Premio Racconti nella Rete 2015 “I fratelli Van der Kerkhof” di Aldo Bandinelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015In un certo senso, mio fratello era capace di tutto. Poteva, ad esempio, seduto al tavolo della sala da pranzo, il resto del corpo immobile, far scivolare lentamente una mano sulla tovaglia cerata e poi , ancora lentamente, far avvicinare tra loro il pollice e l’indice, fino ad acchiappare una mosca; ed era capace di tenerla, la mosca robusta e bluastra, senza schiacciarla, tra le dita; in estate. Sapeva anche, mio fratello, ancora seduto allo stesso tavolo, bere un sorso d’acqua e poi lasciare il bicchiere, ancora colmo, appoggiato al bordo, e dimenticarlo così, la metà esatta sospesa sul vuoto, in bilico.
La nazionale di calcio olandese era allora, di gran lunga, la squadra migliore, quella che esibiva le trame di gioco più avvincenti ed efficaci. Quel pomeriggio di giugno, affrontava l’Italia in una delle due semifinali dei campionati mondiali di calcio, che si tenevano in Argentina. Durante lo svolgimento del torneo, anche la squadra italiana si era distinta, tra le altre, mostrando, a sorpresa, un gioco elegante, veloce e spettacolare.
Io ammiravo molto la squadra olandese. Mi piacevano il suo atteggiamento, spigliato, ed il colore delle sue maglie, l’arancione, ed il modo di indossarle, tenute fuori dai calzoncini, in una maniera che appariva, ai miei occhi, disinvolta e sfrontata. I calzettoni dei calciatori erano invariabilmente calati fino alle caviglie, mostrando così sbilenchi parastinchi ammaccati. I fratelli Van der Kerkhof erano i miei giocatori preferiti. René e Willy Van der Kerkhof.
Per questa partita, la squadra olandese si presentava in campo vestendo una vistosa maglia bianca, lasca sui pantaloncini, questi sì arancioni, mentre gli avversari indossavano quella classica, azzurra. Era un pomeriggio, a Buenos Aires, luminoso, come, cosa che capii solo qualche tempo dopo, quand’ero più grande, luminosi non erano quegli anni, in Argentina, anni di nascondimenti e distrazioni. Luminoso e freddo. L’erba del prato scintillava al sole ma s’intuivano zolle di terra indurita e gelida.
I fratelli Van der Kerkhof erano gemelli. Durante l’esecuzione degli inni nazionali, René, in fila con gli altri suoi compagni, spalla contro spalla, aveva uno sguardo vigile ed attento, fisso di fronte a sé, verso le tribune brulicanti. Willy portava i capelli lunghi ed aveva due folte basette bionde ed un sorriso beffardo.
Un’altra cosa di cui mio fratello era capace, durante quegli interminabili e assolati pomeriggi di giugno trascorsi, come ogni anno, nel piccolo borgo dove i nostri genitori possedevano una casa, era quella di stare fermo, seduto per terra, con le gambe incrociate, ad osservare, inosservato da noi, gli animali nelle loro celle. Stava, immobile come una lucertola, in quelle ore silenziose e ferme, davanti alle gabbie dei porcili, osservando i maiali, tenendo tra le dita polverosi sassolini o legnetti rinsecchiti; oppure indugiava nei pollai, rimbrottato dal rancoroso chiacchiericcio delle galline.
Io, spesso, durante quelle ore d’arsura, andavo ai fontanili dei lavatoi, poco lontano dal borgo e m’immergevo nelle vasche dove , insieme ad un paio di compagni , trascorrevamo ore limpide e stridule.
Disegnando sul prato una traiettoria affilata con il suo passo elegante, trascorsi quasi venti minuti dall’inizio della partita, dopo essere stato imbeccato da Rossi, che quattro anni più tardi avrebbe raggiunto l’apice del suo incantevole talento, che aveva a sua volta raccolto un passaggio dal mediano Benetti, l’attaccante italiano Bettega aveva lacerato la linea della difesa olandese e, poco distante dall’angolo destro dell’area di rigore, aveva scagliato il pallone verso la porta opponente; e la distrazione con la quale il difensore Brandts oppose il proprio piede alla traiettoria della palla, ne causò una deviazione, in apparenza minima, che ingannò il portiere Shrijvers, irrimediabilmente.
