Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Figli di un dio triste” di Emanuele Ratti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

Ho conosciuto molte persone dal carattere speciale e tra queste c’è Iàio, un uomo che è stato chiamato da molti con questo nomignolo per tutta la vita considerando il suo animo gentile. Il nome proprio era Flavio; lui era l’ultimo arrivato in una famiglia numerosa dai nomi tradizionali: Luigi, Roberto, Marco, Emilio, Angela e Maria.

Flavio è un nome poco usato in Brianza perché non congruo per una società chiusa negli impegni quotidiani e con l’obbiettivo  dichiarato del denaro come era sino agli anni 70. Quella società era poco dedita a darsi vanto delle cose, neppure di quelle importanti; in quel mondo le persone erano solite preoccuparsi poco dell’apparire.

Il nome di una dinastia romana è confacente ai rampolli della nobiltà, una specie estinta nella zona e sostituita da imprenditori, da industriali e da liberi professionisti. In paese ci sono state altre due persone di nome Flavio; uno, ora sessantacinquenne, è nato in una famiglia di persone semplici e risiede dal giorno del matrimonio in una cittadina vicina, l’altro, cinquantacinquenne avvocato e figlio di un avvocato, abita a Como.

Flavio è morto nel  2013 a cinquantatre anni e le sue spoglie mortali sono state accompagnate al cimitero da moltissime persone in un pomeriggio d’autunno sotto i raggi di un tiepido sole. Quel giorno, entrato in chiesa per la funzione religiosa, ho raggiunto le sedie disposte davanti all’altare di San Carlo e ho guardato le persone che occupavano le prime panche, quelle riservate ai parenti del defunto. Ho visto i fratelli di Flavio con le loro mogli e figli ma non ho riconosciuto la maggior parte dei parenti e le signore eppure le sorelle erano ragazze avvenenti.

All’omelia il parroco don Carlo ha ricordato il ricovero e la malattia di Flavio e ha avuto parole di conforto soprattutto per la mamma. Don Carlo è in paese da cinque anni e conosce solo una parte della storia di Flavio.

Flavio era nato nel 1960, un anno speciale per i nati; i ragazzi di quell’anno frequentarono le lezioni di catechismo e il campetto dell’oratorio e furono coinvolti nelle attività dal parroco di allora, Don Angelo giunto, quarantenne nel 1967, per il ministero.

Di loro ricordo l’intelligenza, la predisposizione al gioco del calcio e la vivacità,

e vedo ora che loro, all’età di cinquantacinque anni, sono liberi professionisti e tecnici

di produzione di tutto rispetto e i loro figli frequentano l’università.

I ragazzi si divertirono con il gioco del calcio sul campo fatto costruire da don Angelo nel giardino della casa parrocchiale; era difficile per loro dribblare il parroco in abito talare che bloccava sempre il pallone. Ebbero la possibilità di andare in campeggio sulla montagna di Orimento di San Fedele Intelvi e di Barni  e in Sardegna per ben due volte. Don Angelo dava sicurezza sulle spiagge perché era un provetto nuotatore nella muta composta da pantaloni neri lunghi e da maglia intima bianca a mezze maniche.

Questa generazione ebbe l’occasione di conoscere l’Italia viaggiando sul  pulmino Volkswagen o sulla Seicento multipla Fiat. Io fui uno dei collaboratori e l’autista degli automezzi.

Questi ragazzi impararono a rispettare la natura da Don Angelo che da adolescente era stato un boy scout e una staffetta partigiana ed ebbero un loro punto di ritrovo, ricavato nell’ex Asilo parrocchiale e chiamato Bar Acli, gestito dal ‘Magistri’.

Flavio era uno di loro, pronto a correre verso la sala TV e il salone del cinema per assistere alla proiezione del film, lento invece nel raggiungere la chiesa per la preghiera e il catechismo. Flavo era un tantino intemperante, abituato in casa a resistere per non restare sopraffatto dai fratelli, e non aveva frequentato a lungo la scuola.

