Premio Racconti nella Rete 2015 “L’Arno piccolo di Eolo” di Giuliano Pulcinelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Eolo corre con grandi passi saltellanti sull’ultimo più alto argine di sinistra, viene dal Portone e risale per buon tratto il corso dell’Arno.
Alceste si era piazzato, come era solito, nella posizione che all’incirca si trova centrale all’ansa, acuta svolta a destra, dove l’alveo si restringe e il fiume, scendendo da nord est sedimenta sul versante una consistente e penetrante zona triangolare sabbiosa.
Riteneva Alceste, che da anni vi bazzicava, in quel tratto la corrente più evidente, lo dimostrano le pietre arrotate ben assestate a sostegno e lungo il greto all’affiorare dell’acqua; tra le pietre scivolano le anguille, sosteneva.
Trovato il posto prossimo alla riva, infilava il bastone forcelluto con la cima sopra l’acqua una sessantina di centimetri, poi accanto a sinistra – lui era convinto dell’opportunità di metterla a favore della corrente – sdraiava, fermata come di consueto da grossa pietra, la canna di bambù sospesa sull’acqua, al cui capo aveva legato il manico dell’ombrello capovolto in modo che il puntale, dove la parte di tela era sostituita da una fitta rete, rimanesse immersa; la distanza tra la riva ed il centro dell’ombrello capovolto – calcolava Alceste che dimostrava la sua particolare teoria – doveva essere uguale a quello della mazzacchera, in equilibrio, sulla forcella.
Scapolo, viveva da sempre con la sorella Erminia, vedova e senza figli, e si godeva la pensione di stradino comunale che, in attività, al mattino presto inforcata la bici con al manubrio avvolto nell’ampio tovagliolo, sempre lo stesso: bianco con quadrati rossi, il fagottino della colazione di mezzogiorno e legate alla canna la pala e la ramazza di stipa, girava per le strade del quartiere dove aveva la manutenzione di zanelle e caditoie; alle quattro in punto, dopo otto ore di lavoro, smontava ed era il sornione tempo di pesca con la mazzacchera, canna corta e rigida, lenza di spago di giusta lunghezza zavorra con piombo di peso a tenere il filo in tensione affondato con il grappolo di vermi, esca grande quanto un pugno preparata la sera avanti con lombrichi scavati nella sugaia del proprio orto.
Al riparo della penombra, che si sta ritirando, del canneto stava Olileo di fronte ma un poco più a valle che di buon’ora era in barca a salpare le nasse.
Olileo era solito immerle costeggiando la riva destra protetta dal folto e lungo canneto, dove termina la zona sabbiosa, e che il vecchio pescatore, negli anni Cinquanta alla soglia della pensione sociale, da anni frequentava quel tratto dove la corrente è ferma o quasi da essere habitat ideale per pesci ed anguille, così sosteneva.
La sua barca a remi, fasciame di legno all’esterno verniciato di un verde pallido con la carena tratta a pece, era armata con pennone, bloccato a poppa, e carrucola fissa per la corda legata agli staggi con rete di quattro metri da tirare con verricello manuale e, dall’alba all’imbrunire salvo il riposo delle ore centrali, solcava il lungo tratto rettilineo.
Talora c’erano delle buone giornate.
Agganciata a sinistra, gli era più comodo per svuotare il guadino attraverso lo sportello superiore, teneva in acqua la gossa cesta dove guizzavano barbi e muggini, anche tinche e qualche lasca; scartava le carpe perché sapevano di fango, si giustificava, e non erano gradite dalla gente quando la moglie andava a vendere in paese girando su una vecchia bicicletta.
Seguendo le orme paterne, aveva cominciato da ragazzo a farsi le nasse con le stecche ricavate da canne di bambù; gli stampi, quelli del nonno e rinnovati anche dal babbo, erano dei pezzi di legno tondi, grossi una quindicina di centimetri, ben levigati e lunghi un ottanta centimetri rastremati ad una estremità a collo di bottiglia mentre altri erano più corti che terminavano a cono troncato; aveva contato che occorrevano da quindici a venti stecche, costantemente umide quel tanto che basta per piegarle a fasciare strettamente lo stampo che lo guidava anche nelle ultime cuciture alla rastrematura; quando erano asciutte, sfilava lo stampo e introduceva, forzando il tanto necessario, il piccolo cono mozzo con la base aperta che era la vera trappola per le anguille; la chiusura con un tappo di sughero amovibile e l’immersione era trattenuta da due canne infilate sul fondo.
