Premio Racconti nella Rete 2015 “Sangue di Mnemosine” di Gianmarco Grecuzzo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015In uno dei quartieri più agiati di una futura Italia al femminile, uno sconosciuto si presenterà di fronte al cancello di una casa logorata, come lui, dal tempo e dall’incuria. Sarà abitata da una donna non più giovane e sola, che controllerà la propria ansia a stento.
Una metà di nervosismo e una di insistenza comporranno l’uomo ancora vigoroso dinanzi al quale si saranno aperte numerose porte, viziato dall’impazienza e poco propenso ad accettare un rifiuto, che rimarrà davanti al cancello senza la minima intenzione di andarsene.
Prima di avvicinarsi all’ingresso la donna si chiederà se la sua scelta sarà giusta, poi sbloccherà il cancello, la serratura della porta e si farà da parte per lasciare entrare il suo ospite. L’uomo varcherà la soglia con molta disinvoltura e un improvviso senso di colpa lo forzerà a nasconderla sorridendo.
— Signora Gea, si ricorda di me? — chiederà.
Alla padrona basterà un’occhiata per riconoscerlo e indicare una rampa di scale al fondo del lungo corridoio, sul quale si affacceranno molte stanze abbandonate a sé stesse. Quando lo sconosciuto ci passerà accanto, una di queste gli ricorderà più un santuario che una camera da letto: lo inquieterà, raccoglierà i momenti di una vita passata e sarà colma di diari, giocattoli, vestiti sparsi ovunque dall’ultimo scoppio di gioia della ragazza che ci avrà vissuto.
Al termine della scala la coppia si ritroverà in un sotterraneo attrezzato come una sala di degustazione, seppure con una sobrietà quasi monacale, gelido come una tomba e arredato con un grosso tavolo di mogano, alcune sedie e una decina di portabottiglie, sulle quali si troverà una selezione di vini di grande pregio.
Lo sconosciuto si siederà su una delle sedie e trarrà un lungo sospiro per vincere lo sforzo richiestogli dalla successiva frase.
— Ho bisogno di aiuto, signora. Non posso lavorare, non posso frequentare nessuno, quasi non ho da mangiare. Non volevo che le cose andassero così, mi creda. So di essermi lasciato sfuggire un’intera vita per una sciocchezza, dovrebbe essere sufficiente per lei, non pensa?
Le ultime parole del suo ospite scuoteranno la donna con un violento fremito, che permetterà a un impulso trattenuto per un tempo interminabile di non sfogarsi, rovinando così la loro unica occasione di confronto.
— Pensi che la tua sia stata una sciocchezza? — ringhierà la donna.
— No, non volevo dire questo. — si affretterà a dire l’uomo. — Mi sono espresso male, le chiedo scusa. Volevo dire…
— Non importa, posso capire. — La signora Gea non vorrà intimidirlo troppo e correggerà subito la sua severità in un tono più pacato, tranquillizzandolo e dandogli modo di abbassare la guardia. Lui si rilasserà e si convincerà di avere il pieno diritto di avanzare la propria richiesta, lasciandola terminare i preparativi del brindisi prima di esprimersi.
La donna rifletterà per un ultimo istante, esaminerà le bottiglie soppesandole nelle mani con assoluta fermezza e sceglierà una bottiglia riempita con il liquido frutto di un’attesa snervante, raffinato con pazienza per interi decenni. Sarà un vino rosso, scuro e denso, dall’odore penetrante che per un attimo ne farà ricordare all’uomo un altro, simile a quello maligno e agrodolce del rimorso.
La donna lo verserà nella coppia di calici preparata apposta per l’incontro, sincerandosi che neppure la più minuscola delle gocce cada fuori dai bicchieri, e alzerà il primo per porgerlo all’ospite. L’uomo sarà combattuto: vorrà togliersi la sete che lo starà consumando da tempo, tuttavia per educazione, o prudenza, sarà tentato di rifiutare.
— Bevine un po’, coraggio, ti chiedo solo questo. Mi basta una sorsata, in ricordo dei tempi felici.
Il sigillo sarà già stato rimosso dal tappo e il suo ospite non ricorderà che la donna lo abbia tolto, tuttavia la fragranza che custodirà sarà già entrata in lui, facendogli scordare qualunque cautela prima di bere il vino con un’avida sorsata. Anche la donna prenderà un lungo respiro, chiuderà gli occhi e butterà giù il contenuto del proprio calice senza esitare.
