Premio Racconti nella Rete 2015 “La casa è nel cuore” di Marta Borroni
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015La giacca di lino beige che aveva indosso era ormai inumidita dalla pioggia che ci stava cadendo sulle spalle e dal cinema dietro di noi la gente usciva di corsa per raggiungere la propria macchina il più velocemente possibile.
Le luci di lampioni e fari si mischiavano con i bagliori delle locandine dei film, l’odore dei croissant caldi della panetteria vicino a noi ci avvolgeva in quella notte umida, mi avvicinai ancora più stretta a lui, istintiva, e la gonna a ruota andò ad urtare contro i suoi jeans.
Intorno a noi radio accese di auto all’uscita suonavano canzoni differenti e adolescenti giocavano tra di loro con le pozze d’acqua appena formatesi e l’aria umida di quella notte sapeva di pane e muschio e mi faceva venire un’irrefrenabile fame in pancia e in gola.
“Ho fame.”
Lui mi guardò divertito e mi strinse ancora più a sé.
“Anche io, vieni che ci prendiamo una brioche prima che diventiamo zuppi per davvero.”
Vicina al suo collo l’odore di muschio si accentuava e si mischiava ancora con l’odore del pane e finiva tra le note del suo profumo, secco, legnoso ed esotico e a me sembrava che sapesse di buono e solo allora, in quel pensiero, mi resi conto che ormai avevo la testa completamente bagnata. Quanto eravamo rimasti fermi sotto la pioggia, 5 minuti? E nessuno dei due si era minimamente mosso, nessuno dei due aveva cercato di evitare la pioggia, si era semplicemente accettata in noi e ci eravamo rivestiti di essa.
Entrati nella panetteria, le 4 del mattino ero certa si facessero sentire intorno ai miei occhi e nonostante questo, nonostante i vestiti fradici e quindi pesanti, mi sentivo così leggera tra quelle forme di pane, un tripudio di salato e dolce ovunque, il profumo della farina nell’aria e l’odore di forno così persistente di prima mattina.
“Per me un croissant vuoto, grazie. E per te?”
Mi guardò così naturale, come se con l’arrivo dell’alba non avessimo nulla da perdere.
“Per me alla crema, lo sai.”
Ci sedemmo a un tavolino di legno chiaro che aveva lo stesso identico colore del pane e mi resi conto che tutto dentro quel negozio era tremendamente monocromatico, davvero troppo uniforme.
Il tavolo che ci ospitava poggiava sulla vetrina di vetro freddo del negozio e sembrava piangesse da quanto ancora ci pioveva addosso.
“Allora, cosa ne pensi del film?”
Avrei voluto fargli un’altra domanda ma dalla bocca ne uscì la frase più classica da dire dopo che si è appena visto un film.
“Interessante, alla fine mischia insieme tradizione e innovazione, culture e buon cibo, il riuscire a sentirsi a casa, e ovviamente l’amore.”
Ebbi l’impressione che su quelle ultime parole la sua voce si fece più cupa, come se qualcuno gli avesse improvvisamente abbassato il tasto del volume della sua voce.
“Domani parto, la casa è tutta imballata, perché non vieni con me?”
E senza accorgermene cambiare discorso mi fu incredibilmente facile, quanto doloroso, come se in quel momento qualcuno avesse rialzato il volume e il cervello ne fosse rimasto stordito.
“Io non posso lo sai, non…”
Lo interruppi violentemente.
“Tu puoi! Solo che non vuoi… tu non vuoi.”
Mi resi conto che la mia voce doveva essere apparsa davvero patetica.
“Tu sai bene cosa provo per te e non sono bravo con le parole, ma davvero io non posso. Non ce la faccio ad abbonda bare tutto, non sono abbastanza forte. Non posso andarmene via di qui, per quanto ci tenga te… non riesco.”
Non riuscivo a capirne il perché, ma all’improvviso mi sembrava che tutti ci stessero guardando, compatendo, osservando, come se la nostra tristezza fosse più lampante della pioggia di fuori da noi.