Un istante prima che Benetti suggerisse l’avvio di questa azione, l’urlo, consapevole, che René Van der Kerkhof, il quale aveva intuito, da un suo sguardo, le intenzioni di Rossi nonché la sua intesa con Bettega; l’urlo che aveva rivolto ai suoi compagni incaricati alla difesa fu annientato dal rombo provocato dalla folla, e rimase inascoltato. Suo fratello Willy, qualche metro più indietro, più accentrato nel campo da gioco, aveva rivolto indietro la testa e, con una mano spiegata attorno all’orecchio e l’altra stretta su un fianco, fingeva l’ ascolto diligente della risposta stizzita che un avversario stava dando ad una sua precedente insolenza, bonaria per la verità. Quindi non vide le vene del collo di suo fratello René gonfiarsi, mentre gridava; non lo vide accostare le mani alla bocca tentando di sovrastare l’assordante frastuono dagli spalti e non vide tutto quello che seguì.
Era anche capace, mio fratello, di farsi atterrare da un cane, un grosso meticcio dal manto giallo e di rimanere schiacciato a terra, la schiena sfregata sulla ghiaia, sotto il peso ansimante della bestia, impedito dalla veemenza delle sue zampe, soffocato dal fiato fetido e inzaccherato dalle gocce bollenti di bava, lo sguardo oltre i suoi occhietti instupiditi, scosso dai ferini tremiti di selvaggia gioia (ma lui, mio fratello, non lo sapeva), senza averne paura.
Dopo che fu istillata nuova linfa nella difesa olandese con l’ingresso in campo del secondo portiere Jongbloed, Willy Van Der Kerkhof, lisciandosi spesso, nervosamente, le folte basette, si dette instancabilmente da fare, durante i minuti successivi e fino alla fine del primo tempo, nella zona del campo di sua competenza, con i propri mezzi, ovvero con i suoi repentini ed imprevedibili scarti nel passo e le sue caracollanti finte, per cercare di scardinare la difesa italiana che si faceva, di minuto in minuto, più ordinata ed accorta. René, tornato in campo dopo l’intervallo e dopo aver intercettato più di una volta il pallone, scivolando sull’erba tra le gambe degli avversari, per destinarlo poi, il pallone, con precisione e perizia, al compagno più libero dalla pressione avversaria, fu distratto da quella che gli sembrò, per un momento, essere una scaramuccia sugli spalti, sulle gradinate di quell’enorme, incombente catino, e che invece era solo sfrenato tripudio, e non poté notare come Krol , il capitano della sua squadra, avesse tirato la palla verso l’area di rigore protetta dagli italiani, e come ne seguì un fortuito scambio di passaggi, inesatte traiettorie e linee confuse che furono poi corrette scrupolosamente da un tiro di Brandts, che così si riscattò, lasciando Zoff, il portiere italiano, solo, mentre cadeva dal suo inutile volo.
Oppure, mentre io vagabondavo nei dintorni, quando l’aria si faceva più fresca, e m’intrufolavo nei casali disabitati e nelle masserie dismesse, scarabocchiando disegni osceni sulle pareti e frantumando vasi e vecchi piatti abbandonati , mio fratello era capace, ai piedi della collinetta sulla quale sta il borgo, di schivare, con movimenti segreti, lo spesso disco di legno di faggio che correva, ruzzolando velocissimo, dopo essere stato scagliato, srotolando una cinghia di pelle con uno strattone furibondo, lungo la ripida discesa ai piedi della quale c’era, appunto, mio fratello.
Un severo schema di gioco costruiva geometrie cristalline, ed una costante esperienza di collettività permetteva agili e disinvolte interpretazioni delle contingenze e del caso.
In più, rispetto ai loro compagni di squadra, Willy e René possedevano una intesa speciale, coltivata fin da bambini, per strada, nei cortili e poi sui campi di calcio, curatissimi, di Helmond; e poi, questa intesa, ribadita in treno per andare, da soli, verso Eindhoven, dove sarebbero poi rimasti per tutti gli anni successivi, e da dove sarebbero in seguito partiti, insieme, per la prima volta con la nazionale di calcio olandese. E proprio per questa particolare intesa, René guardò Willy, che stava ad una ventina di metri da lui, negli occhi, sapendo già in quale direzione egli si sarebbe mosso; un istante prima che Willy, che già intuiva verso dove René desiderava che lui si muovesse, guardandolo negli occhi, annuisse; così non videro il momento in cui il loro compagno Haan, mosso da una folle, inaspettata intuizione, calciò il pallone, da una distanza impensabile, verso la porta avversaria, costringendo il portiere, incredulo nella stima di una simile, incommensurabile, lontananza, ad un secondo, tardivo salto, impotente.