Per quei ragazzi, diventati adolescenti, giunse il momento delle sigarette e degli sguardi alle ragazze che, rimaste senza oratorio femminile, si impegnavano con il Gruppo del Mato Grosso per la raccolta della carta e degli stracci. Qualcuno ebbe gli incontri e i baci furtivi nell’edicola dei morti della peste o presso la sala cinematografica parrocchiale.

Un giorno, l’accesso all’edicola dei morti fu sbarrato da una grata, il Bar Acli chiuse e don Angelo, deluso dalle critiche becere dei fedeli, lasciò il paese scegliendo di diventare il cappellano di un ospedale. I giovani iniziarono a frequentare i bar  preferendo il ‘Corona’ e il ‘Bar Stazione’ meglio noto come ‘Bar Bambina’ e Flavio iniziò a coltivare l’amicizia con tante persone.

Io, in quel tempo, lavoravo alla Snam di San Donato Milanese e vivevo il paese come dormitorio, nel poco tempo libero o ero in casa o svolgevo attività di supporto alla politica locale. E’ di questo periodo un incontro con Flavio che avvenne in casa mia un sabato mattina.

“Sono Iàio. Ho bisogno di parlarti” sentii dire nel citofono.

“Cos’avrà bisogno?”, stupito, mi chiesi dopo aver riattaccato e fatto scattare la serratura del portoncino.

Davanti alla porta aperta dell’appartamento aspettai Flavio che, giunto sul piano con l’ascensore, mi disse:“Ciao, Lele, devo parlarti”.

“Vieni dentro, Iàio.”

Davanti a me c’era un giovanotto, poco più che ventenne, alto come me, con i capelli a spazzola di colore tendente al grigio e dall’aspetto di ‘marine’, aveva il gonfiore del pacchetto di  Marlboro sulla spalla destra, sotto la maglietta mezze maniche.

L’incontro durò mezz’ora; fu una chiacchierata tra amici. Flavio parlò di diverse cose e, vale a dire, di niente in particolare e fece riferimento varie volte al ‘Ventura’, Fortunato all’anagrafe comunale, come il migliore amico.

Fortunato era figlio di Emilio, conosciuto in paese come ‘il Ventura’, e lui stesso era chiamato ‘il Ventura’.

Da secoli era consuetudine per la comunità dare un soprannome in dialetto alle famiglie e ai singoli, legandolo al lavoro svolto,  alla località di provenienza, al colore dominante dei capelli e al nome del capostipite; nessuno dei sopranomi aveva un significato dispregiativo. A partire dagli anni 80, all’epoca delle ultime ondate di migrazione dal Sud, le persone iniziarono a ignorare i sopranomi soprattutto perché la nuova generazione rifiutò il dialetto.

Fortunato, il Ventura, fu un agricoltore di buona cultura avendo studiato in collegio ed era in possesso di una buona parlantina; giunto a quarant’anni, dovette affrontare problemi con l’Amministrazione Comunale perché in una parte degli edifici agricoli aveva impiantato un’attività di trattamento galvanico e di zincatura di manufatti metallici. Gli edifici agricoli sono in ‘Corte Grande’, un ampio cortile delimitato da edifici residenziali, fronteggianti la strada principale del centro storico, sul lato di levante e da edifici rustici a ponente.

Fortunato godette di buoni appoggi ma ebbe contrasti con diverse persone, a lui ostili a vario titolo, e poté contare sulla consulenza di molti professionisti. Fece viaggi in Brasile per conto di amici e conoscenti e aveva un’ottima capacità imprenditoriale.

Da ragazzo aveva aiutato il padre nella stalla e nella lavorazione dei campi, conduceva con sicurezza il trattore e andava a cavallo per le strade e per i prati. Le sue sorelle gestivano una latteria in “piazza”, in centro al paese; la piazza è una stretta via, spazio residuo dopo l’edificazione di due fabbricati davanti al monastero che la repubblica Cisalpina chiuse espropriandone le proprietà.

Maggiore di me di cinque anni, Fortunato era un buon cavallerizzo  e aveva tanta voglia di riuscire nella vita e la sua cultura era notevole per una persona senza diploma di abilitazione tecnica.