La pioggia non aveva più lo stesso peso, il pane non aveva più lo stesso sapore, noi , io e lui non avevamo più alcun senso.
“Sai è buffo parlare di sentirsi a casa, dopo queste tue parole.”
Lui mi guardò dritto negli occhi e non capii mai se in essi ci si riflesse un fulmine o ciò che vidi fu solo rammarico.
“E tu, tu sai dirmi dov’è casa?”
Ricambiai il suo lungo sguardo.
“Sinceramente speravo di trovare la risposta in te.”
Non seppi cosa altro rispondere, infondo una risposta alla sua domanda non ce l’avevo, mi sentivo più vagabonda di quel che volessi, più di quel che sapessi di me.
Lo guardai finire di mangiare, sapendo che non era l’ultima cosa a finire, sapendo che era l’ultima volta che l’avrei visto.
Il letto di legno scuro accoglieva me e la mia febbre in modo ormai disfatto e disordinato e i fazzoletti sporchi erano diventati nella notte appena trascorsa ornamenti della stanza stessa.
Spostai il grande cuscino avorio e provai a tirarmi su ma la testa mi girava incredibilmente veloce, ricaddi nel piumone con un balzo secco e con dolore starnutii ancora.
Mi resi conto di essere come uno straccio del pavimento: umido e smunto.
La brace nel camino lasciava tepido il tappeto di cavallino bianco, pronto ad accogliere i miei piedi nudi.
Il sole entrava dalle finestre di legno rosso con ancora maggiore solarità avvolto da quel rossore che accoglieva i miei capelli biondi come miele sull’oro.
Mi sentivo scottare e incredibilmente debole, dovevo assolutamente mangiare qualcosa e cercare di capire che ore erano e che giorno fosse, mi sentivo come se qualcuno mi avesse resettato la mente.
Barcollando tra una stanza e l’altra come una ballerina goffa, cercai di arrivare in cucina senza cadere.
In cucina venni accolta da profumi diversi e ringraziai che nonostante quella brutta influenza il mio naso sapeva ancora fiutare qualcosa.
La veranda luccicava in modo quasi surreale e nei suoi angoli le piante di agrumi mi inondavano di acidità ed estate, le reste appese alle griglie di ferro battuto mi avvolgevano di profumi dolci di cipolle e i pizzicanti sapori dell’aglio sembravano aprirmi i polmoni ora abitati dalla tosse.
Le piantine di erba cipollina e menta mi avvolsero in un’atmosfera di erba, come se stessi camminando scalza in un orto pieno di profumi, e la mia fame aumentava sempre più.
Presi la mia pentola di rame preferita e comincia a farci soffriggere dello scalogno, lasciandomi con le mani piene del suo pungente odore e poi unì la menta, l’erba cipollina, un pizzico di noce moscata, paprika dolce e alla fine il mio preferito, il curry.
Mi sembrava che i profumi mi stessero facendo viaggiare in giro per ogni parte del mondo, e alla fine spaccai qualche uova nella padella e veloce le strapazzai, un pizzico di pepe, una presa di sale e davanti a me avevo la mia sostanziosa colazione.
Mi sedetti al tavolo di noce e cominciai a mangiare le uova calde con una incredibile foga, tanto che non mi accorsi nemmeno di stare mangiando direttamente dalla padella.
Mi venne in mente quel film che vidi insieme ad Edoardo, parlava di cucina e di… sentirsi a casa.
All’improvviso sentì il telefono di casa squillare e andai a rispondere trangugiando ancora qualche boccone di uova.
“Pro, ehm, pronto?”
Le uova mi bruciavano in gola, mi chiesi perché le mangiai così in fretta.
“Pronto Laura, sono mamma. Ti volevo dire che siamo atterrati poco fa, tra non molto saremo a casa. Ma che hai alla voce, ancora l’influenza?”
Respirai.