Olileo faceva senza sapere; gli era naturale costruire la nassa di canna, gli era naturale il tipo di pesca con i tempi lunghi di calma in assonanza al placido Arno: ogni cosa deve rispettare il proprio tempo, sosteneva e non aveva bisogno di darsi ultertiori spiegazioni.
Dopo aver postato le nasse, scendeva lungo la corsia destra per calare la rete variando di tanto in tanto il luogo.
Era in quell’ora che il barcone, gravato dal peso della sabbia sfiora con il bordo della fiancata il pelo dell’acqua, discende trainato con un canapo da Cesare dal passo corto, cadenzato, lungo l’alzaia mentre Annibale, suo fratello più grande di tre anni, è alla pertica che immerge quando si porta a prua e spinge scendendo a poppa camminamdo sul levigato bordo e così mantiene la navigazione parallela al greto.
Prima di affrontare l’ampia curva sollevano lo sguardo con la certezza di incrociare il lontano viso di Eolo ora fermatosi sull’argine; un cenno del braccio lo faceva Cesare e Annibale agitava la pertica prima della nuova fatica: erano sicuri che Eolo vedeva e ricambiava.
Scendevano il fiume dopo l’estrazione di sabbia con l’acqua alle ginocchia; anche ora stavano a torso nudo, Cesare aveva una balla di iuta sulle spalle per proteggersi dalla corda, Annibale ancora in mutande con i piedi renosi levigava il legno.
Con Alceste scambiavano le parole.
Alceste chiedeva se dallo scavo veniva la rena pulita.
Di solito era Annibale a dire che la terra ancora non l’avevano raggiunta e, sollevando la pertica gocciolante, aggiungeva che, intorno, l’acqua era cristallina. Cesare invece si informava delle dimensioni delle anguille e specificava di preferire quelle sottili che lui chiamava “cannaiole” con un vago riferimento, chissà perchè, allo spessore delle giovani canne dolci, e, dopo una breve sospensione per respirare, “sono più tirate e più saporite” commentava e proseguiva, leggermente incurvato, nel tirare la fune.
Con Olileo, i due fratelli avevano meno confidenza, solo un breve reciproco cenno delle mani per salutare l’incontro.
In piedi fermo sullo stretto viottolo in terra rimarcato con ghiaino Eolo, giovane di età ma con il fisico invecchiato, controlla la vastità dell’Arno che scorre al di sotto dell’ampia golena che con lungo inclinato declivio sovrasta la via alzaia sopra il distacco con il pelo dell’acqua.
Dalla postazione potrebbe godere la vista dell’ansa, se ne avesse coscienza, in ogni caso smarrisce lo sguardo e inquadra la provenienza della barca dei renaioli quando stanno per superare Alceste che si scansa quel tanto per non intralciare Cesare con il canapo mentre Annibale manovra subito dopo per allargare sulla mazzacchera.
Eolo sventola la frusta in direzione della barca, ride a Cesare e ride ad Annibale che gli sono amici perché lo salutano sempre con affetto, ritiene, e mai hanno una parola cattiva nei suoi confronti; agita i capelli argentati arruffati, la lunga barba e i baffi tra il grigio e il giallognolo sotto il naso e ai lati della bocca, dai denti radi, per il mozzicone di sigaro che tira sino alla fine.
Uno spilungone pelle ed ossa, dice la mamma nel suo vestito scuro per tutte le stagioni e fasciato dal grembiule di tela nera fino alla punta degli zoccoli e nel suo foulard sbiadito a pois a nascondere i capelli raccolti e scoprire quel tanto il piccolo esangue viso di donna che la incerta e faticosa vita appesantisce di venti anni l’appena passata età sinodale.
E’ indefinitamnente preoccupata.