Un giorno Fortunato mi portò in macchina alla fontana di Sirtori, un paese vicino, io guardai la vasca in cui cadeva il getto dell’acqua e notai che era un masso monolitico di serizzo.

“La vasca è un pezzo unico” dissi io.

“E’ un sarcofago” mi rispose Fortunato.

Di lì a pochi giorni, la vasca della fontana fu fatta in muratura e il sarcofago fu rimosso.

 

In Brianza solo da pochi anni la cultura è apprezzata; Fortunato sarebbe stato un bravo professore di agraria e di economia. Fortunato è morto a cinquant’anni nel 1994 per malattia, quando io abitavo ad Abbadia Lariana, lontano dal paese, sposato da un paio di anni.

Tra gli amici di Iàio e del Ventura c’era Attilio Mambretti, un ultraventenne dallo spirito libero, spericolato alla guida della macchina e della moto, un lavoratore autonomo e un appassionato di cavalli.

“Ho dovuto colpire sul muso un cavallo per liberarmi dal suo morso al braccio” mi raccontò una volta al bar Corona, immerso nelle volute della Marlboro in fumo; lui preferiva frequentare il Bar Moderno del paese vicino perché era l’uomo della padrona, una signora vedova più grande di lui di diversi anni.

Le malelingue dicevano che il loro rapporto fosse turbolento ma, conoscendo Attilio, ero convinto che loro fossero amanti assidui. Il Mambretti non era uno sbruffone e aveva la pazienza di ascoltare; le sue parole erano connesse al senso di profondo rispetto per tutti.

Un mattino del 1983, a ventotto anni, il Mambretti si schiantò con la macchina su un rettilineo a pochi chilometri dal paese.

Questi “ragazzi” si trovavano spesso al bar Corona o nel negozio accanto, quello di Luigi, il parrucchiere per uomo, che era loro grande amico e che li viveva come fratelli.

Il gruppo aveva un quarto ‘ragazzo’, Maurizio detto ‘Mito’, bravo operaio e persona onesta, portiere goffo ma efficace nel tornei serali estivi sul campetto dell’oratorio; spesso quei tornei venivano sospesi da don Angelo per gli insulti osceni e le bestemmie degli adulti intemperanti.

‘Mito’ tornò dal servizio militare cupo nell’umore e pensieroso, forse per gli scherzi pesanti di bullismo subiti o per qualche esperienza negativa. Non ho voluto approfondire. Maurizio morì di malattia a quarant’un anni nel 1993; mi pare che negli ultimi anni di vita frequentasse il centro diurno del  Beldosso per svolgere l’attività di giardiniere, dove vanno tuttora altri quarantenni del paese.

 

Sono morti giovani, questi quattro ‘ragazzi’ che hanno vissuto drammi  interiori e sofferenze non avendo potuto esprimere le loro capacità e non avendo ottenuto comprensione e solidarietà, fatta salva la stima degli amici.

A queste morti quanto avrà influito la voglia di combattere  il male profondo e oscuro?

I lutti di Fortunato e di Attilio, la loro mamma è morta quando erano piccoli, furono una fatica aggiuntiva e un motivo di infelicità per loro e per i loro padri, rimasti con i figli e senza la compagna della vita. Come pure per i padri di Flavio e di Maurizio, irreprensibili sotto l’aspetto umano, la famiglia numerosa e il lavoro furono motivo di sacrifici e di sofferenza.

I padri di questi ragazzi furono infelici? Forse, e punto di riferimento dei figli, si mostrarono loro come un dio triste.

 

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41 commenti »

  1. Dove trovano origini il dolore fisico e il disagio psichico? La malattia si insinua nel profondo come un seme che mette radici?
    La voglia di combattere il male può fare molto per la guarigione e può portare la luce all’anima.
    Emanuele

  2. La provincia malinconica genera storie malinconiche. Bravo

  3. Invita alla riflessione questo tuo racconto, intriso di mestizia, che tratteggia la vita, la morte, le speranze, le delusioni di quattro amici, nello spaccato di un territorio a me noto.
    Complimenti, hai saputo rendere piacevole la lettura, nonostante l’asprezza della tematica.

