Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Prisma” di Lucia Lucrezia Tellini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

TESTIMONE 1 (compaesana)
“Ah… si,lui.
Non che il nostro possa essere considerato un rapporto d’amicizia… a dire il vero
nemmeno rapporto nel senso più generale della parola.
Ormai ha smesso di scendere in paese da che ne ho memoria; le poche volte che lo
faceva, mi creda, erano considerate da tutti quasi un evento.
Non diciamoci bugie, in ogni paese abbiamo quel paio di figure per così dire…
bizzarre sì… che a loro modo diventano personaggi.
Esiste infatti il paese composto da chi come noi può essere considerato l’incarnazione
della vita monotona e tranquilla, di chi va al lavoro e di chi prova quell’emozione di
sentirsi il cuore allargato, quasi annacquato dalla gioia quando torna a casa dalla
propria famiglia, dai propri figli, che si stringono attorno ai colli ricurvi e stanchi.
-guarda lontano, si morde un labbro-
E poi ci sono loro, i personaggi, o meglio c’è lui che vive… la vede quella casa laggiù?
Quella tutta tempestata d’edera rossa, proprio in mezzo a quel giardino… che ora a
dire il vero sembra più un bosco incolto.
Si proprio lì insomma,vive lui.
E quando scendeva percorreva proprio quella strada che vede -punta l’indice contro il
vetro,il suo respiro forma una piccola condensa- e tutti, quando se ne accorgevano
rimanevano come incantati.
Avrebbe dovuto vederlo, una figura talmente esile che sembrava vacillare ad ogni
passo, alta, chiusa e protetta dalle spalle appuntite… aveva un’andatura che pareva
appena sceso da una nave, ha presente?
Quando non capisci più se sei tu che ancora ondeggi o è il mondo che si scuote quasi
a prenderti in giro… ecco lui ondeggiava sopratutto con la testa, che ributtava indietro
appena fatto un passo, quasi si fosse scordato un particolare nel paesaggio che fosse
degno di nuova analisi.
Io più di questo non posso dirle, so solo che scendeva quasi una volta all’anno, non
salutava mai nessuno e quei nessuno a loro volta non avevano mai il coraggio di
scambiarci una parola.
Era come se al suo passaggio tutti riprendessero vita; finché lo intravedevi in
lontananza rimanevi con la faccia spalancata a fissarlo, studiarlo, sentendoti
confortato e superiore dal tuo essere normale.
Appena si avvicinava in modo consistente,progressivamente tutti…. e dico davvero
tutti, come pervasi da nuova vita, cercavano di non sembrare troppo invadenti, si
giravano, armeggiavano con qualcosa… ma si vedevano sa?
Le code dei loro occhi, scrutavano ogni suo movimento, passo o contrazione, quasi
fosse un pericolo da sorvegliare, una bomba pronta a… implodere.
Su sé stessa.Più di questo davvero… non so dirle.
Ah no anzi, dimenticavo, quando scendeva si dirigeva sempre in quel fatiscente
negozio di giardinaggio che trova proprio in fondo alla strada, lato sinistro; magari la
signora che vi lavora saprà dirvi qualcosa in più.
Prima di congedarla sa che le dico, -rientra sulla soglia della porta, si stringe i lembi
della camicetta al collo- io penso di aver capito cosa abbia, è solo un uomo un po’
introverso, ama stare per le sue, ecco tutto.
Rispettiamo il suo desiderio… misantropo certo, ma rispettiamolo!
Non si arrovelli troppo la mente su di lui, dia retta a me, io che l’ho capito.
Arrivederci!” -sorride,spunta un’increspatura vicino alle labbra-

TESTIMONE 2 (commessa del negozio in fondo alla strada)
-avvicina gli occhiali con il dito medio, mi scruta per un tempo non determinato-
“Sì… sì, ora che mi ci fa pensare ho presente di chi sta parlando.
Ma adesso sa, mi ha un po’ colta alla sprovvista ecco… io veramente stavo per
chiudere.
Comunque va bene, dal momento che mi ha promesso che sarebbe stata una questione
veloce posso anche accontentarla, però deve aspettare qui cortesemente qualche
minuto.
