Premio Racconti nella Rete 2015 “Micro e macro” di Lorenzo Hofstetter
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015PARTE PRIMA: Un’entità non ben precisata avvolge ogni cosa col suo sguardo critico, ed esplora il brulicare della vita in una banale e noiosa mattina di primavera. Di fatto una supercazzola verbale.
Questa storia comincia come tante altre, anzi, come la nostra stessa vita: un guizzo improvviso di energia, potente ma allo stesso tempo delicato e silenzioso, sprigionato da una superpotenza muta, lanciato a tutta velocità verso una sfera che fluttua lontano. Otto minuti e ci siamo. Cosa sono del resto otto minuti nella totalità dell’abisso? Sono bastati 480 miseri secondi, come la durata media di un amplesso, per ritrovarci, col nostro allegro raggio di sole, riflessi su una cupola, in cima a un grattacielo. Da qui la vista è sublime, ma niente a che vedere con lo spettacolo spaventoso di una gigantesca palla di fuoco. E’ enigmatica questa strana forma architettonica che si staglia nel cielo di un blu terso, commovente. Imita l’ordine del cosmo, pur nella sua piccolezza. L’odore dell’ottone, investito dal calore di tanti altri raggi come il nostro, avvolge l’aria nei dintorni. Una gru, telecomandata da insignificanti esseri glabri, uomini annoiati e tristi, si alza con la sua lunga ombra sulla superficie lucente di questo monumento alla geometria, e noi, inconsistenti e invisibili, scivoliamo su questo mezzo di fortuna fino in fondo al palazzo, dove c’è la strada. La strada, un nastro nero che puzza e violenta il paesaggio, percorso da mostri su ruote che attentano alla pace di una natura che ormai da queste parti è solo un vago ricordo. Solo qualche radice tenta di redimersi, spezzando le catene di catrame che le tolgono la linfa. Seguendo le crepe e i bozzoli, sintomi di vita sotto questo mare nero, arriviamo ad un parchetto, il più misero e triste che si sia mai visto. L’albero secolare, da cui si ramificano le radici che tanto fastidio danno agli addetti alla manutenzione delle strade, è lì, in piedi come tutti giorni, da tanti tanti anni a questa parte. Con la sua bella chioma di tiglio resiste imperterrito nella sua lotta all’urbanizzazione. Ai suoi piedi una panchina storta e pericolante invecchia a vista d’occhio. Nonostante la ruggine, un vecchio se ne sta seduto là sopra, in silenzio. Guarda e ascolta il caos della città che cresce man mano che la mattina si fa mezzogiorno, e intanto lancia tocchi di pane secco ai piccioni. Gli sguardi di lui e di un uccello si incrociano, ognuno vede nell’altro la stessa tristezza, la stessa paura. Ma il piccione, al suono di un clacson, vola via, in un’ascesa a 60°, lasciando il vecchio e i suoi occhi tristi ai ricordi e ai desideri. Tanta voglia di poter volare via. In un fruscio di ali che sbattono, nell’arco di pochi minuti, giungiamo in un nuovo quartiere, più tranquillo. Le case sono un po’ all’antica, palazzine di due piani messe a schiera, con colori pastello a rallegrare l’ambiente, soprattutto se paragonate all’acciaio e al vetro del centro. Il piccione plana con leggerezza su un prato, dove i tanti raggi, come fratelli ritardatari del primo, si adagiano morbidamente. Un topo, nervoso e attento, scappa non appena il piccione va ad unirsi a un gruppo di suoi simili, tutti intenti nell’aggredire una pagnotta stantia fra dei bidoni della spazzatura. Il timido animaletto, zigzagando fra l’erba, si tuffa nella sua tana, portando la nostra attenzione con sé in un nuovo mondo, sotto terra. Qui, nel buio più totale, individua una piccola creatura nel terriccio. Il verme non può fare altro che essere mangiato dal roditore affamato. Uno scarafaggio striscia nell’ombra della tana, si infila nella terra umida e scende giù, facendosi strada con le orribili zampette, sempre più giù. Arrivato a una certa profondità si deve destreggiare fra ciottoli e pezzi di vetro. Una piccolissima scheggia di pietra vibra impercettibilmente al passaggio dell’insetto. Ogni molecola che la compone viene scossa, gli atomi mandano segnali ai loro simili. A distanze siderali l’uno dall’altro, non possono sapere di essere parte della stessa cosa.
PARTE SECONDA: Ignaro di essere solo una miserrima parte del tutto, un ragazzo vive con pathos la sua quotidianità, trascinando le sue stanche membra in un luogo oscuro e misterioso, dove recupera il piacere della scoperta.
