Premio Racconti nella Rete 2015 “Il progetto” di Anna Lisa Vieri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Susan stava prendendo la tazza ormai vuota che Marylin aveva lasciato sul tavolo, quando sentì aprire la porta di casa. Si irrigidì solo un attimo: sapeva bene chi potesse rientrare in casa a quell’ora. Ma continuò a sorridere all’amica, alzò di un tono la risata ed assunse una posizione appena più rilassata, allontanando il corpo dal tavolo ed appoggiandolo alla spalliera della sedia.
Sentì i passi del marito avvicinarsi alla cucina: lei trattenne il respiro, cercò di guardarlo con la coda dell’occhio e lo vide gettare uno sguardo veloce verso il tavolo, distogliendolo immediatamente e continuando il suo percorso. Respirò di nuovo: sapeva bene che lui non voleva persone per casa. Aveva sperato che l’amica non si trattenesse per molto, ma una parola tira l’altra ed avevano fatto più tardi del dovuto. L’impulso a trovare un’immediata soluzione la faceva muovere sulla sedia come se fosse seduta su cocci di vetro, mentre si imponeva di stare calma. Si alzò e fece per andare a lavare le tazze del caffè: sperava che Marylin comprendesse che era bene che se ne andasse.
Marylin sembrava aver capito il messaggio: la ringraziò del caffè e le disse che si sarebbero riviste il giorno seguente.
“Mi raccomando: non mi mollare ora, siamo alla fine del nostro progettino!” Marylin rideva mentre la salutava e si allontanava lungo il vialetto di casa, scansando le buche e le pietre spezzate.
Susan respirò a fondo e, lentamente, chiuse la porta. Suo marito stava guardando la televisione, che teneva accesa ad un volume tale che lei riusciva a sentirla nonostante le mura e la porta del salotto socchiusa.
Non entrò nella stanza. “Vado a preparare la cena” lo avvertì. Non udì risposta ma non se ne preoccupò.
Era in piedi all’acquaio e stava sciacquando i piatti prima di riporli nella lavastoviglie.
“Com’è che hai rivisto Marylin?” le chiese lui a bruciapelo, rompendo il silenzio in cui consumavano oramai ogni cena.
Susan sentì un rivolo freddo che le scendeva lungo la spina dorsale e si trattenne dal muovere i fianchi per assecondare il brivido.
“Al club dell’uncinetto.” rispose, emettendo le poche parole con un soffio di fiato, come se con l’aria se ne potesse andare via anche parte della sua vita.
“Al club dell’uncinetto.” ripeté lui, quasi sillabando le parole. La voce dell’uomo le arrivò piatta e fredda come se avesse aperto lo sportello del congelatore.
“Al club dell’uncinetto!!!!” esclamò e si mise a ridere sguaiatamente, mentre Susan continuava a caricare la lavastoviglie, chinata sui ginocchi, la testa bassa e le mani che tremavano mentre spostava i bicchieri: non poteva permettersi di romperne un altro, e assolutamente non in sua presenza.
“Certo” continuò, quando l’ascesso di risa si fu calmato, “deve avere un sacco di lavoro…. o è anche lei sposata ad uno che si fa il culo a strisce tutti i giorni mentre lei si sgrilletta davanti alla tv?”.
“E’ avvocato” rispose Susan deglutendo, forzando la gola chiusa, che avrebbe voluto restare in silenzio. “E non è sposata.” Si alzò, richiuse lo sportello dell’elettrodomestico ed avviò il programma di lavaggio, il cuore una bomba pronta ad esploderle in gola.
“Certo. Avvocato. Proprio da lei. Me la ricordo: una piantagrane, una spina nel fianco. Si vedeva che aveva un diavolo per capello, sempre in mezzo ai cortei. E la politica. Ti ricordi di quella retata che per poco non la mettono dentro? Sempre stata una stronza.” concluse, alzandosi da tavola.
“E che progetto avete?” disse, prima di oltrepassare la porta della cucina.
Susan sembrava non sentire l’acqua calda che diventava bollente, continuava a tenere le mani sotto il getto continuo del rubinetto. Il vapore che saliva le impediva di respirare: si diresse verso l’asciugamani, al muro opposto rispetto a quello dove lui stava in piedi, aspettando la sua risposta.
“Beneficenza.” rispose brevemente. “Una… cosa di beneficenza. Lei lavora per un’associazione… e ci sta aiutando con la beneficenza.” rimarcò, girando appena la testa al suo indirizzo.