-si allontana per un tempo non determinato, il negozio è databile ad un tempo non
determinato-
Ecco qua i registri che mi aveva chiesto.
Qui sulla sinistra abbiamo il nome di tutti i clienti, poi a scalare la data dell’acquisto,
l’oggetto che è stato comperato ed in fine il suo prezzo.
Guardi, questo registro per me può anche tenerselo, mi faccia solo la cortesia, quando
ha finito, di riportarmi le ultime pagine.
Piccole formalità… capisce.
Comunque il nome che deve cercare negli elenchi è Ginger… si non mi guardi così
nemmeno io credo che sia davvero il suo nome, ma cosa si aspetta da un tipo così?
Suvvia, mi trattengo solo perché è stato mio cliente, uno dei pochi ecco.
Ma io che l’ho capito il tipo che è, posso tranquillamente affermare che proprio non le
sopporto le persone come lui.
I codardi, quelli senza tempra, in lui leggevo una tale paura di vivere che è rimasto
segregato in quella baracca per tutta una vita, ma si rende conto anche lei?
Certo, con i tempi che corrono… o meglio che ormai ci corrono sopra, capisco avere
un po’ di timore, ma rinunciare così proprio no.
E mi dia retta, con quanti ne ho visti posso assicurargli che era uno di quelli.
Omuncoli terrorizzati dalla loro stessa ombra che venivano qui a chiedere un paio di
forbici da giardino, o dei guanti per le spine, di cui il più grande successo nella vita
era essere riusciti ad avere uno di quei giardini nauseabondi, che lì vedi subito, in cui
non sporge nemmeno un filo d’erba.
Si sentono grandi loro -alza gli occhi al cielo- pensano di averla domata, la natura,
nelle loro ridicole aiuole, e gozzovigliano nel senso di onnipotenza quando guardano iloro giardini sterili ogni giorno, di ogni anno.
Con le piante è facile, le piante non replicano, non si oppongono, non cercano né di
aprirti gli occhi né di scuoterti… facile davvero così, complimenti a loro!
Sa che le dico?
Io sono una giardiniera qualunque, che ha un negozio da giardino sempre qualunque
ma che non ha un giardino.
Ebbene no, e non l’ho mai voluto… vuole sapere perché?
Tanto glielo direi in ogni caso.
Perché la natura è meravigliosa.
Perché è l’unica essenza che si salva in questo mondo piegato ormai ad immagine
somiglianza degli uomini. Io l’ho lasciata libera la natura, lei non ha niente a che
vedere con noi umani, branco di codardi… branco di Ginger.
E adesso se ne vada per favore, non ho voglia di cercare di trattenermi ancora.
Arrivederci.” -sbatte la porta, la sbatte rumorosamente-
-la riapre-
“Ah, quando avrà capito qualcosa di quell’uomo lo dica anche a me per favore… anzi
no guardi forse è meglio di no, è inutile, inutile anche per lei intendo.
Le ho già detto come stanno le cose e che tipo sia, sta buttando il suo tempo mi creda.
Matta la donna che l’ha sopportato. -sussurra-
La smetta di importunarmi per favore.” -i vetri colorati della porta vibrano-

TESTIMONE 3 (dopo troppe ricerche, la matta donna che l’ha sopportato)
“Chi scusi?
Oh no la prego… la prego e la scongiuro non mi faccia questo.
Non mi faccia parlare di lui.
Non mi faccia aprire un capitolo ormai chiuso… ormai morto per me.
Lei pensa che sia facile, oh sì che lo pensa, viene una sera qualsiasi un po’
infreddolito, si siede davanti al mio thé alla pesca, fa qualche domanda su quell’uomo
e poi se ne va.
Purtroppo non è così facile, anzi, le dico subito che se avessi saputo fin dalla soglia
cosa volesse, a quest’ora si ritroverebbe a conversare con la porta.
