Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Ho camminato” di Stefano Maria Giusti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

Ho camminato.

Da sempre, ho camminato e camminato, attraverso ogni luogo sulla Terra. Nel mio viaggiare, ho visto cose che solo a tentare di descriverle mi si accappona la pelle, il sangue mi si gela nelle vene e ogni fibra del mio corpo grida e mi verrebbe quasi da accasciarmi al suolo, in ginocchio, e lasciare che ogni emozione si liberi al vento.

Perché sì, io ho camminato, e camminando ho visto e vissuto ciò che l’uomo è riuscito a fare a se stesso nella sua storia.

Io c’ero.

Ci sono sempre stata.

Io c’ero sui campi di battaglia delle grandi guerre che hanno scosso il pianeta fin dall’alba dei tempi, tra il clangore di spade e lance, l’odore nauseabondo di sangue raffermo e fango, le grida dei feriti, il sibilare dei proiettili e delle palle di cannone, il pianto dei sopravvissuti e il silenzio dei defunti, caduti con gloria – ma quale gloria? – sul campo.

Io c’ero, tra i gas urticanti nelle trincee della Francia. Ho sentito quel fumo acre entrarmi nelle narici e bruciarmi all’interno. Ho sentito i soldati implorare pietà e invocare le madri mentre soffocavano lentamente, immortalati come in una fotografia in una smorfia raccapricciante di dolore e sofferenza. Ho visto i sopravvissuti uccisi a colpi di fucile o infilzati dalle baionette, il loro sangue scorreva sul terreno fangoso, dimenticato e sprecato per quell’orgia violenta che è la guerra assurda e crudele. E io, impotente, me ne stavo a guardare, in attesa.

Io c’ero, mentre nelle navi affondate, in trappola come topi, gli uomini annegavano. A Trafalgar, a Cuba, nelle Antille, nel Pacifico, a Pearl Harbor e in mille e mille altri posti. Li ho sentiti annaspare, gridare, graffiare legno e metallo alla ricerca dell’ultimo alito d’ossigeno, che non li avrebbe di certo mantenuti in vita, ma avrebbe soltanto allungato di qualche minuto la loro agonia, il destino ormai già segnato. E io, impotente, me ne stavo a guardare, in attesa.

Io c’ero, quando la nube purpurea, il nuovo sole, bruciò fino all’osso Hiroshima e Nagasaki. Ero lì, in mezzo a quei corpi polverizzati all’istante, neanche un grido, né di paura né di terrore, non ce ne fu neanche il tempo. Il calore li consumò. E io, impotente, me ne stavo a guardare, in attesa.

Io c’ero.

Ci sono sempre stata.

Ho camminato nei campi di sterminio nazisti e nei gulag sovietici, e in ogni campo di concentramento del mondo. Ho sentito e condiviso il dolore degli uomini che morivano di fame, di gelo, di stenti o nelle camere a gas, asfissiati dallo Zyklon B. Quegli uomini si accasciavano a terra, lo sguardo implorante appena alzato con le ultime forze. Mi guardavano. Sembravano chiedermi “Perché? Perché non mi aiuti? Perché non fai niente?”. Ma cosa potevo fare, io? Io sono qui solo per uno scopo, nient’altro, cosa potevo mai fare per loro? Così, impotente, straziata, rimasi immobile, a guardarli spegnersi lentamente, in attesa.

Nella giungla in Vietnam accompagnavo i soldati americani e quelli vietcong, senza distinzioni, senza razzismo di sorta. Ero con tutti, tra le grida di tutti, mentre i proiettili squarciavano membra tra le foglie bagnate di pioggia o il napalm bruciava la carne e le ossa in una calda e afosa notte senza luna. Ancora oggi, sento quell’odore disgustoso di carne bruciata nelle narici, nelle orecchie riecheggiano le grida di dolore dei soldati e le loro suppliche a un Dio sordo o a una madre lontana, ho ancora negli occhi l’orrore di quella carneficina. In silenzio, impotente, senza una lacrima, ho tirato dritto, ligia al dovere, in attesa.

Ho camminato per le vie di Pripyat il giorno che esplose la centrale di Chernobyl, e ancora l’ho fatto a Fukushima dopo lo tsunami. Ho visto gli effetti delle radiazioni sulle persone, sugli uomini, le donne e i bambini. Ho visto persone morire in agonia avvelenati dalla cosiddetta energia pulita e altri spegnersi dopo mesi o anni per colpa di tumori incurabili. Ho visto uomini, donne e bambini sfigurati e neonati venire al mondo malformati. La nausea e il rimorso sono duri da sopportare, eppure, in quei giorni, mi limitai a passare, in silenzio, in attesa.

Io c’ero.

Ci sono sempre stata.

Ero a Dresda mentre cadevano le bombe incendiarie, nei rifugi con la gente spaventata, i bambini che gridavano e piangevano mentre i genitori, anch’essi spaventati, cercavano di rassicurarli, di tenerli buoni. E li ho visti morire. Uno ad uno. Sotto la pioggia di bombe, nell’inferno di fuoco, li ho visti morire così, senza un perché. Ma io, come sempre, sono passata, nonostante le lacrime premessero io le ho ricacciate e sono andata oltre, senza una parola o uno sguardo vero, in attesa.