  4. La quarta di copertina di un vecchio romanzo di Piero Chiara, Il piatto piange, così cominciava: “Avventure boccaccesche, giocatori forsennati, ozi logoranti nel delirio della provincia”.
    Anche qui leggiamo del delirio immanente, silenzioso ma pervasivo che coinvolge la miriade di piccoli centri italiani e i loro abitanti. I pochi orizzonti politici e culturali, una povertà quasi fisiologica, i lutti vissuti nel profondo, e cicatrizzati nello stesso succedersi delle generazioni hanno ucciso questi uomini. Un ritratto triste, crudo e reale ma pieno di poesia allo stesso tempo.

  5. Cari Ottavio e Roberto la vita nei paesi (di provincia) è malinconica e piena di mestizia? Non mi sento di riconoscere questo teorema.
    La vita di paese è diversa dalla vita di città? Si, se parliamo di comodità, di aspettative di tenore di vita. Così pure non sono in grado di dimostrare l’uguaglianza dei valori in campo per cui alla fine dico che la vita di paese è diversa, è malinconica. In paese non abbiamo le fronti degli edifici che limitano la visuale e bloccano il pensiero. Sarà un questione culturale? Ma nei paesi ci sono state le sale cinematografiche, quelle parrocchiali (è vero) e poi ci sono le biblioteche che non hanno nulla da invidiare per organizzazione di eventi alle biblioteche civiche. Riconosco che la vita di paese è malinconica. Ammesso e non concesso, da cattolico praticante, ipotizzo che la fede religiosa possa influire su una visione triste o felice della vita. Non scarto questa ipotesi anche se vanno fatti i debiti distinguo, perché c’è fede e fede.

  6. Michelangelo, la tua citazione di Piero Chiara mi ha ricordato altri giovani della generazione precedente quella di Attilio, Flavio, Fortunato e Maurizio. Parlo degli anni tra il 1960 e il 1970.
    Con la provincia in crescita, verso il boom economico, ricordo alcuni giovani all’Osteria “Da Ernestin” giocarsi i quattro soldi che avevano in tasca,”a scala 40″ o “a terziglia”. Tra questi c’erano mio cugino Felice che aveva brevettato un telaio e che diventerà un antiquario, Peppino il macellaio, Edoardo il canestraio e il Beluffi il viaggiatore della Ferrovia Nord Milano.
    Quando al tavolo sedeva il ragioniere nonché titolare di una stamperia locale, la tensione era alta. Non volavano le mosche e sentivi il rumore delle carte battute sul tavolo dai giocatori per aumentare la concentrazione. I commenti erano pacati al termine delle partite, da veri professionisti. Nelle giocate critiche, aumentava il fumo delle sigarette (Nazionali, Esportazioni e Marlboro). Una generazione che aveva conosciuto la sofferenza della guerra e che raggiungerà l’obbiettivo della sicurezza economica e della felicità.

  7. E’ un buon incipit per un romanzo: lo scenario è tratteggiato bene, lo stile disilluso e neorealista lo completa, e il disincanto lo impreziosce. Fore potevi osare una cattiveria maggiore nei confronti dei personaggi, incidendo meno sulla tristezza e rivelando i loro tabù, pure se a scapito di qualche descrizione o retroscena.
    Un’istantanea fedele e riconoscente al periodo storico da te citato, che potrebbe risultare un po’ sbiadita a un’occhiata contemporanea. Se riuscissi a svilupparla nella provincia odierna diverrebbe un ritratto implacabile dei problemi della presente generazione e non.

  8. Se nell’altra storia hai descritto uno scenario futuro-presente, in questa ti sei concentrato sul passato, forse ancora presente in qualche provincia italiana. Mi ha fatto pensare ad alcuni film italiani ambientati in provincia, appunto. Bello

  9. Quante cose ci sono qui dentro. Ancora sorpresa per il tuo stile così asciutto e quasi frammentario. Come leggere un racconto intero a singhiozzo senza perdere il filo. Lasci lo spazio a chi legge. La cadenza del racconto è quasi da cronaca, ma purtroppo non riesci a non inserire il cuore.