“Ah, non fa l’avvocato, allora. Vedi, lo sapevo che non sarebbe arrivata poi tanto lontano. Era una testa calda, un cerino che si spegne subito. “ continuò tronfio, la voce lamentosa. “Aveva un sacco di idee per la testa: la libertà, il futuro, la politica. Ma anche lei deve lavorare per vivere. Vedi” le disse, avvicinandosi e appoggiandosi con le mani sul piano del tavolo “tu hai fatto quello che tutti si aspettavano da te: niente. E non hai deluso nessuno.” terminò, la voce che gorgogliava tracotante, guardandola direttamente negli occhi come volesse paralizzarla. “Ed ora togli anche la tovaglia e spazza, che poi vengono le formiche.” disse duramente, una sferzata di vento gelido, un bastone di cemento che infrange un muro di paglia.
Susan lo guardò uscire dalla stanza. Un lieve sorriso le passò sul volto: un sorriso strano, freddo, accompagnato dalle sopracciglia che si allontanavano dalle orbite, seguite dalle spalle, che si tiravano indietro mentre si appoggiava con i fianchi e le mani al bordo del mobile. Poi prese la tovaglia, la scosse, la ripiegò e la ripose in un cassetto.
Qualcuno suonò alla porta. Mentre si dirigeva ad aprire pensò che avrebbe spazzato il giorno seguente. Stasera aveva altro da fare.
Marylin era sulla soglia, con uno zaino in spalla, la sua borsa da lavoro in pelle in una mano, il cellulare nell’altra.
“Ti trovo bene, pensavo peggio!” le disse. Susan sorrideva come fosse stata sbronza. Ed era esattamente così che si sentiva: ebbra di felicità, libera di dire e pensare quello che voleva, ma soprattutto libera di farlo.
Prima di chiudere la porta guardò fuori: il giardino era solo un prato verde sbiadito e cotto dal sole ma lei già ci vedeva siepi di bossi e settori di bulbose e rosai.
“Allora, com’è andata? Devi raccontarmi tutto. E io devo prendere appunti per un’eventuale tua presenza in tribunale. Ma se tutto va come previsto, non ce ne sarà bisogno. Dai, racconta.” Si era seduta davanti a lei e Susan si sentì esortata a rivivere tutti i momenti della sera precedente, quasi soffocata dal portatile già disposto sul tavolo di cucina e tutte le carte che l’amica aveva apparecchiato intorno.
Già, apparecchiato.
Iniziò il suo racconto dal momento in cui aveva tolto la tovaglia ed aveva sentito suonare. Rivisse per un attimo la sensazione di trionfo che aveva provato a quel suono, e la leggera agitazione che le era montata sotto pelle mentre andava verso la porta; ricordò l’attimo di preparazione per vestirsi della falsa espressione di stupore davanti ai poliziotti, la voce debitamente camuffata ad indicare indecisione e preoccupazione mentre chiamava il marito.
Ricordò il rumore delle molle della poltrona quando lui si era alzato, la sua faccia scocciata mentre attraversava la soglia della porta del salotto, faccia che esprimeva un misto di stupore e curiosità alla vista dei poliziotti e che diventava quasi un ghigno feroce alle parole “mandato di perquisizione”.
“Qui dice che ha provato a picchiare un agente.” La informò l’amica, che leggeva uno dei tanti fogli che aveva sparso sul tavolo.
“Si” confermò Susan “sembrava impazzito.” Ed in effetti aveva gli occhi che sembravano voler schizzare fuori dalle orbite, cercava di scappare dalla stretta delle braccia dell’agente che lo teneva fermo e lo ammanettava, mentre gli altri tre iniziavano a perquisire casa.
Ricordava come in sogno quelle scene: l’agente che le intimava di rimanere in salotto insieme al marito, il fatto che lui la insultava perché incapace di impedire agli agenti di aprire ogni cassetto di casa, lei che sedeva sulla poltrona con le mani congiunte in grembo e poi diceva, a mezz’aria: “Non ho spazzato in cucina….”. E lui che riprendeva ad insultarla, finché il poliziotto gli intimava di non dire più una parola, per il suo bene.
“E poi hanno trovato i libri mastri truccati, vero?” rammentò l’avvocato.
“Già.” rispose seria Susan, emettendo un sospiro.