“Sì quella, e il fatto che avevo una fame incredibile e mi sono fatta delle uova e le stavo mangiando.”
“Vuol dire che ti stai riprendendo! Stasera ti faccio il brodo e quello ti rimette sempre in forma. A dopo.”
“A dopo mamma, un bacio.”
Riattaccai il telefono e mi guardai intorno in quella che era la mia nuova casa.
Di personale c’era ancora poco e tutto intorno c’erano file di scatoloni ancora da aprire, tolle di vernice e muri da dipingere, ancora così tanto lavoro da fare, e forse data la mia debolezza mi sentì terribilmente sopraffatta da quella consapevolezza.
Ma poi tornai in cucina, finì le mie uova, osservai la mia padella preferita, recuperai una presina rossa da una scatolone e l’attaccai al muro, sopra al camino, quasi come fosse la Vigilia di Natale e non so come, senza alcun preavviso, capì dove fosse casa.
Tornai al telefono e senza pensarci feci il numero di Edoardo, dovevo dirglielo della casa, dovevo dirgli che lo amavo.
Feci un solo squillo e poi riagganciai, mi sembrò stupido parlare di casa ad una persona lontana.
Mi appoggiai contro il muro dove c’era lo scrittoio e mi sentii annientata dalle mie stesse emozioni, come se fossi la mia peggior nemica. Lo sconforto si era impossessato di me, ma il telefono squillò di nuovo.
“Ho visto la tua chiamata, mi cercavi?”
Sentire la sua voce dopo così tanto tempo fu strano e in contrapposto anche così stranamente famigliare.
“Volevo solo dirti, stupidamente, che ora so dov’è casa.”
“Sono qui. Mi apri?.”
Aprì la porta e di colpo lo trovai lì davanti a me, tra la porta e i miei piedi scalzi.
“ La casa è nel cuore, e nel mio cuore ci sei tu. Sono qui per te, sono qui per stare a casa.”
Lo abbracciai, delicata e tenera e timida e cominciò a piovere, come quella notte al cinema, dove sembrava che non ci fosse più cuore, dove non ci fosse più casa
La casa è nel cuore, pensai. E sembrava che il mio cuore fosse abbastanza grande per restare a casa.
Ciao Marta non mi è facile un commento al tuo racconto da cui emergono sentimenti di tenerezza. Il titolo esprime già tutto. I colori e i profumi accompagnano la protagonista nella vicenda a anche quando si prepara la colazione; sentiamo l’acquolina in bocca. Non trascuriamo mai l’importanza dei colori e dei profumi nella vita. Che dire poi dell’indecisione nella telefonata? Nulla, perché Edoardo è la persona giusta per la sua vita. E’ lui che richiama, è già sotto casa. Complimenti.
Emanuele
Diceva una vecchia canzone che la casa è dove poggiamo il cappello. Per esteso si può dire che la casa è dove sta il nostro cuore. Il titolo del tuo racconto non poteva essere più chiaro e esplicito. Una storia d’amore lieve, piena di profumi, di aromi, di tenerezza, anche di rabbia. Una storia di quotidiana umanità, quello che abbiamo quasi perduto inseguendo traguardi complicati e irraggiungibili.
Commovente questa delicata storia d’amore.
Se “Il piacere della condivisione” è un affresco, dipinto con i sapori e con i profumi, ne “La casa è nel cuore” le immagini si espandono e si strutturano, componendo un intreccio appassionante e coinvolgente.
Come un autentico marchio di fabbrica, i due racconti sono accomunati dai dotti riferimenti culinari, un gustoso interludio anche per chi, come me, incontra ostacoli insormontabili persino nella preparazione di un toast.
Complimenti.
Emanuele, tu dici che non ti è facile commentarmi… ma arrivato il moneto, l’hai fatto benissimo e di questo non posso che ringraziarti molto!!!
Sì sarà indubbiamente notato quanto io ami il cibo, specie preparalo, cucinarlo… perché è un atto d’amore che viene racchiuso in una casa vissuta, piena di vitalità.