-sussurra a denti stretti- Se avessi saputo fin dalla soglia della nostra storia chi fosse stato, giuro che non l’avrei mai fatto entrare nella mia vita… -si porta la mano alla bocca, si porta il senso di colpa per quella frase realizzata solo adesso-
La prego di scusarmi, le giuro che, anche se non sembra, non sono mai una persona
scortese.
È che evidentemente, se lei viene qui a farmi delle domande su di lui, con questa
insostenibile leggerezza, significa che non l’ha mai provato.
E sono felice per lei che non si sia mai innamorato di un “personaggio”.
Sì insomma, i tipi un po’ strani che caratterizzano ogni cittadina, quelli che tutti
additano come mezzi matti, quelli che causano grasse risate ai più giovani e magre
consolazioni agli adulti un po’ più maturi.
Sa perché gli adulti non hanno mai riso di lui? Perché le loro coscienze non avendo sufficiente sfacciataggine, si limitano a provare pena.
Sì di quel tipo stagnante, acre e forse ancora peggio di una risata giovanile.
Io le ho viste tutte le loro così sentite pene… certo, come se fossero capaci di
provarne, quelle pene servono solo per dare loro l’impressione di lavarsi tutto via,
tutto il loro schifo.
Cercano in questo modo di sentire un barlume di umanità in troppi animi ormai
animaleschi.
Li cercano sa?
Eccome… io li ho visti i loro occhi avidi in cerca di personaggi da compatire, li
braccano proprio, li bramano ne hanno bisogno loro, ecco tutto.
Sono i personaggi impastati alla loro pena miserevole, che gli permettono di andare a
dormire tranquilli.
È quella domanda “signore vuole una mano?” o quell’espressione in tono saccente
“figlio mio, non ridere di chi sta peggio di noi” che ai loro occhi inizia già a scaldargli il posto in paradiso.
Ma mi creda, in questa società avvelenata e sfinita c’è solo una cosa peggio dei
personaggi, e sono quelle come me.
Sono coloro che hanno avuto il coraggio di amarli quei personaggi, amarli davvero e
che hanno provato per loro un sentimento diverso dalla pena.
Ora, si immagini lei, come può essere considerato qualcuno che ama un folle… o
meglio, folle per gli altri?
Se mi trova un aggettivo me lo dica, che io… è tutta una vita che ci penso.
Lei non se lo immagina nemmeno, tutto il dolore che mi hanno letteralmente cucito
addosso, di cui una parte consistente, forse la più importante, era il dolore che mi
facevo carico per lui. -forse sono lacrime quelle-
E gli occhi signore… li vedo ancora nei sogni alcune volte, si immagina adesso la
pena che provavano per me? Il matto amato da me, l’ancor più matta.
Ma cosa ne potevo sapere io, mi scusi?
Quando lo conobbi fu durante un viaggio, un amore forte e un fuoco troppo intenso
che ha consumato tutto, distrutto dalla sua stessa forza, in un meccanismo perverso di
giudizi altrui e tenacia.
Certo, molti si saranno chiesti che cosa trovassi in lui, ed io a dire il vero ad oggi non lo so ancora, ma era la parte strana di me, quella in ombra che con lui si trovava in
perfetta sintonia.
Come se tutti coloro che su di noi hanno posato i loro viscidi occhi non avessero un
lato nascosto, suvvia, già il fatto di esistere implica la presenza di qualcosa di torbido in ognuno.
Sì, anche in lei… non mi guardi così…la scongiuro.
Tutti voi proprio, con le vostre belle vite normali, omologate, forti e deboli nella
vostra quotidianità aspettate di esser soli per mostrarlo; aspettate che la moglie, la
figlia, la mamma, la ragione vi abbandonino ed è proprio nei difetti più piccoli e non
curati che vi tradite.
Ed ecco, vede come siamo tutti matti adesso?
Io semplicemente non ho voluto nascondere i miei demoni, ma condividerli. E posso essere giudicata per questo?
Molti mi hanno chiesto se mai davvero niente mi avesse mai fatto presagire la sua…
aspetti… sì, infermità mentale, ecco come la chiamano loro.
Bhe sì.
Certo.
Pensa che sia reputato normale entrare nella casa di qualcuno, e non trovare nemmeno
uno specchio?