— Questo è un vino molto raro, si chiama “Sangue di Mnemosine”. — spiegherà. — Per percepire la sua reale qualità ci vuole tempo: bisogna lasciare che faccia effetto e sprigioni il suo vero carattere. Si dice che Mnemosine, la dea della memoria, lo facesse bere ai suoi ospiti durante le feste tenute in suo onore, per risvegliare le pulsioni e i ricordi di chi lo beveva.
— Sono venuto da lei perché ho bisogno di sentirmi la coscienza a posto e lasciarmi tutto alle spalle. Lo capisce, vero? — chiederà lo sconosciuto con tutto l’egoismo di cui sarà capace.
— Ti capisco molto bene. Un autentico italiano vuole sempre ripulirsi la coscienza, anche dopo avere fatto le cose peggiori.
Per tutta risposta il suo ospite scaglierà il calice sul pavimento mandandolo in frantumi, in balia dei primi effetti del vino. Scuoterà la testa per provare ad allontanarli, senza riuscirci, assieme alla sottile angoscia che comincerà ad assalirlo e a fargli dire cose che non vorrà.
— Ma che razza di vino è? — ruggirà l’uomo come un animale in trappola. — E poi cosa sta dicendo? Io non sono uno stupido italiano, io sono americano. Non avrei mai dovuto essere qui, mi ci hanno portato con la forza. — balbetterà confuso.
— Oh no… — farà Gea, in tono cupo. — …Ti devo deludere, tu sei italiano. Come molti italiani della tua generazione, hai creduto che abbandonando la tua nazione avresti potuto sfuggire alle tue responsabilità. Ma chi è italiano non può diventare americano, tanto quanto chi è colpevole non può diventare innocente. A differenza di loro, però, tu hai fatto qualcosa di gran lunga peggiore. Ricordi?
Gli oggetti parranno sdoppiarsi e lo stesso Paolo si terrà a malapena in piedi; il suo respiro si farà affannoso, mentre la donna comincerà a diradare la sua memoria dalle bugie che la annebbieranno.
— Ricordi di avere conosciuto una donna giovane e un po’ ingenua, poco più che ragazzina, molti anni fa? — lo incalzerà. — Mi parlava di continuo di te, Paolo. Voleva parlare con te, viaggiare assieme a te, vivere con te, darti l’intero patrimonio della mia famiglia per finanziare le tue imprese economiche, qualunque cosa per il suo audace imprenditore.
Un retrogusto aspro le passerà sulla lingua e le renderà sgradevole, amara, ognuna delle parole che pronuncerà.
— Ma poi, quando hai cominciato a chiederle altri soldi per coprire le perdite, soddisfare gli strozzini e i prestanome, lei ti ha detto di no. Ti ricordi cosa è successo dopo?
Gli occhi di Paolo si bagneranno, la sua bocca sussurrerà delle scuse e lui cadrà bocconi, ma la donna non si lascerà ingannare e non penserà neppure per un momento che l’uomo lo stia facendo per sua figlia.
— Mi perdoni, signora Gea. — biascicherà. — Ho sbagliato e ho pagato. Sto provando a cambiare, mi aiuti a farlo.
— Sicuro, Paolo? Hai dimenticato quanto male tu abbia fatto a Chiara? La tua boria da rampollo viziato al quale nessuno può opporsi l’ha ferita molto, ha storpiato la sua persona anche peggio delle tue coltellate. Trenta in tutto, ti ricordi?
— Sei scappato in America usando un altro nome, ma la tua colpa, la tua Italia, ti ha trovato lo stesso. Ti ha fermato e riportato qui, nel posto che hai sfruttato insieme alla mia famiglia grazie alla nostra ingenuità. Ci ha messo molti, forse troppi, anni, ma io ho saputo aspettare.
A propria volta, la donna comincerà ad accusare un leggero giramento di testa seguito da una forte vertigine, senza che questo la faccia desistere.
— Per vent’anni ho aspettato che ti trovassero, mentre mio marito aveva deciso di divorziare, i miei conoscenti smettevano di parlarmi e buttavo i pochi soldi che non avevi portato via in barbiturici e sonniferi. Eppure la pazienza mi ha dato ragione.