In questo racconto mischio parecchi momenti autobiografici, tutti alla rinfusa e mescolati solo e fare attimi e di conseguenza azioni, che credo siano importanti.
Casa è dove appunto possiamo prepararci la colazione o dove assaporare ancor meglio quei colori e profumi che come dici possiamo trascurare perché sembrano banali e invece non lo sono mai. Casa è dove appunto aspettare l’amore, farlo nascere, nutrirlo… come una maionese che per non farla impazzire devi avere un polso fermo e tanta pazienza, elementi che sembrano non potersi unire mai, che si slegano, si trovano infine fusi insieme, uniti. Un pò come Edoardo che alla fine seppur slegato dal suo amore, si è ritrovato unito ad esso, si è ritrovato a casa.
Quanto al telefono… siamo stati tutti in attesa, indecisi, impauriti, non si è mai capaci, nonostante l’esperienza, di capire quando è il momento giusto di fare il primo passo e infondo è il caso di farlo.
Grazie infinite per avermi letta e commentata!
Duccio, innanzi tutto posso permettermi di dirti che hai un nome davvero molto bello?
Se non sbaglio la frase della canzone che mi hai citato, dovrebbe essere “Wherever I lay my hat” di Marvin Gaye, giusto? Celeberrimo cantautore statunitense… l’ha rifatta anche Paul Young, che tra l’altro mi piace parecchio come cantante… ma la cosa strana è come frase viene anche attribuita a Bruce Chatwin, scrittore e viaggiatore, ma sto divagando, scusa.
Ad ogni modo frase azzeccatissima la tua, grazie. Casa è dove poggiare le nostre cose, racchiuderle e viverle insieme alle nostre esperienze e ricordi.
Purtroppo per il limite massimo di caratteri, non ho potuto approfondire di più, anzi ho dovuto fare molti tagli, non riuscendo ad essere io per niente sintetica… ne risulta quindi essere una storia d’amore lieve sì, perché affrontata più verso l’epilogo che non al centro dell’introspezione, e i colori, i profumi sono parte di noi, compagnia di viaggio fra le nostre note di tenerezze e rabbia. Piacevole il fatto che tu la rabbia l’abbia notata, che io chiamerei anche più che altro frustrazione, di essere spesso bloccati in situazioni che sfuggono al nostro volere o controllo e che spesso, ancor peggio, ci fanno bloccare in noi stessi, nelle nostre emozioni.
Mi piace estremante tanto la conclusione del tuo commento: una storia di umana quotidianità, è vero, verissimo, è quella che rappresentava la storia e quello che volevo esprimere cose che capitano a tutti noi… che ci sembrano ormai cose vecchie, poco abituali, alla ricerca di chissà quale altro brivido illusorio.
Hai ragione tu, ormai puntiamo a traguardi labili, quasi inesistenti… dovremmo riscoprire la bellezza della vita normale, abitudinaria, anche se questo vuol dire, inevitabilmente, passare da dolore.
Grazie ancora per il tuo prezioso commento!
Roberto eccomi qua, finalmente.
Ti ringrazio per il delicata, mi piace effettivamente pensarla così questa storia d’amore lieve e tratteggiata con tenerezza.
Mi piace come ha suddiviso la visione d’insieme dei due racconti, accomunati ad esempio dal buon cibo, ma molto diversi nella scrittura descrittiva.
Mi fa un gran piacere sapere che io sia riuscita farti cogliere queste sfumature!
Quanto al toast non è così insormontabile, dai… e se vuoi qualche dritta in cucina, chiedi pure 🙂
Intanto grazie ancora!
