazione ma non trovo il rifugio promesso. Girando l’angolo vengo investito dal profumo di cibo che annuncia la presenza di un bar. È quasi ora di pranzo, devo tornare verso l’ufficio postale.
Affretto il passo cercando il percorso più breve. Sulla strada, affissioni stratificate promuovono spettacoli delle settimane passate. Le locandine sono sovrapposte, una sull’altra. Dietro a tutte le altre, in parte strappate, compare un faccione sorridente che accompagna una promessa coniugata al futuro. È il ricordo delle ultime elezioni locali.
Raggiungo finalmente l’ufficio postale. È chiuso. Attraverso i vetri vedo sul tabellone il numero 190.
Mentre impreco avverto la presenza della signora Pina. È ancora dove l’ho lasciata. Mi lancia un’occhiata, questa volta compiaciuta. Sembra dire: ci vediamo domani. Io abbasso gli occhi, e penso: sì, ci vediamo domani.
Mi è piaciuto molto il tuo racconto perché colgo anche i miei sentimenti difronte ai cambiamenti del nostro territorio, gli interventi edilizi sono il più delle volte “cicatrici” che deturpano nel nome dell’interesse economico. La città ha perso i suoi riferimenti culturali, estetici e salubri. La presenza degli emigranti è solo uno dei tanti aspetti della “non accoglienza” della città. A cosa sono servite le lotte del ’68 e degli anni successivi? E’ la domanda che la nostra generazione non può non porsi; ora c’ è solo rassegnazione e accettazione dei metodi imposti per andare avanti. Un quadro triste, pare senza speranza. Auguri Ermanno per il racconto.
Emanuele
Ciao Ermanno, congratulazioni. Ci vediamo a Lucca.
Emanuele
Mi piace molto il tuo modo di scrivere. Evochi immagini nitide, chiare e ti fai seguire fino in fondo dal lettore. Questo racconto lo vedrei bene come l’incipit di un romanzo….complimenti per la vittoria!
Buonasera Ermanno ti faccio i miei complimenti! Il tuo racconto è una triste fotografia di molte delle nostre città. Hai usato due simboli che potremmo soprannominare in modo diverso a seconda della città a cui facciamo.riferimento ma il degrado è lo stesso. La Sig.ra Pina e l’emigrante che ancora non si capisce perché venga visto lo stato in cui ci siamo.ridotti. Emanuele dice il nostro livello di accoglienza ma io aggiungo ma quale aiuto siamo in grado di dare ad altri se la nostra civiltà è andata a rotoli? Cosa resta del nostro essere un luogo di cultura?
Molto bello grazie!
Coinvolgono le descrizioni accurate e le meste considerazioni che accompagnano l’esplorazione disincantata di Palermo.
Complimenti.
Il tuo breve racconto ingloba chi legge nella sua atmosfera. In poche righe ti ritrovi catapultato nella sua realtà come in un organismo vivo, che però inquieta, perché quello che viviamo non ci piace. Molto bravo.
Il titolo, a mio parere espressivo e bellissimo, dice già molto e tu ti snodi con un racconto profondamente descrittivo che tocca una delle cose più care che noi abbiamo, il nostro territorio.
A mio parere sei parecchio bravo, complimenti! Ci vediamo a Lucca 🙂