Quel suo ragazzo indossa calzoni di fustagno più volte rattoppati abbondanti in vita e corti alle caviglie regalati dal vicino coinquilino, basso e tozzo, che usava al cantiere stradale; sopra la scollata maglietta a mezze maniche porta la blusa, residuo della vecchia tuta celestina del meccanica, il mingherlino dell’officina alla Cella davanti alla sua abitazione nelle case basse di un piano nella strettoia tra la via Fiorentina e l’erbosa golena di fronte al viale alberato a cornice della sottostante riva sabbiosa.
La sensazione di goffaggine è estranea a Eolo, non se cura proprio, come non si cura dei capelli al vento rassomiglianti alla criniera equina non strigliata.
Oltrte al sacchetto per l’erba, rinsecchita, legato e in mano il laccio portato sulla spalla, ha la frusta sempre appresso che agita e sbatte sui calzoni e gli serve per incitare il suo fantasioso cavallo bianco che nitrisce per salutare, in riconoscenza, i renaioli, amici del suo padrone Eolo.
Dice Eolo che Alceste è suo amico perché gli dà da finire il mezzo sigaro toscano ma non prende le offerte anguille perché la sua mamma le identifica con i biacchi di cui ha paura ed orrore da quando ragazzina nei campi a falciare l’erba per i conigli ne sentì uno frusciare tra i piedi senza vederne la testa e ricorda ancora con brivido e tremore la svettante goda allontanarsi.
Eolo vede la barca e Olileo che sta pescando; è suo amico perché non lo schernisce per le sfrenate corse e da lui accetta il pesce, di solito un barbo di misura, che la sua mamma – di questo non ha timore, fa intendere sorridendo con parole mugolate – glielo prepara lessato e ben diliscato.
Lui sta sull’argine dove è sicuro di non incontrare i ragazzi, che gli fanno le baie, e le giovanette, che rifuggono quell’aspetto e lo scacciano coalizzate nel pensiero di incontaminata purezza quando egli, che avverte l’indefinita pulsione giovanile, vorrebbe essere carino con le, inaticolate, parole e gioviale con, buffo sorriso; allora diviene guardingo e scappa.
Solo le donne di età, che poi sono mamme od anche nonne, non temono Eolo; “povero figliolo” si dicono con tristezza scuotendo il capo ed il pensiero corre ai propri figli e nipoti che vengono su bene.
Nel mentre i renaioli sono al punto, Cesare alza un bracciio, Annibale agita la pertica e Eolo con singhiozzo nasale si arriccia il labbro sui denti cariati, schiocca la frusta e parte al trotto nella fantasiosa cavalcata.
Sotto a lui, nella golena superiore dove la curva è contrassegnata da intervallati dossi costruiti a pennello in terra e pietrame per rallentare, in inverno, la mugghiante corrente della piena, si trova Passerai, l’anziano commerciante di fieno, cui è consentito – nella primavera estate – di fare l’erba medica; tra i misurati e lenti colpi di frullana c’è il tempo di alzare gli occhi a salutare Eolo; ha già superato a sinistra le amiche Bocchette, costruzione su archi in parte ora interrati a fare da ponte alla Tosco Romagnola, residua testimonianza edilizia di saracinesche medicee di antico trabocco per bonifica a colmata, e si allontana nel furioso ritorno a casa in compagnia, là di sotto, del fiume che lento scivola al mare.
Giuliano Pulcinelli
Grazie Giuliano per il tuo racconto scritto, credo, usando la parlata fiorentina. Per me questa parlata ha il sapore dell’antico, del vissuto e del sentimento. La vicenda potrebbe essere d’inizio Novecento, i tuoi personaggi hanno nomi presi dalla mitologia greca e dalla Storia antica. Ci dai il ritratto dei personaggi, nitido nell’aspetto e essenziale nel carattere; giganteggiano tutti: Ci sono anche le mamme per la loro sensibilità e le preoccupazioni dei figli. Eolo va sul suo cavallo immaginario, felice dell’amicizia e dei doni dei frequentatori del fiume. E’ sempre presente l’Arno che va lento al mare con tutti i suoi ricordi.
Emanuele