Premio Racconti nella Rete 2015 “Tre chili e mezzo” di Francesco Zamboni
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Quando calò la mannaia, una goccia di sangue gli schizzò appena sopra il mento. Fece sgusciare la lingua fuori dalle labbra, e catturò il liquido vermiglio in un risucchio sibilante. Il sapore del ferro gli solleticò il palato.
Rimosse le ultime ossa e gettò il resto nel tritacarne, quindi passò al successivo quarto di manzo.
Raccolse il fenditoio, e lanciò un’occhiata allo schermo dell’enorme bilancia. Duecento chilogrammi. Era in linea con il ritmo che si era imposto, ma non era il caso di rilassarsi. Avrebbe sbattuto in faccia al Topo la sua tonnellata di carne e si sarebbe preso l’assegno e la promozione. Già, il Topo. Quel minuscolo ometto con una spalla più alta dell’altra e gli occhi infossati nel cranio troppo piccolo. L’uomo che per anni li aveva scrutati dalla sua stanza al primo piano. L’uomo per il quale loro non erano altro che una macchia grigia su un monitor in bianco e nero.
Il giorno precedente ci era perfino entrato, nella tana del Topo: un locale grande, ma l’odore di chiuso e l’assenza di finestre gli conferivano la parvenza di un anfratto. Il ronzio continuo dei terminali rimbalzava da una parete all’altra, e si mescolava a quello delle luci al neon. Del pavimento, poi, non vi era quasi traccia: i tavoli e gli scaffali mobili si alternavano alle pile di scartoffie, generando un labirinto che mutava aspetto di minuto in minuto.
«Venga, entri pure!» aveva gracchiato il Topo, gli occhi minuscoli che brillavano del riflesso della luce bianca. «Il suo nome è…? Oh, non importa, lei è il duecentosedici. Senta, Duecentosedici, lei ha a cuore la nostra azienda, giusto? Allora ascolti quello che ho da proporle.»
Spalancata la bocca, il Topo vi aveva introdotto l’ultima manciata di spaghetti precotti.
«Noi dirigenti sappiamo quali sono i nostri impiegati più produttivi» aveva poi detto rigirandosi le bacchette nella mano e gettando il cartone alle sue spalle. «Abbiamo deciso che a un grande sforzo deve corrispondere una grande ricompensa. Domani lei, insieme ad altri quattro candidati di cui non le farò i nomi, verrete valutati in base a quanto macinato sarete in grado di produrre. Il tempo della prova sarà di sei ore, per un quantitativo massimo di una tonnellata di carne. Inutile che le dica che al più meritevole di voi spetterà un generoso premio, oltre alla certezza di un brillante futuro all’interno della nostra azienda.»
Dopo un sorriso obliquo, il Topo aveva fatto scorrere la lingua sui denti storti, catturando l’ultimo pezzo di cibo con un risucchio simile a uno squittio. «Mi auguro che lei prenda questa prova sul serio, Duecentosedici, perché io lo farò.»
La mannaia tornò ad affondare nella carne. Era a buon punto. Ancora trecento chilogrammi e avrebbe raggiunto l’obiettivo. Avrebbe vinto lui quella prova, non perché voleva a tutti i costi il denaro, ma perché lui era il migliore nel suo lavoro. In sedici anni, più di metà del prodotto finito dell’azienda era passato per le sue mani. Era merito suo se la lavorazione procedeva spedita. Certo, il volume d’affari si era contratto, ma la responsabilità di questo era del Topo, che non era in grado di vendere bene la sua merce. In ogni caso, un giorno le cose sarebbero cambiate. Un giorno, ci sarebbe stato lui nella stanza con il monitor.
Una tonnellata di carne in sei ore. Di certo, il Topo era convinto di aver dato loro un traguardo impossibile da raggiungere. E così era, per certi versi, ma non per lui.
Depositò il segaossa e impugnò il coltello da colpo. La spalla iniziava a fargli male, ma non era un problema: si destreggiava bene anche con la sinistra. Terminata la pulizia, gettò l’ennesimo carico nel tritacarne. Produrre, produrre, produrre. Sempre di più. Che cosa? Non aveva importanza.
Raggiunti gli ottocento chilogrammi, fece una pausa. L’acido lattico gli tirava i muscoli. Si deterse la fronte con il grembiule insanguinato.
“Raggiungere gli obiettivi. È questa la nostra priorità.” La voce gracchiante del Topo gli risuonò nella testa. Riprese a lavorare.
Dopo un’altra mezz’ora di sudore e crampi, un rantolo metallico attirò la sua attenzione. Il tritacarne si era spento. Andò a controllare. Spinse più volte il tasto di accensione, ma la macchina non riprese più a funzionare.
Colto da un sudore freddo, gettò un’occhiata allo schermo della bilancia: novecentodue. Senza dubbio, era una quantità sufficiente per risultare il più produttivo tra i candidati, ma lui voleva spingersi ben oltre: voleva superare la tonnellata di macinato, e lasciare il Topo a bocca aperta. Dopotutto, quell’occasione era la sua scala mobile per i piani alti.
Tirò un calcio alla base del tritacarne, e premette di nuovo l’interruttore.
Niente.