Chiunque al mio posto sarebbe scappato, preda del terrore senza mai raccontare a
nessuno la debolezza avuta per il matto senza specchi, ma io ho preferito perseverare.
Rimanere.
Suvvia, sa anche lei come siamo noi donne, e le dico subito che non ci crederò mai, se
adesso con gli occhi più sinceri che saprebbe mostrarmi mi dicesse che mai nessuna
con cui ha condiviso un amore, non abbia mai tentato di trovare in lei qualcosa che
proprio non andava.
E una volta scovata, magari creata, ha tentato di guarirla, ha tentato in modo
invadente di entrare in empatia con lei e sì, proprio di lei ha fatto il suo tramite per
quel famoso posto in paradiso.
E non provi a negare che quella donna mentre la guardava negli occhi, le diceva che
mai nessuna era riuscita a conoscere un uomo così bene.
Eccola tutta l’ipocrisia vede, di chi invece con noi non ha capito niente.
Io non ero matta, ma nessuno di me ci ha mai capito niente, nemmeno provato.
E… del senza specchi… io non ho mai voluto capirci niente, non ho mai avuto questa
presunzione, forse perché non c’era niente da dover decifrare.
Era così, così è rimasto e così è giusto che sia.
-il tono di voce si fa più aspro-
Se matto è la vostra parola, allora definitelo tale.
In ogni caso la nostra storia è finita poco dopo, e credo di sapere che i vostri giudizi,
le vostre code dell’occhio inquisitrici e piene di pena marcia per me siano state
insopportabili, che abbiano vinto sul nostro legame e che mi abbiano portato ad
andarmene.
Vuole un biscotto?”

TESTIMONE 4 (il testimone di sé stesso, l’unico testimone)
“Quando mi sono ammalato io, ancora dovevo nascere.
Quando ho iniziato a voler guarire mi sono trovato senza una cura.
Te ne rendi conto presto, che una vita a nervi scoperti non si è in grado di affrontarla.
Come ho fatto a sopravvivere alle notti senza dimensione, ai mezzogiorni di sole
verticale, quando io… l’unica cosa che posso sopportare è un tramonto.
Dove ho trovato il coraggio di girare, se ad ogni angolo per me era il vuoto… quando
sopporto solo morbide curve.
Come mi sono salvato dai silenzi assordanti e dai rumori inafferrabili quando solo
dopo decenni… ho imparato a convivere con la mia voce.
Sono un superstite, un martire ancora in vita del mio fardello, sono un eroe, ma questo nessuno ha mai provato a sentirlo.
Come fai a portarti davanti ad un medico, e chiedergli se la cura per una sensibilità
malata esiste. -mi schiarisco la voce-
Come fai anche solo a comunicare, a trasmettere qualcosa, a trasmettere un minimo di
credibilità quando il tuo linguaggio raggiunge frequenze in solitudine.
Frequenze alle quali mai nessuno sale. -allento il pugno in cui mi si stringe la mano-
Mi sono ammalato quando me ne sono reso conto, prima ero anche in grado di
viaggiare, salire su un treno, girare un angolo, scaldarmi con il sole del mezzogiorno.
Mi sono ammalato quando sono passato davanti ad uno specchio.
Ma certo che l’ho fatto molte volte prima… ma nella vita di ognuno esiste sempre quel
momento.
Solo un attimo che va di fretta ma che ha il potere di incrinare tutto, di far discordare
la propria musica interiore.
Io… quando mi sono guardato mi sono sentito soffocare.
Come poteva quel corpo misero e smunto, come potevano le mie spalle appuntite
contenere quel mondo che mi esplodeva dentro.
Non poteva esistere.
L’ho vissuta come una punizione.
Divina.
Ci ho visto dentro l’impegno che la natura ha riversato per sminuirmi, rendermi uno
dei tanti, quando dei tanti io non ho mai avuto niente.
Io ero il mondo… lo sentivo a pieno, mi scorreva nel sangue, mi scivolava dagli occhi,
mi aveva scelto il mondo per esprimersi attraverso di me.