“Non ti devi preoccupare, hai fatto quello che dovevi.” la tranquillizzò Marylin. “Te lo avevo detto che sarebbe andato tutto bene, quando ti ho chiesto di collaborare. Un uomo che ti tratta da serva, da idiota, che ti picchia, che ti ha fatto fare quattro figli, che non ti aiutano nemmeno perché lui ha sempre fatto credere loro che tu fossi una nullità…. Hai fatto benissimo, Susan! Ed ora, come collaboratore della Giustizia, avrai anche un supporto, economico e morale. Tuo marito ha truffato lo Stato per tanti anni e tu ci hai fornito le prove. E lo Stato ti ripagherà, tranquilla. E potrai rifarti una vita! Avanti amica mia” concluse “siamo alla resa dei conti: altri pochi dettagli e chiudiamo per sempre. Ascolta, ti rileggo cosa ho scritto.”
Ma Susan non l’ascoltava più.
Stava ripercorrendo con la memoria i tratti salienti della vita familiare: il matrimonio dopo solo due mesi dai suoi diciotto anni, seguito subito dalla nascita del primo figlio. Il carattere del marito che peggiorava e mostrava il vero lato, arrogante, violento e subdolo, e che la usava come sfogo per tutte le preoccupazioni per i conti che non tornavano, per i soldi che non bastavano. Trovarsi incinta del secondo figlio a pochi mesi dalla nascita del primo. Ancora problemi al negozio, che il padre aveva praticamente lasciato nelle mani del genero. E nonostante la crisi, lui non voleva usare un metodo contraccettivo, anzi: dopo un anno dalla nascita del secondo figlio, Susan si era trovata di nuovo incinta del terzo. Ed il marito la considerava così idiota da lasciare i libri mastri sul tavolo del salotto. Anche quelli doppi, quelli dove registrava i piccoli imbrogli con cui rubava al negozio del suocero. E lei che aveva imparato a capire quei numeri, ad associare quei nomi a volti di persone non troppo raccomandabili che ogni tanto vedeva aggirarsi per casa. Aveva imparato copiare la calligrafia del marito. A falsare nomi e date sui quei quaderni con la costola rigida. Lo aveva fatto per venti lunghi anni. Ed aveva tenuto i contanti ricavati nascosti nella baracca degli attrezzi da giardino, l’unico regalo che aveva chiesto a suo marito, il giorno in cui scoprì di aspettare il quarto figlio. Il fatto che non fossero mai cresciuti i fiori non era stato un problema per nessuno: lei era un’idiota, era normale che i suoi fiori morissero tutti nonostante il tempo che passasse a curarli. Poi l’anziano genitore era morto e lei aveva ceduto tutta la sua quota del negozio al marito: un atto dovuto, come ebbero a dire in tanti.
Poi anche l’ultimo figlio era partito per l’università. La crisi economica era divenuta tangibile, anche lei non riusciva più a ricavare molto dai presiti personali che il marito faceva a se stesso. O lui o lei.
Quindi si era informata. C’era un’associazione che aiutava donne in difficoltà, specie quelle vittime di violenza familiare. Guarda caso Marylin, una vecchia amica del liceo, era una collaboratrice. Marylin faceva parte anche di un’associazione artistica: lei era sempre stata una persona estroversa e creativa. Susan un giorno si presentò al gruppo del club dell’uncinetto: Marylin la riconobbe subito. All’incontro successivo Susan fece cadere sapientemente un cesto di gomitoli e, mentre aiutava a recuperare i filati sparsi per tutta la stanza, si arricciò le maniche fino a scoprire un brutto livido sul braccio. Marylin abboccò all’amo come una trota con una camola. Susan la pregò di non fare niente, perché non voleva che il marito fosse incriminato e fu così brava che alla fine le confidò, come un segreto da confessionale, che aveva il dubbio che gli affari del marito non fossero così puliti. E Marylin la rassicurò, dicendole che aveva un progettino che avrebbe salvato lei dal marito senza che la sua reputazione fosse sporcata.
“E qui abbiamo finito”. Susan si risvegliò dal flusso dei ricordi. Annuì, ancora presa dal sapore di vittoria che sentiva nell’aria.
“Ho parlato con il Procuratore: riavrai il negozio di tuo padre, dopo il processo e la sentenza del tribunale, come richiesto nei patti. Se vuoi puoi venderlo e con il ricavato farci quello che vuoi. Che ne pensi?” le disse l’amica.
“Che aprirò un negozio di fiori.”