Non gli restava molto tempo. Si precipitò verso il quadro elettrico nell’angolo della sala. Aperto lo sportello, i suoi occhi ricaddero subito sul fusibile bruciato. Avvolse la mano nel grembiule ed estrasse il pezzo danneggiato. Se lo rigirò sul palmo: la cartuccia pareva deformata. Che qualcuno l’avesse manomessa di proposito?
Serrò la mascella e si diresse verso le scale. Salì i gradini a due a due, fino alla tana del Topo. Guardò attraverso il vetro smerigliato, e intravide lo scorrere di uno scaffale mobile. La stanza stava mutando, plasmata dalla folle mente del suo padrone.
Allungò una mano e bussò. Tutto ciò che ottenne fu lo squittio isterico del piccolo individuo.
«Lasciatemi in pace! Via, via!»
Dunque, stavano così le cose. Ormai non aveva più dubbi: era stato quell’essere insignificante a manomettere il circuito elettrico. Non voleva che lui raggiungesse l’obiettivo. Non voleva che lui prendesse il suo posto.
Si voltò e raggiunse di nuovo il quadro al piano di sotto. Avrebbe vinto quella guerra, a ogni costo. Estrasse il fusibile dall’interruttore termico che faceva capo alla tana del Topo, e lo inserì in quello del suo settore. La creatura ripugnante se ne sarebbe stata al buio per un po’, finché qualcuno non sarebbe arrivato con un nuovo fusibile. Forse se lo era solo immaginato, ma gli parve di udire il gracchiare di un’imprecazione provenire dall’alto.
Quando tornò al tritacarne e spinse l’interruttore, il ruggito del motore lo avvolse di nuovo. Sorrise a quella melodia. Produrre, produrre, produrre.
L’andamento ritmato dei suoi gesti lo cullò. La stanchezza scomparve. C’erano solo lui, gli strumenti e la materia prima.
Il tritacarne gorgogliava a ogni nuovo pezzo ingurgitato. Gli parve quasi di sentirlo sussurrare: «Nutrimi…»
L’ultima carcassa impattò sul bancone, annunciata dal tintinnio del gancio scorrevole. Quel suono metallico fu per lui come il rintocco della campana che segnala l’ultimo giro alle corse dei cavalli.
Fenditoio, mannaia e coltello, e il tritacarne espulse gli ultimi filamenti di macinato.
Soddisfatto, si rimosse il sudore dal volto con la manica del grembiule. L’odore del sangue gli intaccò le narici, ma era quasi un profumo per lui. Il profumo del suo trionfo sul Topo.
Lentamente, alzò lo sguardo trionfale verso la bilancia. Di colpo, i suoi occhi si sgranarono, e deglutì a vuoto.
Novecentonovantasei chilogrammi e mezzo.
Scosse il capo, e sbatté più volte le palpebre. Fissò di nuovo i ganci vuoti. Com’era possibile? Aveva macinato tutti i quarti di manzo a sua disposizione. Non avrebbe potuto ottenere un singolo etto di carne in più dalla sua materia prima. Il lavoro era stato impeccabile, eppure non aveva raggiunto la tonnellata. Perché?
Si afferrò i capelli con le mani insanguinate ed emise un gemito appena accennato. Non aveva mai mancato un obiettivo. Quella sarebbe stata la prima volta.
Sospirò a fondo, e si strappò il grembiule di dosso. Sapeva di chi era la colpa. Quello era l’ennesimo affronto del becero individuo che al piano di sopra se la stava ridendo davanti al monitor.
«Due minuti.» La voce stridente del Topo risuonò nell’altoparlante. Gli parve quasi di vedere il suo sorriso sbilenco.
Avrebbe vinto di nuovo lui, quella creatura insulsa. Come due mesi prima, quando lo aveva rimproverato per essersi accollato il lavoro di altre persone. Quei due colleghi erano troppo lenti, aveva cercato di spiegare al Topo. Non facevano il bene dell’azienda. Rallentavano la produzione, e dovevano capirlo, con le buone o con le cattive. Ma il Topo lo aveva punito lo stesso.
Si guardò intorno. Aprì la cella frigorifera. Vuota.
«Un minuto.»
Il cuore accelerò e iniziò a martellargli nelle tempie. Il respiro si fece affannoso. Non avrebbe perso di nuovo. Non per tre chili e mezzo.
Si grattò la fronte con la mano, e tirò un pugno al bancone metallico. Un formicolio gli attraversò il braccio. I suoi occhi s’illuminarono. Forse, poteva ancora farcela. Poteva ancora battere il Topo.
Raggiunse gli strumenti e afferrò la mannaia. Tornò al bancone e vi appoggiò l’avambraccio sinistro. Guardò il tritacarne, che ancora una volta lo chiamò. «Nutrimi…»
Sorrise, mentre pregustava la vittoria sul Topo.
Produrre, produrre, produrre.
Accetto la conclusione come metafora della frustrazione che deriva dal motto “Produrre, produrre, produrre”. Per il resto trovo bel il tuo racconto, la figura del Topo e le riflessioni relative, il tritacarne che sembra che parli (“Nutrimi,,,) e tante situazioni viste dal “duecentosei”, un addetto scrupoloso e serio che pensa alla sua “scala”. Bel colpo quello di sostituire il fusibile. Originale e interessante. In bocca al lupo.
Emanuele