Per esprimersi a chi non hai mai voluto ascoltare.
Sono rimasto a fissarmi per giorni, forse ci sarei morto in contemplazione di quel
riflesso; mi sono analizzato, doveva per forza esistere in me qualcosa di unico.
Ma non ho trovato niente, niente che non potesse essere considerato un denominatore
comune con ognuno di voi.
E così non potendo eliminare quel maledetto involucro che era il mio corpo, ho
estirpato gli specchi.
Non ho mai più voluto vedere l’imperdonabile torto e beffa che di me si era fatta la
natura stessa che mi aveva prima scelto, poi creato. -mi ritrovo a fissarmi i palmi,
come allora, smarrito-
Non avevo niente di me che testimoniasse la mia diversità, ma avevo ancora quel
poco di speranza che serve, che serve per illudersi e non morire… che è servita per
tentare di mettere in contatto una persona esterna con il mio mondo… che poi era il
mondo.
La speranza di avere un testimone, un aiuto per condividere l’onere, una creatura che
io mi sono preso il diritto di scegliere, senza interpellare la natura.
Ho trovato la speranza di credere nell’amore un’ultima volta.
Un amore senza mezzi termini, che non nascondesse il mio intento.
Un amore che non mi lasciasse fregato da questa vita, una mia rivincita e ribellione
contro la mia stessa essenza.
Ma il mondo non c’è stato ai miei progetti… li ha assecondati fin quando ha voluto e
me l’ha portata via.E lì ho capito davvero quale fosse il destino di questa mia esistenza, ho capito quanto fosse grande la componente di crudeltà che accompagna questa sensibilità estrema.
La crudeltà di una eterna solitudine.
La donna che avevo scelto come mia testimone la natura l’ha creata troppo fragile, le
ha assegnato il suo punto di rottura molto prima della sopportazione che a me era
necessaria.
Il suo limite non includeva i giudizi degli altri, delle occhiate che hanno sempre
accompagnato ogni mio spostamento, la vita con un matto senza specchi.
Ci ha provato, e le sarò grato per questo, ma la sua espressione quando vide che in
questa casa tutto ciò che produceva un riflesso era stato distrutto o coperto, mi lasciò
senza speranze per quel mio destino.
Un destino inevitabile.
E non posso dire che non me l’aspettavo quando anche lei se ne andò, quando non
raggiunse queste mie frequenze.
E così quell’unico ramo di speranza che rimaneva dell’albero della mia anima, mi
cadde dentro, pesante e silenzioso.
Così corsi fuori.
Uscii davvero nel retro di casa e tentai, nella sfinita rassegnazione del dolore di far
soffrire il mondo, di cui ormai ero solo una marionetta.
Afferrai il primo oggetto che la mia cecità scorse: un paio di forbici.
Ed iniziai a distruggere ogni ramo, ogni foglia, ogni filo d’erba di cui ero capace.
Quando capii che da lì in avanti la mia vita sarebbe stata una continua potatura di ciò
che di me rimaneva, potai il mondo… lo feci letteralmente.
-ho la mandibola serrata-
Non so quanto tempo trascorse da che la mia inutile ribellione ebbe inizio, so solo che
dopo mi fermai e caddi a terra come morto… ucciso da quella immensa vita.
Non so quanto ci rimasi, ma so che quando mi ripresi e guardai ciò che rimaneva del
giardino inaspettatamente… mi sentii finalmente capito.
Tutto quel caos, distruzione e confusione che quelle mie comuni braccia erano
riuscite a creare, per la prima volta divennero il mio testimone.
Quella devastazione mi si presentava come il complice che cercavo.
È andata proprio così… ho realizzato che nella mia solitudine forse qualcuno non
avrebbe creduto alle mie parole, alle mie follie come le chiamavano gli altri, ma
avrebbero creduto alle mie azioni concrete.
Nascoste nella banalità.
Così decisi di esprimere il mondo che viveva in me… attraverso il mondo stesso.
Non possedevo altro se non questo fazzoletto di terra per farlo, e così pur non
volendo, dovendo sopportare le code degli occhi di un paese intero, scendevo
raramente e mi procuravo il necessario in un vecchio negozio di giardinaggio.