Ero in Iraq, e in Siria, e in Palestina, ovunque ci sia stata una guerra, e ho visto innocenti morire, uccisi dai proiettili dei soldati, dalle bombe radiocomandate, dai kamikaze infidi e vigliacchi. Ricordo perfettamente ogni singola bomba, ogni singolo uomo, ogni singolo bambino ucciso su un autobus da una bomba umana senza un volto e con in testa solo la follia. Ero lì, mentre gli uomini in nero, incappucciati, squarciavano la gola a prigionieri indifesi e innocenti. Ho visto il terrore nei loro occhi, la muta richiesta d’aiuto annegata nelle grida del loro dolore straziante. Ma ho camminato oltre, mi sono fatta insensibile e fredda e ho guardato da un’altra parte, in attesa.

Ero a New York, l’11 settembre. Ero sugli aerei e nelle torri. Ho sentito il calore delle fiamme avvolgermi mentre bruciava i passeggeri nello schianto, ho udito le esplosioni e le grida dei feriti in quei due grattacieli. Il ricordo di chi, per sfuggire al fumo assassino e alle fiamme si gettava nel vuoto da centinaia di metri è ancora vivido nella mia mente e mi costringe a fermarmi e a resistere per non piangere di dolore. Ho visto crollare le torri e seppellire migliaia di innocenti sotto il peso dei loro detriti. Ma io ho solo scosso dai miei capelli corvini la polvere bianca dei calcinacci e sono passata oltre, in silenzio, senza fare una piega, come sempre in attesa.

Io c’ero.

Ci sono sempre stata.

A volte, mi viene solo voglia di fermarmi, di sedermi, su una panchina nel parco, sul ciglio della strada, sulla riva di un fiume o di un lago, di giorno o di notte non ha importanza, ma sempre da sola, e piangere. Sì, piangere, piangere fino a che non ho gli occhi rossi, il fiato spezzato e la testa non mi pulsa per il dolore dello sforzo e della tensione nervosa. Piango per la follia umana. Questo è il mio dovere, il mio lavoro, io devo esserci, sempre e comunque. Ma come si fa a rimanere impassibili? Come si fa a non piangere? Come si fa a non disperarsi, a non chiedersi il perché di tanta pazzia e di tanta furia omicida e distruttiva? Come si fa a non guardare?

L’uomo è un essere folle. Perché è così ostinato a volersi uccidere? Come fa a spezzare così, senza un motivo, senza rimorso, senza ritegno, la vita di un suo simile?

Passo tra i morti e mi chiedo “Perché?”. D’accordo, è il mio lavoro, ma io dovrei esserci solo alla fine, dopo una lunga esistenza, non prima, e questa è Natura, è così da sempre e così sarà per sempre, non mi turba. A turbarmi, invece, è che l’essere umano mi chiami in gioco in modi tanto cruenti, costringendomi a non guardare per non fermarmi e scoppiare in lacrime, perché se lo facessi nulla funzionerebbe più. Ma come faccio a non starci male?

L’uomo uccide, distrugge, massacra, mi chiama in causa e io devo fingere, perché è il mio lavoro, ma invece sento, sento le grida, l’odore del sangue, la paura e i pianti, e mi strazia il cuore sentirli.

Ma non posso farci niente.

Io devo solo passare e aspettare, nient’altro.

Non posso permettermi il lusso di fermarmi a piangere.

Perché io sono la Morte, e questo, purtroppo, è il mio lavoro.

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3 commenti »

  1. Ciao Stefano, questa versione “umana” della morte è singolare. E’ l’uomo che uccide sui campi di battaglia e in ogni luogo dove ci sia la violenza, è l’uomo che ha sentimenti di pietà e di compassione. Hai ragione tu quindi. All’inizio del racconto, ben scritto, serrato, imparziale nella denuncia, pensando alla presenza di un osservatore, avrei messo la Storia. Bel testo da mettere come prefazione ai libri di storia. In bocca al lupo.
    Emanuele

  2. Il cammino della Morte attraversa i secoli, un excursus attraverso alcuni dei momenti più folli della storia dell’umanità, quelli durante i quali uomini uccidono altri uomini. Mi è piaciuta molto la veste che hai cucito addosso alla tua ‘Morte’, non una spietata mietitrice ma un essere chiamato a svolgere il proprio compito suo malgrado, un essere dotata di coscienza e di sentimenti… Sarei curioso di sapere che ne pensi del mio “La Torretta di Guardia”, anche perché credo ci sia una certa affinità col tuo racconto… Intanto ti faccio i miei complimenti e spero di averti incuriosito…

  3. Ho letto l’estate scorsa il libro “La ladra di libri”, in cui l’io narrante è proprio la morte. Non è un argomento semplice da affrontare, perché la gran parte degli umani si rifiuta di parlarne, nonostante che sia l’unica vera certezza della vita. E l’unica vera presenza incombente, giorno e notte. Mi piace che tu abbia affrontato un argomento così ostico direttamente. Perché la morte la trovi dappertutto, anche nel più scalcinato romanzo giallo oppure anche nei fumetti più famosi e meglio disegnati. O anche nei più struggenti romanzi d’amore. Ma mai in prima persona. C’è, ma non c’è. O meglio. è lasciata dietro, comparsa ma, alla fine, sempre inevitabile protagonista. E poi la frase “ci sonio sempre stata” e sempre ci sarò, aggiungerei. Molti autori non affrontano il problema per non far fuggire i lettori. Bravo per il coraggio e anche per averci ricordato tutti i disastri, le tragedie che costellano la storia di questa disgraziata umanità.

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