  10. Molte grazie a Pina, a Gianmarco e a Matteo per le sensazioni, le valutazioni e gli suggerimenti. La vita di provincia è cambiata in questi ultimi decenni sicuramente, mentre i ventenni hanno atteggiamenti più provocatori e strafottenti, gli altri fanno il conto con i condizionamenti della famiglia, la propria di cui sono uno dei due capi. Non è un caso che i personaggi del racconto siano tutti maschili, ma in quegli anni le ragazze pur godendo di una certa libertà avevano una vita più riservata, Ora le giovani donne si muovono con molta determinazione, tornano sole alle quattro del mattino dalle discoteche e non sono intimidite dalle malelingue, una specie per nulla estinta. Parlare dei giovani di quest’epoca occorre estendere l’indagine ai comportamenti delle giovani donne.
    Grazie ancora.
    Emanuele

  11. Un racconto che è come un quadro (del realismo?): rappresentazione di un momento delle persone e luoghi che ci sono dentro.
    Di tutti quelli che passano solo alcuni cercano di offrire qualcosa di più a che la vita fluisca, a che le persone siano come comparse in un opera finita, senza prospettiva.
    Molti fanno la loro parte e ritornano poi nel nulla, ad alcuni vedere questo “movimento” fa sorgere una domanda : “a che pro?”.

  12. Grazie Andrea, per avermi dato questa tua chiave di lettura. Vedi, conosco molte persone del paese, solo per alcune di esse nutro sentimenti di stima e di affetto, comunque il mio ricordo va a questi giovani perché avrebbero avuto da recriminare, credo, del fatto che non hanno potuto completare il progetto della loro vita. E ancora, per la mia sensibilità, penso ai padri di questi miei amici e mi chiedo quanto abbiano sofferto la perdita del figlio, sicuramente sino alla loro morte. Qui, c’è la mia condizione di genitore che con il racconto vuole dichiarare la propria solidarietà alle famiglie di quei giovani e vuole esorcizzare la sofferenza di padre.
    Emanuele

  13. Un bellissimo omaggio al passato che suscita interesse e una struggente malinconia in chi legge. Bravo Emanuele, che ci fai viaggiare, riportando in vita quei volti, quei colori e tutte quelle sensazioni che il tempo, ora, ha reso più dolci e più nitidamente determinabili. Complimenti ed in bocca al lupo anche a te.

  14. Il tuo titolo mi ha ricordato subito quello di un film assai famoso, “Figli di un Dio minore”.
    In quel film si sviluppano disagi e barriere sociali, la distinzione fra dolore fisico e psicologico che a sua volte si fondono insieme attraverso la società che viviamo.
    La comunità, i disagi, l’emarginazione, la paura e l’impotenza, a volte, di sapere come affrontare i problemi.
    Nel tuo racconto ho rivisto un insieme di queste cose… bravo, complimenti!

  15. Anche questo scritto da professionista: ti fa venir voglia di continuare a leggerlo per pagine e pagine… anche tu, vedo, parli del male oscuro. Solo chi lo ha vissuto può lasciare tra le righe quella malinconia che ti strappa il cuore. Bravo.

  16. Grazie Laura, questa mia risposta sarà archiviata prima del tuo commento che leggo nello spazio assegnato. Non sono un professionista, mi cimento nei racconti con il desiderio di trasmettere sentimenti. Forse è presunzione. Mi piace leggere i racconti perché ogni testo ha qualcosa da comunicare. E’ la terza edizione di Racconti nella Rete che affronto (si può dire?) e ho letto tanti commenti confrontandoli con le mie analisi. E’ impegnativo, quest’anno mi sono ripromesso di adottare il metodo di andare in ordine, ma non so riuscirò a completare, penso di perdere alla lunga la freschezza e di ripetermi.Tornando al racconto e leggendo anche i commenti di Demian e di Marta che ringrazio, aggiungo che il tempo copre la nostra sofferenza che ci appropriamo quando sentiamo il dolore, immutato, dei genitori e dei parenti dei nostri amici che ci hanno lasciato. Infine credo che “chi ha conosciuto la sofferenza abbia imparato a amare.” Ciao.
    Emanuele