Fu Willy che, ostentando il suo beffardo sorriso, corse verso la porta e raccolse il pallone, fermo ora nella rete, e lo lanciò, con forza, verso il pubblico raggiante, mentre René accompagnava, carezzandogli il viso sudato, Haan al cerchio di centrocampo.
Un uomo del posto, guidando la sua automobile lungo le tortuose e polverose strade che portavano al borgo, cercando di distinguere le cifre delle frequenze attraverso il piccolo schermo sudicio dell’autoradio, e inoltre, distratto da incomprensibili frammenti di cronache e storpi brani di canzoni, non vide in tempo mio fratello che, sul ciglio della strada, in parte nascosto dai rigogliosi cespugli di more, tenendone alcune schiacciate tra le dita annerite, era capace di stare in piedi per lunghi minuti, immobile, con gli occhi chiusi e nelle orecchie il fragore delle grida della folla, ad immaginare partite di calcio.
Non lo commento perché lo rovinerei. Mi è piaciuto moltissimo. BRAVO
Ho volutamente lasciato trascorrere un po’ di giorni prima di rileggere questo bellissimo racconto. Dopo la prima lettura non ho commentato perché mi sembrava di rovinarlo. Ora, che pure mi ci avvicino con cautela e rispetto, come si fa con le cose estremamente preziose, mi sento di affermare che è un piccolo capolavoro. E’ praticamente prefetto. La trama, la storia, il ritmo, l’accostamento delle vicende, la tragedia finale. Il tema è forte, ma la forma delicata e complessa allo stesso tempo non scade mai nella retorica, sempre in agguato quando si trattano questi generi. Complimenti di cuore e in bocca al lupo per il concorso
Anche a me è piaciuto molto. Ho gustato molto la ricchezza della scrittura, molto piacevole a leggersi – unico appunto se posso, alcune frasi troppo spezzettate da molte virgole – godibilissimo, efficacemente accostando i due piani fino a farli incontrare.
Per uno scherxo del destino, non so quanto voluto, il secondo portiere olandese che porta “nuova linfa” si chiama Jongbloed (sangue giovane).
Bello, fresco, emozionante. Che dire? In bocca al lupo.
Anche io come Ottavio ho qualche remora a commentarlo. E’ un racconto molto intimo, capace di ricreare efficacemente l’atmosfera del tempo e di suscitare nel lettore emozioni contrastanti
C’è il pathos della partita raccontata a un ritmo da radiocronaca, e c’è la campagna italiana (quella dei casali abbandonati e delle masserie dismesse), ideale ‘campo da gioco’ per scugnizzi… Il finale mi ha lasciato senza parole. Complimenti davvero. Ci terreni a conoscere il tuo patere sul mio “La Torretta di Guardia” del 27 maggio.
Molto bello. Mi ha ricordato un racconto di Stig Dagerman. Complimenti!
molto bello
Il racconto migliore letto finora. Complimenti
Bello soprattutto il finale sorprendente.
Ti aspetto ai miei racconti Il Coccodroccolo e Penelope, la Tessiragna.
Aldo, devi essere un appassionato di calcio che ricorda le azioni di tutte le partite, il calcio di punizione, il colpo di testa e la sforbiciata. Pur ricordando a fatica il risultato finale delle partite della nazionale, dopo avere letto ii titolo, mi sono detto: ” I Van der Kerkhof sono giocatori olandesi”. Trovo in questa narrazione incrociata della partita Olanda – Italia (anno 1978) e delle vicende di due fratelli le immagini dei comportamenti spensierati e in parte strafottenti dei ragazzi nell’Italia degli anni 80. La conclusione della storia è triste per la morte di un ragazzo mentre i fratelli Van der Kerkhof sono felici per la vittoria della loro squadra.
Emanuele
Bel racconto! Pur non avendo vissuto gli anni dell’Arancia Meccanica, l’Olanda totale è la mia nazionale favorita, sebbene preferisca la selezione del ’74, quella con Cruijff. Amori calcistici a parte, ho trovato la tua prosa ricca ed elaborata, con un eccellente uso della punteggiatura e delle subordinate. Il finale tragico e’ affrontato con grazia. Complimenti