Premio Racconti nella Rete 2015 “La neve sporca” di Diego Piselli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015“Un gattooo biancoooo con gli occhiii bluu…. un vecchio vasoooo sulla tivvuuuu!”
Il minibus correva a centoquaranta all’ora sull’autostrada ungherese, mentre il lettore MP3 acceso a palla mandava vecchi successi.
“Ti piacciono i ricchi e i poveri?” le avevano detto qualche minuto prima le ragazze ucraine che stipavano il piccolo veicolo con lei (che non aveva saputo bene cosa rispondere).
Roberta si guardava intorno spaesata, mentre le straniere bionde cantavano a squarciagola in italiano, virando sulla lingua natale quando la traccia MP3 passava ad Alina Grosu.
Fino a poche ore prima non avrebbe mai immaginato che proprio lei sarebbe partita all’improvviso per Kiev e soprattutto che lo avrebbe fatto con quel mezzo: di mestiere faceva l’assicuratrice e di solito di badanti e ballerine non ne frequentava.
La telefonata era arrivata alle due di sabato, mentre era al centro commerciale Oriocenter, ma gli aerei erano già partiti e lei non guidava volentieri in autostrada.
Sua madre le aveva suggerito di cercare un passaggio con i pulmini delle badanti che sostavano in periferia e lei era corsa a casa per prendere il passaporto.
Ora era lì, sul minibus, in mezzo all’odore di umanità e di cibo che le donne si passavano e le offrivano.
Dal finestrino guardava passare veloce la campagna e per la prima volta, dopo due settimane, aveva ricominciato a pensare a Ettore. A pensare a quanto lui valeva poco e al tempo che aveva sprecato.
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La telefonata era arrivata anche a Ettore, mentre era a pranzo in una bella villa con il solito gruppo di amici: imprenditori, professionisti e funzionari di Equitalia.
Stavano discutendo del più e del meno (le donne con il velo come saranno ?) quando il telefono era squillato.
Ettore si era allontanato dal gruppo e aveva ascoltato la voce che gli parlava, in italiano perfetto ma un po’ meccanico (chissà perché questi dell’est sembravano sempre emiliani?)
Poi era tornato al tavolo: “Scusatemi, ho un impegno all’estero vi spiegherò tutto nei prossimi giorni” ed era andato via, seguito dallo sguardo perplesso degli uomini al tavolo, già un po’ appesantiti dal prosecco.
Era corso a casa a prendere il passaporto, era saltato sulla BMW appena lavata e poi via, sulla A4 bagnata di pioggia, con il muso della macchina verso est.
Aveva deciso di non fare mai sosta se non per fare rifornimento e mentre ascoltava Ligabue pensava a Roberta. Con disprezzo. Che donna problematica, noiosa e nevrastenica!
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Tutto era cominciato un anno prima, quando Roberta aveva capito che il suo utero proprio non poteva ospitare un bambino.
Era un peccato.
Ettore era un bell’uomo e il loro era un bel matrimonio: un bambino ci sarebbe stato proprio bene.
Se lo era immaginato con precisione, come se fosse già nato.
Lui che andava a scuola, che imparava a sciare, che usciva con il motorino …
E invece … non si poteva fare un bambino
Non aveva discusso di nulla con Ettore: lui lasciava fare a lei e poi in quel periodo aveva molto da lavorare.
Aveva escluso subito l’adozione. Era troppo complicata e poi Ettore aveva un precedente per frode fiscale: c’era la condizionale ma era meglio non cercare rogne.
Cercando ispirazione su internet era capitata in un forum sulla maternità surrogata, che le era sempre sembrata una cosa strana, per donne che amano le donne: leggendo, però, aveva cambiato idea.
Tutte sul forum parlavano di una bellissima clinica a Kiev, la Fertilitas, dove con trentamila Euro ti affidavano a una donna che portava in pancia il bambino per te: se non avevi il materiale genetico potevi anche impiantare quello di un donatore.
Non era il caso suo e di Ettore: entrambi erano fertili e potevano far crescere nella pancia di un’altra un bambino proprio loro.
La sera stessa aveva convinto Ettore con un argomento conclusivo: “l’ha fatto anche Robert De Niro”
Forse Ettore voleva veramente un bambino o – forse – anche a lui il quadretto familiare sembrava un po’ vuoto.
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A Kiev alla Fertilitas ci erano andati presto, per il contratto e i prelievi, facendo anche un po’ di turismo (la mamma surrogata non l’avevano conosciuta, ma non era una cosa importante).
Roberta aveva letto sul forum che l’albergo pagato dalla Fertilitas era spartano, con i bagni in comune e il cibo così così.
Allora avevano scelto un bell’albergo, cinque stelle lusso in centro vicino a Piazza Indipendenza..
Si erano fermati qualche giorno e l’ultima sera, dopo il giro turistico, avevano mangiato giapponese in uno dei ristoranti dell’albergo: come al solito lui aveva mangiato molto e lei aveva solo piluccato il sushi, per paura di ingrassare.
Tutti e due, però, avevano bevuto un po’ troppo: birra e sakè come se stessero festeggiando.
All’ultimo brindisi Roberta si sentiva molto stanca e le era venuto di dire: “Cosa farai Ettore quando metterò su chili? Mi vorrai ancora?”
Anche lui era stanco: aveva la faccia tirata e si vedevano i quarant’anni.
Per una volta non si era controllato e aveva risposto di getto: “lo sai che mi a me piacciono solo magre. Se metti su chili ti pianto”.
Lei aveva sentito una scossa in tutto il corpo e subito lui aveva aggiunto: “mi sa che se fallisco sei tu quella che mi pianta”.