  17. Emanuele condivido ogni tuo singola parola nell’ultimo racconto!
    Infine voglio lodarti per il tuo impegno a leggere e commentare, tutti ma proprio tutti i racconti… sei un grande!
    Io purtroppo con il lavoro sono sempre presa, ho dei ritmi pazzeschi… e sono poco presente, ma tutti voi scrittori mi date molte emozioni… grazie davvero e ancora bravo Emanuele!

  18. Un racconto essenziale, piacevolmente austero, che per atmosfera e temi rende merito al bel titolo che hai scelto. Complimenti! Ti saluto e ti auguro buona fortuna per il concorso. Alex Creazzi

  19. E’ stato un piacere leggere i vostri racconti, Marta e Alex. Credo che il confronto, dato dalla partecipazione al Concorso possa giovare a ciascun “scrittore”, dandogli la sicurezza che stia percorrendo una strada valida, a lui congeniale. In relazione alla tematica del mio racconto, credo che si debba essere un appoggio, una presenza, una vicinanza a questi padri che soffrono la morte dei loro figli e che smorzano in gola il grido e rivolgono i pugni chiusi verso il cielo o imprecano al destino chiedendosi: “Perché lui?”
    Questo può fare già molto.
    Emanuele

  20. Ciao Emanuele, parli della Brianza ma penso di poter accostare il tuo racconto alla vita di tante località di provincia che hanno in comune “il triste percorso di sviluppo economico” che pare non abbia portato a molti benefici.
    Mi è piaciuto il racconto dettagliato dei profili dei vari personaggi che trovo tristemente reale per come li hai caratterizzati.
    La cosa che mi ha colpito è che il protagonista o voce narrante è “rimasto osservatore” come basito di questa realtà che si svolgeva intorno a sè…..forse sbaglio.
    Il Dio è il progresso….
    Del tuo racconto ciò che mi rimane è la consapevolzza, che peraltro già avevo, che il benessere non corrisponde a migliore qualità della vita.
    Molti complimenti confermo la mia impressione sulla tua “sensibilità” e capacità di osservazione.

  21. Bello, hai descritto una realtà della Brianza che non amo e dalla quale – da brianzola quale sono – è una vita che tento di fuggire. Ma si sa, le origini ci restano dentro, appiccicate come i rami di edera anche se te la sei strappata di dosso. Malinconico e reale, lo spaccato di una società di paese ancorata alla fede, alla parrocchia, alla vita di comunità, nel bene e nel male.
    Leggo ora anche l’altro tuo racconto in concorso.

    Vorrei avere il tuo parere sui miei due, Il Coccodroccolo e Penelope, la Tessiragna.
    Arianna

  22. Grazie Liliana e Arianna per i commenti. Domanda legittima la tua, Liliana: “il narratore è rimasto osservatore, come basito di questa realtà che si svolgeva intorno a sé”. E’ questa una lacuna narrativa ma il racconto è del 2014, dopo la morte di Flavio ed è il tempo di sentimenti diversi. Alla morte di Attilio, di Maurizio e di Fortunato c’è stata la sofferenza della perdita di un amico, stemperata nel tempo poi c’è la nascita dei miei figli, Francesco nel 1997 e Chiara nel 2001, e con essa e con il ruolo di padre si sviluppano la cura e la trepidazione per i figli che potranno cambiare nella vita ma che non si annulleranno mai. Credo che la morte di un figlio, per qualsiasi evento, rappresenti per il padre una tragedia difficile da superare.
    A te Arianna, dico che una analista della società brianzola non poteva dare una sintesi migliore della tua: “Malinconico e reale, lo spaccato di una società di paese, ancorata alla fede, alla parrocchia, alla vita di comunità, nel bene e nel male “.Lasciami affermare che quello che può sembrare un punto di debolezza potrà divenire una base di forza, ma occorre la conversione alla vera fede cattolica.
    Ciao Liliana e Arianna.
    Emanuele