Susan vide Marylin che la guardava con un’espressione incredula: era certa che neppure lei riponesse un po’ di fiducia in quella casalinga silenziosa ed infelice. Quindi l’accompagnò all’uscita, con il solito sorriso dimesso e tenne la porta aperta, salutandola con la mano, mentre intravedeva tende scostarsi nei villini lungo la via. Fece il gesto di asciugarsi una lacrima e ricomporsi una ciocca di capelli. Poi si voltò e chiuse la porta.
“Ed ora” la voce uscì come un ruggito “apriamo un portone.”
Brava Anna Lisa racconti due problematiche importanti: l’evasione fiscale e la violenza sulle donne. La vicenda si snoda in modo intrigante come un romanzo poliziesco dove alla fine il colpevole è arrestato e cessa così anche l’arroganza del padre padrone. Ben venga la vendetta di Susan.
In bocca al lupo.
Emanuele
Grazie, Emanuele. I temi sono venuti fuor da soli. E pensa che la parte finale, quella in cui Susan si racconta a se’ stessa… l’ha scritta Susan, perché per me poteva finire prima. Ma lei voleva darci l’ultima spiegazione. E soprattutto farci capire che non era poi così stupida come il mondo pensava che fosse.
Go GO Susan!!!
E crepi il lupo!
Il dolce sapore della vendetta! Hai reso così bene la grettezza del marito di Susan che viene voglia di vederlo sepolto da una montagna di letame. Susan, a dispetto delle apparenze, alle quali tutti credono, è una donna forte, capace di sopportare per anni le angherie del marito per fargliela poi pagare con gli interessi. Bello lo stile, coinvolgente e preciso. Complimenti
Oltre alla storia, interessantissima e che tocca temi importanti, ho apprezzato tantissimo il tuo modo di scrivere, sei bravissima a tessere scenografiche e ambienti e attimi di vita! Mi piace tantissimo come scrivi!
Mi è piaciuto a tratti ma purtroppo, a mio modesto parere, non è un racconto realistico fino in fondo e ti spiego subito perché. Famiglie del genere, con un genitore così, difficilmente ‘producono’ figli equilibrati. Qui non vi è accenno ad adolescenti problematici, né a qualsiasi guaio capitato a loro, anzi, si sottolinea come anche l’ultimo – di quattro! – sia andato all’università. Ribadisco quindi il mio apprezzamento per lo stile e la capacità descrittiva, ma il quadro famigliare l’avrei corredato di note ancora più drammatiche. Forse Susan si è tenuta per sé quei dettagli…
Geniale, mi e’ piaciuto. Vedo spesso commenti nei quali i commentatori suggeriscono articolazioni differenti nella trama. ” io avrei fatto cosi’, io avrei fatto di piu’ ” .
I personaggi sono di chi li crea , che piacciano oppure no.
Brava, e in bocca al lupo!
@Matteo: Guarda, sul marito di Susan hai avuto la stessa reazioni di un’amica. Quindi significa che non è solo l’impressione di una persona che mi conosce e mi incoraggia.
Grazie per i compimenti e per l’apprezzamento.
@Marta: Grazie per il commento positivo: non scrivo sempre nello stesso modo, dipende un po’ dal racconto. Però è vero che mi piace descrivere gli ambienti come li vedrebbero gli interpreti del racconto: in fondo la storia è la loro.
@Arianna: Il 6 mi basta, non cerco lodi! Poi, insomma, i figli snobbano Susan, la considerano una nullità. Nel mio immaginario sono una copia quasi perfetta del padre: odiosi da calci rotanti! 😀
@Carla: Io accetto le critiche, purché siano costruttive. Se mi danno uno stimolo a migliorare, ben vengano. Comunque sono d’accordo sul fatto che se “sento” quel personaggio in quel modo, in quel modo lo descrivo. E, mi ripeto: è Susan che vi ha voluto rendere partecipi della sua storia. Io sono solo un.. amanuense!
Brava, mi è piaciuto. E’ una delle tante storie sottotraccia della vita reale, che di tanto in tanto vengono alla luce. La protagonista ha il giusto equilibrio di chi domina la rabbia per arrivare ad un risultato. Nel finale, chiusa la porta, ci sarebbe stato molto bene un “vaffa” che, però, a ben pensarci, avrebbe guastato l’armonio dello stile. Complimenti
Anna Lisa è proprio questo il bello, non scrivere sempre tutto allo stesso modo! E sono d’accordo con te, la storia è degli interpreti ed è giusto vedere con i loro occhi… ancora complimenti!