Roberta lo aveva guardato e, in silenzio, aveva annuito battendo le palpebre.
Dopo cena non avevano più parlato e si erano addormentati subito.
E poi… tutto era finito.
Improvvisamente non avevano più niente da dirsi. Ogni volta che si guardavano non vedevano l’altro giovane, magro e bello, ma vecchio, gonfio e povero.
I loro corpi, i soldi, i vestiti, gli amici … tutto sembrava destinato a corrompersi presto.
Tornati in Italia erano resistiti insieme qualche giorno. Poi era scoppiato un terribile litigio per qualcosa di banale e ognuno era andato per la sua strada.
Del bambino che cresceva in una pancia in Ucraina si erano proprio dimenticati, come ci si dimentica di un vestito da ritirare in tintoria: non avevano neppure aperto le mail con le ecografie e non si erano interessati del sesso del nascituro.
Quel sabato, però, la clinica aveva chiamato annunciando che erano cominciate le doglie e tutti e due erano partiti, convinti che fosse un maschio.
Ognuno voleva arrivare per primo, per riconoscere il bambino all’anagrafe ucraina senza fare il nome dell’altro e poi chiedere al consolato i documenti per il rimpatrio.
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Lunedì pomeriggio erano arrivati tutti e due a Kiev.
Il pulmino in teoria era più lento dell’auto di Ettore, che però era stata rallentata da interminabili controlli alla frontiera.
Roberta aveva superato l’imbarazzo e aveva convinto l’autista a farla scendere alla clinica, che era di strada per le sue compagne di viaggio: era scesa proprio davanti al cancello della Fertilitas, stanca e stropicciata ma accompagnata dal coro di auguri delle ragazze, che un po’ la consideravano un’occidentale viziata, un po’ l’avevano adottata.
Quasi nello stesso momento era arrivato Ettore, in coda a un tassista che aveva convinto a mostrargli la strada per la clinica, irraggiungibile con il navigatore dell’auto.
Lui e Roberta non si erano neppure guardati e si erano precipitati nell’edificio come se fossero due estranei, ognuno certo che in un modo o nell’altro sarebbe riuscito a riconoscere da solo il bambino.
All’ingresso avevano tentato di fermarli, ma loro erano andati avanti, spinti da una determinazione brutale, seguendo i cartelli in inglese.
Arrivati alla nursery, però, li aveva bloccati il direttore della Fertilitas, ostruendo con il corpo la porta.
Aveva iniziato a parlare lentamente, in italiano misto a inglese: il parto era andato bene, la bambina stava bene (bambina!?) …. Poi aveva parlato più velocemente, spiegando che si era verificata una difficoltà inaspettata: “nonostante i severissimi controlli della nostra clinica c’è stato un problema operativo e qualche ora dopo la nascita è saltato fuori che la bambina ha la pelle nera … siamo certi che non è figlia della madre surrogata ma non siamo assolutamente in grado di ricostruire l’identità dei suoi genitori ”.
Poi aveva aggiunto che c’era anche un altro problema: “la neonata ha un problema intestinale e deve necessariamente assumere latte materno almeno per un mese … in ogni caso la clinica provvederà a rimborsare quanto avete pagato e la bimba sarà avviata all’adozione”.
Neppure allora si erano guardati: avevano solo scosso la testa e se ne erano andati, ognuno per la sua strada.
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Dopo la cena abbondante Roberta sentiva arrivare il sonno, mentre Ettore già da un po’ aveva gli occhi chiusi.
Addormentandosi Roberta ripensava a quella strana giornata in Ucraina, qualche mese prima.
Uscita dalla clinica si era trovata da sola sul marciapiede e aveva sentito la morsa del freddo.
Intorno c’erano le case alte del socialismo reale e tanta neve sporca.
Ettore, poco distante, stava aprendo la portiera della macchina.
Ma non era veramente salito: si era voltato, l’aveva fissata e aveva detto: “Roby. La prendiamo?”
Lei lo aveva guardato, sbalordita, e stava per dire di no.
Poi aveva immaginato la bimba scura che giocava nella neve sporca e le era venuta in mente la faccia degli amici di lui, quella della suocera e quelle delle colleghe: un misto di disprezzo e di invidia.
“Certo che la prendiamo. Dovremo solo stare un po’ in Ucraina mentre prende il latte”.
E così era stato: avevano affittato una stanza tramite le babuske che sostavano vicino alla clinica e lì si erano fermati per un mese.
Era saltato fuori che la mamma surrogata conosceva le ragazze del pulmino: la voce della bambina si era sparsa e qualche giorno dopo erano arrivate tutte con dei doni.
Avevano improvvisato una festicciola a base di coca cola, vodka e delle specie di pancake con panna acida. Una ragazza aveva portato un cd e tutti, un po’ brilli, si erano messi a cantare.
Alla fine del mese erano tornati in Italia, caricando sulla macchina di Ettore la bimba e un paio di compagne di viaggio di Roberta che tornavano in Italia
Alina cresceva bene. Anche se lei non era sicura di amare ancora Ettore.
Ciao Diego. Scritto con una penna sciolta, il racconto ci descrive la vita di una coppia di quarantenni. Il matrimonio va in crisi, uscendo dalla routine per poter aver un figlio da adottare. Ci dai tante situazioni e tanti problemi tipici del nostro tempo. I problemi si risolvono grazie alle realtà economiche, sociali e culturali e allo spirito di solidarietà di cui si hanno tante riserve in tutti i paesi. Il finale è realistico.
Emanuele