  23. Ah! La Brianza!!! Che terra di storie e personaggi… :-))

  24. Gent.mo Emanuele, ammiro la cura e la bravura che sta mostrando nel commentare gli innumerevoli racconti a concorso. Grazie per aver commentato anche il mio. È stata la spinta a cercare e leggere i Suoi. Di questo Suo scritto mi ha colpito la tenerezza malinconica che accompagna la descrizione delle situazioni che segnano la vita dei quattro amici. Grazie alla ricchezza di particolari, ho immaginato i luoghi, le ambientazioni ed ho avuto la sensazione di essere anch’io lì. Bravo e in bocca al lupo per il concorso.

  25. Grazie Maria e Mauro per il vostro commento. Il paese ha i suoi nuclei antichi sistemati, ristrutturati e ha occupato molte aree, un tempo utilizzate in agricoltura. Poche sono le tracce conservate degli edifici agricoli di un tempo, solo alcuni “fronzoli”, qualche parete esterna dei fienili a nido d’ape, e “le immagini dipinte” a testimonianza del fervore religioso. Rimane un solo insediamento agricolo; negli anno ’70 si consumava la fase finale della trasformazione in paese industrioso e residenziale. Forse è mancato il tempo di adattamento ai cambiamenti sociali. Che dire dei personaggi, nella Brianza girava di tutto in quegli anni, anche il contrabbandiere con la Lamborghini gialla, che calzava gli zoccoli.
    Ciao a tutti.
    Emanuele

  26. Cari amici, vorrei riportare in questo spazio una poesia di Khalil Gibran, poeta, pittore e filosofo libanese (1883 -1931). Sfortunato direi, è morto a quarantotto anni. E’ riportata su un quadretto dell’anticamera del nostro appartamento di famiglia, come ricordo del Battesimo del figlio di mio cugino Luigi. Giuro che c’è da crederci sull’appartenenza e sul testo, conoscendo mio cugino. Mi rimetto ai Responsabili del Concorso sul conservare o annullare questo mio intervento.
    Emanuele

    I vostri figli non sono i vostri figli.
    Sono i figli e le figlie dello scorrere inevitabile
    della vita.
    Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi,
    e non vi appartengono benché viviate insieme.

    Potete amarli, ma non costringerli ai vostri pensieri,
    poi che essi hanno i loro pensieri.
    Potete custodire i loro corpi, ma non le loro anime,
    poi che abitano case future, che neppure in sogno
    potrete visitare.
    Cercherete di imitarli, ma non potrete farli simili a voi
    poi che la vita procede e non si attarda su ieri.

    Voi siete gli archi da cui i figli, le vostre frecce
    vive, sono scoccati lontano.

    L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero infinito,
    e con la forza vi tende affinché le sue frecce
    vadano rapide e lontane.
    In gioia siate tesi nelle mani dell’Arciere
    poi che, come ama il volo della freccia, così
    l’immobilità dell’arco.

    (Kahlil Gibran)

  27. Il tuo racconto è zeppo di spunti per riflessioni. Ho pensato che in un paese, in un piccolo centro, tutto è più concentrato, compresi i rapporti umani che si disperdono e a volte riescono a disperdersi in una grande città. Mi è piaciuto molto, Emanuele, e se è vero che i lemmi sono i mattoni della storia, tu hai saputo selezionarli e sceglierli con abilità. Una bella costruzione, il tuo racconto. Grazie e in bocca al lupo!

  28. Grazie per averci parlato con malinconia e buona intensità emotiva della vita di questi quattro amici di provincia.

  29. Grazie per aver condiviso con noi la poesia di Gibran… sei sicuramente un animo sensibile e ricco di emozioni. Lieta di averti letto e quindi anche, un pò, conosciuto.

  30. Lietissima della tua vittoria, te la meriti assolutamente… e non vedo l’ora di conoscerti!!!
    Bravissimo!!!!

  31. Le storie di diversi personaggi dalle vite brevi e tristemente finite, danno vita a un racconto piacevole alla lettura.