In fondo alla strada, lato sinistro, da cui ero solito servirmi già da molto tempo.
Mi firmavo come Ginger, qualche volta.
Forse anche per questo tutti mi hanno sempre considerato un folle; per il mio
scendere così raramente.
Quando in realtà volevo solo proteggerli tutti, non doverli mettere a confronto con
qualcosa che non avrebbero potuto capire.Proteggerli da quel me che in quanto parte del mondo, viveva in loro.
Proteggerli dai miei occhi che avrebbero saputo leggergli l’intera esistenza,
traducendo come il mondo si esprimeva tramite i loro gesti più dimenticati.
Forse mi consideravano un folle perché tra tutti i negozi mi servivo dal più lontano, il
meno rifornito ed il più scadente.
Se solo avessero sentito… se fossero riusciti a leggere negli occhi di quella donna che
ci lavora, tutto l’amore che un solo misero corpo, il suo, può contenere per questa
natura.
Andavo da lei perché speravo di imparare da quei suoi occhi, ad amarlo un po’ di più
anch’io questo mio peso, questo mio contrasto con ciò che per lei era sacro.
Che per lei era l’unica cosa che fosse degna di riscatto.
E non ho mai avuto bisogno di accurate testimonianze, non ho mai necessitato
nessuna delle loro parole per svuotarli dentro.
Non l’hanno ingannato questo mio sentire, che solo passandogli accanto è stato
nutrito dall’incertezza di un paese.
Dal disprezzo di una giardiniera.
Dalla rassegnazione della mia complice.
Ma come potevo dirgli che sapevo questo di loro?
Conosco pensieri che non hanno mai pronunciato. Non l’ho fatto… semplicemente,
sono scomparso tenendomi l’unica cosa che possedevo, l’unica che non faceva il
contrario.
É così che questo fazzoletto di terra ha iniziato a rivivere con me.
È diventato lo specchio della vita del mondo, ogni fiore, ogni foglia che trema con il
vento, è nata da uno di quei miei nervi scoperti.
Niente qui è lasciato al caso, tutto è frutto di me, di una mia sensazione che si è
riversata nella concretezza di una pianta e di un profumo.
E questo in me ha lasciato una consapevolezza impastata di speranza, sento già che un
giorno arriverà uno dei tanti.
Non da solo ma in gruppo.
Molti tireranno avanti, vendendo in questa mia opera un semplice giardino;
insignificante lo definiranno persino, ma ci sarà uno che camminando per andarsene,
oscillerà indietro.
Quasi si fosse scordato un particolare nel paesaggio degno di nuova analisi, capirà
cosa ho tentato di urlare al mondo.
Capirà d’esser malato anche lui.”

 

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2 commenti »

  1. Ciao Lucia Lucrezia, il titolo mi ha incuriosito. Come tecnico, ho cercato una definizione di Wikipedia per darmi una spiegazione ma la definizione è troppo complessa per il mio ragionamento. Uso le mie parole: prisma è lo spazio racchiuso da pareti regolari. Le pareti sono i quattro testimoni e anche l’autore (?) Il giudizio su di un uomo è sempre complesso, condizionato dai pregiudizi, dagli interessi (economici e personali), dalla delusione e dalla curiosità ma per fare un prisma regolare occorrono sei facce. Serve il rispetto della verità per completare il giudizio.
    Emanuele

  2. Ciao Emanuele, ci tengo subito a ringraziarti per l’interesse, il tuo tempo e soprattutto la tua curiosità!
    Il titolo è stato dato seguendo una logica più semplice e non geometrica, infatti l’ho in qualche modo ricollegato non solo alle molteplici facce che si possono attribuire ad un solo individuo ma pensando ad un prisma mi è venuto in mente lo scomponimento di una luce.
    La luce di un uomo, di cui i 3 testimoni esterni si sono limitati a percepire solo un colore.
    Grazie ancora per la richiesta di chiarimenti, spero che ti abbia coinvolto.
    Lucia

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