— Ho aspettato altri cinque anni, sicura avresti evitato la galera e saresti tornato da me, perché ero certa che un vigliacco come te avrebbe preteso anche il perdono dopo lo sconto di pena. E ora dovrei perdonarti, Paolo? Dimmelo tu, io non so più cosa fare in questa nuova Italia. La velocità con cui è cambiata l’ha resa splendida e incomprensibile, almeno per chi, come me, l’ha vista crollare. Si è fatta superba, viziata, capricciosa e anche se la ammiro non mi ci riconosco più. Ho provato a rendere Chiara diversa ed è morta, come posso sapere che non sbaglierò anche con te?
Paolo si sentirà bruciare dal di dentro e penserà di non avere più scampo, quando la madre lo stupirà con un gesto d’incoscienza tanto inspiegabile da renderlo coraggiosa, l’imprevedibile riscatto delle donne nella futura Italia.
— Si, perché no? Perché non dovrei perdonarti e dimenticare tutto? Non siamo stati abbastanza male? Sì, hai il mio perdono. Va’, sei libero.
Un improvviso senso di trionfo rinvigorirà Paolo, permettendogli di scordare momentaneamente il proprio dolore e rialzarsi di scatto con l’ebbrezza della vittoria a deformargli il volto.
— Ma non riesco a perdonare me stessa. Ero ancora sciocca quando ti permesso di mettere piede in casa mia e non ti nego di avere pensato che ci avresti reso più ricche. Ho pagato. Ma Chiara era diversa da noi, penso che ti avesse capito e credesse di poterti cambiare.
— Forse è giusto così. Ogni donna che si rispetti deve imparare a vivere da sola. È per questo che le nuove italiane impareranno a non dimenticare mai, per nessuna ragione, le proprie colpe e quelle altrui. — La voce della donna non avrà la forza di condannarlo, sarà pallida e inerte quanto lei, perciò nessuno la potrà ascoltare.
Paolo potrà ripercorrere la scala, il corridoio e precipitarsi fuori, potrà sentirsi di nuovo in diritto di cercare la propria felicità. La stretta al petto che lo coglierà dopo qualche minuto, facendolo stramazzare al suolo, invece sarà rapido e senza appello.
L’uomo proverà a capire cosa gli sarà successo, ma, come allora, non riuscirà a impedire al proprio male di assalirlo. Riuscirà solo ad accorgersi dell’affetto che sua moglie gli avrà concesso, nell’istante in cui questo gli apparirà in tutta la propria maestà: lo investirà, lo abbaglierà, gli farà capire di averle voluto comunque bene e lo farà pentire di averla perduta, forse lo perdonerà e se lo porterà via.
Nell’elegante sepolcro, Gea si riserverà un ultimo pensiero cosciente. «Se mi fossi sbagliata, invece? Forse se lo avessi perdonato sarebbe cambiato, dopotutto gli uomini migliorano col tempo, come il vino. E il veleno.»
Poi il senso del dovere smetterà di sostenerla, non si controllerà più e fracasserà le bottiglie, dai cocci il loro segreto si solleverà con un profumo simile a quello dell’assenzio e lei si sentirà libera da ogni responsabilità.
Sarà in pace con sé stessa, giacerà sul pavimento del sotterraneo e le sembrerà di sentire i passi di un’altra donna avvicinarsi.
Allora sorriderà, le tornerà in mente sua figlia e aspetterà.
L’idea di raccontare una storia ricorrendo al tempo futuro rende la lettura intrigante e suggestiva. Davvero un bell’esercizio di stile. L’ansia di Paolo (che sente ormai approssimarsi la resa dei conti) è elaborata con grande abilità in un crescendo che culmina in un finale spietato (ma, forse, meritato)… Complimenti. Sarei curioso di conoscere la tua opinione sul mio “La Torretta di Guardia” del 27 maggio.
Trovo il ritmo del racconto molto sostenuto, d’altro canto c’è da seguire questa signora che vuole eseguire una condanna a morte. Non mi sembra una signora della legge, quella dei tribunali di giustizia, mi sembra una vendicatrice, sottile e raffinata nel dar corso alla sentenza di morte. Può essere un romanzo da tagliare sulla misura di qualche famiglia patrizia dedita ad attività imprenditoriali.
Molto interessante. Ho apprezzato molto l’utilizzo del futuro come tempo di narrazione, dona tensione al racconto. Complimenti.