Era Marvin Gaye, quello che diceva che la casa è dove metto il cappello. Finì ucciso dal padre. Casa, radici…ma esistono davvero? Una volta un professore americano mi disse che a lui una casa di proprietà non interessava. tanto un giorno morirò. Coma me ne faccio? la casa è dove ti senti di vivere meglio, dove ritrovi quello che hai più vicino, quello che ami. Non necessariamente un luogo fisico ma anche un luogo dell’anima. Dopo gli elogi che mi hai fatto per il mio racconto sono andato a rileggermi questo. Mi era quasi sfuggita l’ultima frase. “e sembrava che il mio cuore fosse abbastanza grande per restare a casa”. Lì dentro c’è il senso di tutto. Il senso del ritorno in quella che non è la casa di lui ma che lo diventerà. perché, appunto, ogni luogo è casa. Basta capirlo.
A proposito, io non ti conosco ma per come comunichiamo mi sembra di conoscerti da tanto.
Ciao Duccio
Bello, dovresti farci un romanzo. Come se questo racconto fosse solo un puzzle di scene. Perché non provi? 😉
Scusate tutti per il ritardo, ma il lavoro mi assorbe completamente… ma finalmente eccomi qua!
Volevo ringraziare TUTTI, ma proprio tutti VOI… siete una bellissima poetica compagnia di scrittori che anima piacevolmente questo ritrovo di arte!!!
Caro Duccio, sono qui finalmente a risponderti… e ammetto che aldilà della stanchezza e del lavoro che spesso mi tengono lontana da questo bel ritrovo di parole, il tuo commento, quest’ultimo, è per me il più difficile da commentare.
Toccare l’argomento casa, soprattutto per me ora, è abbastanza delicato e intrinseco, pieno e florido di tanti, tantissimi significati e pensieri.
Mi ci ritrovo molto nelle tue parole, forse perché appunto rispetto alla definizione di casa ho in me davvero mille domande.
Sai, la cosa paradossale parlando di Marvin Gaye e che fu anche autore della celeberrima “Ain’t No Mountain High Enough”… se si legge questo testo, in questo caso il senso di casa va oltre il materiale, oltre le barriere della vita, il titolo stesso dice “Non c’è montagna abbastanza alta” ed è un susseguirsi di frasi sul fatto che non c’è distanza abbastanza ampia da farci separare, da essere lontani l’uno dall’altro… anche questo infondo può essere casa, e allora come dici tu cosa ci può essere di certo e prestabilito per far si che casa esista e soprattutto che la casa esista in noi?
Interessantissima la riflessione del professore americano, giusta, ma credo anche la morte non possa sancire tutto di noi, per quanto essa ci appartenga paradossalmente fin dalla vita.
Ho 23 anni e all’incirca penso che da quando sono nata ne ho cambiate una dozzina di case, alcune sono state mie altre no, erano solo di passaggio, e anche io mi chiedo se casa dove stai bene nonostante tutti, il panettiere sotto casa, l’abitudine di voltarti e trovare un volto, un posto, una semplice panchina su cui sederti, sapere in automatico quale cassetto aprire per trovare, vedere la propria pianta di rose ogni anno farne sbocciare sempre di più.
Ho avuto la fortuna e il lusso girovagando nel mio essere vagabonda di conoscere tante realtà, posti particolarità e di vivere mille case, mille rose, mille città… ma a volte l’abitudine, la stabilità e la permanenza fanno molto. Risponderei quindi quel tuo professore che comprare una casa non è poi così male, vedere quella pianta crescere e la casa stessa aumentare di emozione e ricordi… fino ad essere ereditata, tramandata… perché anche questo è casa: tradizione.
Quindi venendo dietro sempre alle tue frasi non c’è un percorso, una strada, una costruzione o una città prestabiliti per essere a casa, ogni luogo è casa, citandoti appunto…. basta capirlo, e soprattutto bisogno volerlo, sentirlo. Quando dico che il cuore è abbastanza grande per rimanere a casa, e presa di coscienza e di posizione, perché anche per rimanere a casa ci vuole coraggio, più che partire, più andarsene, più che fuggire… perché la casa siamo in noi, e se impariamo ad abitare in noi stessi, ovunque andremo la casa è nel cuore, questo voleva essere il messaggio… perché allora sapremo davvero dove fermarci e dove voler poggiare il cappello.
