Racconti nella Rete 2010 “Genova” di Martino Provvidenza
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Genova. Ancora una volta. Il caos delle auto e degli scooters è meno fastidioso in una giornata splendida come oggi: il sole è caldo e rende il mare tranquillo di un blu straordinariamente brillante.
Il cielo terso ci si specchia e la sua luce mi abbaglia, nonostante gli occhiali da sole.
Siamo qui tutti e quattro, come ogni volta che andiamo al controllo oculistico di Elisa, ogni sei mesi, in autunno e in primavera.
Oggi, come sempre, nutro in cuor mio la solita speranza, che ci sia stato nei mesi trascorsi dall’ultimo controllo un miglioramento, anche piccolo, purché ci sia.
Siamo in ritardo, arriviamo da Torino, e durante il viaggio c’è stato un po’ di traffico, per cui abbiamo perso un po’ di tempo, oltre ad essere partiti con comodo alle nove meno un quarto, avendo l’appuntamento alle undici. Tanto, non so perché, arriviamo all’ambulatorio di oculistica, al padiglione 10, quando ci sono almeno una ventina di bambini che aspettano ed altri che arrivano dopo di noi, ma andiamo sempre via per ultimi, ma proprio sempre per ultimi.
Anche oggi è così. Tanti bambini, tante mamme, pochissimi papà, qualche nonno.
Oggi tante mamme di origine straniera: una parla spagnolo, ma non riesco a capire che origine abbia di preciso, ed ha un bimbo tenerissimo, che appena vede l’ortottista inizia a preoccuparsi e a piangere; un’altra mamma è africana, nigeriana direi osservandone i lineamenti, e sembra abbastanza infastidita per l’attesa, mentre la sua bimba cerca invano di fare amicizia con le mie, che la guardano senza nemmeno salutarla, forse intimidite dal colore della sua pelle, così scuro come non l’ha nessuno dei bimbi che conoscono.
Un’altra mamma invece, sicuramente genovese per via dell’accento, ha due bimbi di colore, dagli occhi neri, profondi come il mare di notte, immersi nel bianco smagliante delle sclere; una bimba di due anni che corre avanti e indietro dal nonno alla mamma e dalla mamma al nonno, ed un bimbo di sei mesi che porta nel marsupio, curioso e vispo. Lo guardo, gli sorrido, cerco di attrarre la sua attenzione e lui mi ricambia con piccoli ululati di stupore. La mamma invece, si vede, ha voglia di parlare dei suoi bambini, e mi racconta le performances della sua bambina, che a due anni si comporta come se ne avesse almeno il doppio. Già a dieci mesi, dice, teneva in mano la penna come un adulto e scriveva. A me sembra una normalissima splendida “duenne”.
E poi ci sono altri gemelli. Ci sono sempre tante coppie di gemelli al Gaslini, all’ambulatorio di oculistica, ci sono tanti gemelli di cui almeno uno ha problemi di vista.
Ma la mia attenzione è catturata di continuo da un’altra coppia genitore-figlia, un papà e la sua bambina. Lui mi colpisce per come è vestito: tunica color grigio, da cui spuntano le gambe di un paio di pantaloni neri, mocassini neri, cappellino bianco a base rotonda e col bordo tutto intorno, di altezza all’incirca di cinque centimetri, barba nera lunga almeno una ventina di centimetri.
La bimba ha un vestitino lungo di raso azzurro, con pizzi intorno al collo, ed il velo che le parte dai capelli raccolti sulla nuca. Ha una ferita intorno all’occhio destro, sorride, parla col suo papà, ma tiene del ghiaccio, avvolto dentro ad una garza, contro la guancia, appena sotto l’occhio.
Probabilmente arriva dal Pronto Soccorso, infatti il papà è impaziente, irritato, un paio di volte chiede di essere ricevuto dal medico all’infermiera che sia affaccia sulla porta per raccogliere le prenotazioni in ordine di arrivo.
Il mio primo pensiero?
“E’ un talebano”.
Il mio secondo pensiero?
“Dov’è la mamma? Perché la piccola non ha la sua mamma accanto in un momento come questo?”
Si sa, i bambini solitamente quando si fanno male cercano il conforto della mamma, prima di ogni altra persona. Sono madre e sono figlia. So come accade.
Il mio terzo pensiero?
“Fatti furba, non essere ottusa e non pensare ai libri che hai letto e ai film che hai visto”. Certe realtà non si dimenticano, e anche conoscerle attraverso i racconti di chi le ha vissute lascia il segno. Sono una donna. Mi fa male sapere che altre donne sopportano leggi e usanze che comportano violenze, umiliazioni, mancanza di libertà.
Mi sforzo di non pensare male di quest’uomo che accompagna la sua bambina, che del resto appare tranquilla, anche se non si guarda mai intorno, guarda solo il suo papà. In fondo siamo a Genova, non è possibile che ci sia una manifestazione di estremismo proprio qui, in un ospedale per bambini.
Qui, davanti ai miei occhi non può esserci un uomo che rispetta il suo dio ma non la sua compagna.
Scaccio i brutti pensieri. Le distrazioni ci sono, con tutti questi piccoli che giocano e schiamazzano.
A mio marito non rivelo le mie cattive riflessioni.
Il tempo passa in fretta, a poco a poco i piccoli se ne vanno.
Anche l’islamico se ne va con sua figlia, le mette un braccio intorno alle spalle, vanno via in fretta, un po’ prima di noi.
Finalmente tocca anche a noi, entro con Elisa, mentre mio marito resta in sala d’attesa con Marta.
La visita va bene, Elisa collabora, mette le “forchette” nella posizione giusta, anche quelle un po’ meno grandi, anche quelle che stento un po’ anch’io a vedere con un occhio solo. Insomma, il dottore mi dice che ha fatto dei progressi, che usa entrambi gli occhi contemporaneamente e che dobbiamo continuare con le occlusioni, perché c’è ancora qualche margine di miglioramento.
Esco felice e voglio festeggiare.
Come previsto, fuori in ambulatorio non c’è più nessuno!
Decidiamo di andare a mangiare in un ristorante in riva al mare, e andiamo verso Nervi. Ormai è l’una e fa davvero caldo; in macchina il termometro segna 30°, ed è solo aprile… Ci muoviamo lentamente con i finestrini giù, ci fermiamo quando avvertiamo distintamente il profumo della frittura di pesce, quindi cerchiamo parcheggio.
Che coincidenza. In una piazzuola sul lungo mare, mentre cerchiamo un posto vuoto, vedo scendere da una vecchia berlina nera l’islamico del Gaslini: parla al telefono, è solo.
Allora racconto i miei pensieri a mio marito, lasciandogli un po’ intuire la mia istintiva diffidenza verso quell’individuo.
Mio marito mi racconta che, mentre io avevo portato Elisa in ambulatorio e lui insieme a Marta cercava parcheggio intorno all’ospedale, aveva visto quella macchina parcheggiata, e dentro stava seduta una donna vestita di nero, completamente coperta, col burka. Si vedevano a mala pena gli occhi.
Una donna.
La mamma.
Ecco dov’era la mamma.
Parcheggiata insieme alla macchina.
Il racconto è cosi denso di e ricco di particolari che mi sembrava di essere anche io in quell’ambulatorio dove speranza e apprensione si fondono, il tema è attualissimo e ha il merito di portare all’attenzione di tutti la lotta per l’affermazione dei diritti delle donne calpestati nell’islam più radicale ma non solo. Brava