  32. Evvaaaaaaaiiiiiiii Emanuele grande!!!!!
    Yesssss, scusa l’esultanza poco composta;-)
    Ci vediamo a Lucca con piacere!

  33. Emanuele, ti faccio i complimenti, che estendo a tutti i vincitori, per la meritata vittoria. Ho letto il tuo racconto cosí malinconico (ho visto che l’aggettivo ricorre nei commenti ma non posso fare a meno di utilizzarlo anche io) ed emozionante. “Figli di un dio triste” ci restituisce un ritratto molto riuscito della provincia e dei suoi personaggi dalle storie interrotte.
    Con l’occasione ti ringrazio per avere commentato i miei racconti. Ciao, Ermanno.

  34. Complimenti a te Emanuele! Ci siamo portati fortuna l’un l’altro facendoci i reciproci in bocca al lupo! Ci si vede a Lucca!

  35. Gentile Emanuele, abbiamo già avuto il piacere di “scambiarci commenti” durante lo svolgimento del concorso. Desidero ora farti ufficialmente i complimenti per la meritata vittoria. Ci vediamo a Lucca.

  36. Ciao Emanuele, complimenti per la vittoria, meritatissima direi. Racconto che tocca, ben scritto e non stanca, bravo!!! Grazie per i tuoi preziosi commenti e alla prossima. Ciao Gianluca.

  37. Ciao Emanuele,
    mi scuso per non aver ancora commentato il tuo racconto, ma posso dire senza alcuna ombra di smentita che la tua vittoria è “telefonatissima”, permettimi il gergo teatrale. Quando l’ho letto ho capito subito il motivo per cui hai vinto. Complimenti davvero per il bel dipinto della vita di provincia e dei suoi protagonisti. Aspetto di incontrarti a Lucca per stringerti la mano!

  38. Complimenti a te. Con grande sensibilità hai descritto la profondità di certi legami che nascono e crescono nelle piccole province, dove la semplicità del vivere quotidiano alimenta il bene prezioso della condivisione.Sarà un piacere incontrarti a Lucca.

  39. In rete, sono incappato in una tua poesia, che mi è molto piaciuta, il titolo è “Ricordi e attese”.
    Constato quindi che spazi dai racconti, ai soggetti per corti, fino alle poesie. Ragione di più per complimentarsi con te.

  40. Oggi trovo dieci minuti di tempo, posso iniziare a leggere i racconti dell’antologia.
    Mi faccio ispirare dai nomi degli autori, inizio col tuo.
    Prime righe, tuffo al cuore, il mio bambino si chiama Flavio e la sorellina lo chiama Iaio.
    Poi uno sconosciuto mi prende per mano e mi porta a conoscere nuove situazioni, volti, gesti, ambienti.
    Grazie Emanuele, è stata una passeggiata emozionante.

  41. Cari amici, grazie per le belle parole e le vostre considerazioni su questo mio racconto. Io non ho esperienza di vita di città, a parte i cinque anni di collegio a Como (orfanotrofio) e gli anni della scuola superiore a Lecco, per cui trovo che la vita di provincia offra ampi orizzonti “umani”, penso agli incontri quotidiani negli spazi collettivi (strutture ricreative, treno, bar ecc.). Entrano in gioco poi le caratteristiche individuali e io sono un tipo introverso, sono rivolto a osservare il mondo che mi circonda e vorrei sapere esprimere i sentimenti che vivo e incontro. Sono stato combattuto tra specializzazioni tecniche e discipline umanistiche. Da giovane ho cercato un editore per le mie poesie, quando l’ho trovato ho deciso di non pubblicarle e mi sono impegnato nel lavoro di tecnico comunale che abbina gli aspetti tecnici all’attenzione e all’ascolto del cittadino/utente. Ora da pensionato ho pubblicato un libro di poesie, nel dicembre 2014, ed è prevista l’uscita della seconda raccolta di poesie per il prossimo ottobre.
    Dico infine “Braviiiii!” a tutti noi che abbiamo partecipato a questa esperienza.
    Cordialmente, Emanuele

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