Mi fa piacere che tu mi dica questo Duccio, anche a sembra di conoscerti anche se così non è… parlare con te è così piacevole, così naturale, immediato… grazie di questo.
Quando hai voglia di scrivermi per me è sempre un piacere!
Anna Lisa ti ringrazio… uno dei commenti più belli il tuo, perché vuol dire che ho emozionato a tal punto da volere ancora più introspezione nella storia… grazie per il tuo bel consiglio!
Ammetto che scrivere romanzi è la mia passione, la mia attitudine maggiore insieme ai racconti… anche se spesso mi blocco stupidamente nelle mie paure.
Non sarebbe male però dare a questa storia d’amore e a questa casa, una storia maggiore… grazie ancora per avermi letta e commentata!
Sono una tua fan e spero tu vinca… in bocca al lupo!
Salve Marta,
la casa è un nido sicuro per la tua protagonista, che immagino giovane e bisognosa di creare un nido per due. Un racconto fresco, con qualche inciampo qua e là, che di certo merita uno sviluppo maggiore.
Vorrei il tuo parere sulle mie due favole in concorso: Il Coccodroccolo e Penelope, la Tessiragna.
Arianna
Arianna, grazie mille per avermi letta… avevo voglia di un tuo commento dopo aver letto i tuoi racconti!
Hai ragione per la protagonista la casa è un nido sicuro, quasi sicuramente l’unico… è l’emblema di famiglia sia come quella di coppia sia come quella di appartenenza.
La protagonista è effettivamente giovane, probabile perché lo sono io stessa, e hai voglia che l’amore che prova si estenda nella casa, nella famiglia.
Ti ringrazio per la freschezza, volevo che rimanesse quella sensazione anche se il racconto volge a riflessione importanti, a tratti malinconico, ma è comunque un inno alla volontà e alla speranza.
Quanto agli inciampi, mi auguro che man mano capitino meno e soprattutto di sapermi rialzare in modo migliore… dalle proprie cadute bisogna sempre rialzarsi!
Vado a leggere nuovamente i tuoi racconti, così rispondo alla tua domanda.
Grazie ancora!!!!!
Narrazione molto coinvolgente e fluida, segnata da una leggerezza narrativa che rende le parti del racconto molto armoniche. Mi sono piaciute molto certe descrizioni. Una è la seguente: “le note del suo profumo, secco, legnoso ed esotico”
tenera è la storia!!!
Gianfranco e Laura, scusate il grandissimo ritardo, purtroppo dopo l’anno scorso non sono più riuscita a seguire molto il blog.
Gianfranco ti ringrazio molto, effettivamente è una parte di me molto forte, a livello di scrittura, essere così tanto descrittiva. Mi piace poter trasportare ogni cosa ci avvolge addosso: quei profumi, quelle sensazioni, quella tenerezza che Laura cita e ringrazio nuovamente.
Devo ammettere però che questo racconto, scritto un pò di fretta, non è del tutto all’altezza del mio stile, come invece “Il piacere della condivisione” con cui è stato un onore e una grande gioia poter vincere questo concorso l’anno scorso!
Un abbraccio ad entrambi… e in bocca al lupo!
cara Marta,
trovo questo tuo racconto molto delicato, niente al mondo da così tanta sicurezza come sentirsi nella propria casa.
questa sensazione non è data dal luogo in cui si trova il corpo, ma quello in cui si trova il cuore, quando sta dove sente di appartenere, è proprio lì la casa.
Caro Granit,
che gioia leggere il tuo commento, specie dopo che da questo mio racconto è ormai passato un pò di tempo.
Ti ringrazio per aver colto questa delicatezza e questa forza profonda che volevo mettere nella sensazione di casa, che davvero può essere ovunque, se è già in noi, l’appartenenza (sensazione splendida) è qualcosa di assoluto e univoco che magicamente ci sceglie e che noi scegliamo.
In bocca al lupo per questa tua edizione… corro subito a leggerti!