Banale e noiosa mattina di primavera. Il traffico, una palla al piede assurda. Non tanto perché mi fa perdere tempo, sono a piedi… è il suo ridondare di suoni e odori terribili e assassini. Ecco, è questo che non sopporto. Mi piace il silenzio, o perlomeno una condizione che mi permetta di ascoltare i miei stessi pensieri. Per questo sto parlottando fra me e me (tra l’altro la gente qui in strada mi guarda come se fossi matto da legare) e cerco con lo sguardo un angolo di quiete. I miei impegni potranno aspettare, del resto la meta non esercita un gran fascino su di me, ci vado giusto per far credere al mondo che, come tutti gli altri, ho delle cose da fare, per nascondere un po’ il mio assoluto disprezzo verso la vita sociale, le chiacchiere, la posta, e così via, le solite cose che fanno di me un cliché datato, e almeno io ne sono consapevole… Ma non voglio rompere l’anima a nessuno con queste seghe mentali, basta, mi dirigo verso quel parco. Ancora due passi… benissimo. Qui in mezzo allo spiazzo ci sto bene. Gli alberi mi tranquillizzano, gli uccellini che cantano e tutte le cazzate annesse mi fanno dimenticare lo smog e il tassista che pochi minuti fa ha tentato di investirmi. Il vecchio che bersaglia i piccioni col pane indurito corona questo idillio di panchine sfondate, arrugginite e brutte. Lo trovo pittoresco! Mi siedo sulla base del monumento in mezzo al giardinetto, un cesso di cemento che non ha trovato un miglior posto di questo paradiso per essere sistemato dal Comune. Sono sicuro che il tossico svenuto fra la siepe e il marciapiede abbia subito il fascino dell’opera. Canticchio sottovoce, ogni tanto fischietto, e faccio passare un buon quarto d’ora. Adesso ho le forze per rimettermi in cammino ma no, un momento. Sono assolutamente rapito da un gruppo di filippini e filippine di tutte le età che ha portato uno stereo e che fa una specie di coreografia, credo. Sono estasiato dalla gioia e dalla dedizione di quelle persone. Perché non mi so divertire così anch’io? Sono sempre così critico, infelice. Anche chissene, lo sconforto viene soppresso dal divertimento: una panzona della comitiva è caduta in terra nel tentativo di fare una mossa che sarebbe impossibile anche per la metà di lei. Mi alzo e mi giro dall’altra parte per non far vedere a tutto il parco che sto sghignazzando davvero, per questo spettacolo penoso, come un ebete. Mi riprendo e cammino, i miei pensieri oscillano fra la tristezza e il male di vivere, intervallati ogni tanto da pensieri buffi e dalle tette. Ho già l’ansia addosso per aver passato mezz’ora in questo zoo umano, a perdere tempo, secondo le convenzioni della società in cui vivo. Mamme col passeggino, una gattara, coppie che fanno jogging, qualche barbone e un cane che trotterella fra un albero e l’altro, apparentemente senza padrone. E’ la forma di vita con cui mi sento più in sintonia. Chissà se anche gli altri pensano a tutte le idiozie che mi affollano la testa. Non c’è più tempo comunque, devo… devo proprio andare là… sono in ritardo. Col cuore a pezzi sto per imboccare di nuovo il viale quando… non ci credo. Esistono ancora? Mi avvicino quasi con sospetto. Fra una rastrelliera e una siepe troneggia, in perfetta solitudine, una cabina telefonica. UNA CABINA. Telefonica… cabinatelefonicacabinatelefonica… no dai. Raggiungo l’instabile e traballante macchina del tempo e mi fermo a un passo dalla porta, con sguardo venerante. Sotto i graffiti di piselli e le parole sconce si riconosce ancora qualcosa del suo antico splendore, prima di tutto il colore: rossa sotto, bianca l’altra metà, proprio come me la ricordavo. In cima svetta il cartello telecom con le ondine. I vetri chiaramente sono stati sfondati. Ora entro. Mi intenerisce il telefono rosso-argentato col suo rudimentale display, che però è spento… Alzo la cornetta: fischi e vaghi suoni di interferenze. Gioco un po’ con i tasti . Questo affare è palesemente rotto! penso. Ma non mi importa, sono al settimo cielo. E fanculo quelli che mi aspettano in centro, non si smette mai di reimparare…
Non c’è pace nel micro e nel macro cosmo, ovunque situazioni complesse o presenze di aggressori e segni di abbandono. Sta a noi cercare la quiete senza lasciarci prendere dall’angoscia. Il ritmo serrato è congruo ai messaggi e trasmette tensione.
Emanuele